Gestualità anarchiche

Pubblichiamo una recensione al volume di James C. Scott, Elogio dell’anarchismo. Saggi sulla disobbedienza, l’insubordinazione e l’autonomia (Eleuthera, 2014).

 

«L’insubordinazione quotidiana, silenziosa e invisibile (perché vola al di sotto del radar storico) non sventola bandiere, non ha funzionari, non scrive manifesti, non ha un’organizzazione permanente e si sottrae all’attenzione pubblica» (p.39).

Nel suo Elogio dell’anarchismo. Saggi sulla disobbedienza, l’insubordinazione e l’autonomia, J. C. Scott, antropologo e scienziato politico americano, studioso delle economie agrarie e delle società contadine del Sud-Est asiatico, mobilita quello che definisce uno sguardo anarchico, uno «sguardo obliquo sul mondo», per setacciare, tanto nel campo delle scienze sociali quanto nella vita quotidiana, ciò che resta invisibile ad altre letture, innanzitutto storiche e sociologiche. Invisibile perché fuori fuoco rispetto alla prospettiva che vorrebbe indagarlo; invisibile perché le domande tradizionali poste dall’accademia sono fondamentalmente rivolte ad altro. Attraverso questa particolare prospettiva di indagine emerge dunque un’articolazione di gesti che compongono una «prassi anarchica» quotidiana. Una prassi, cioè, che si può considerare portatrice di simili caratteristiche anche in assenza di un’aderenza all’anarchismo storico e alle sue figure di riferimento, alla filosofia anarchica e ai suoi pensatori, alle consolidate abitudini militanti, ma tale perché situata altrove rispetto allo Stato, alle sue strategie di governo e al dialogo istituzionale. Una prassi anarchica di informalità e anonimato, silenzio ed elusività, opacità ed extra-istituzionalità.

Nonostante gli aneddoti e le riflessioni nate da esperienze personali che Scott introduce nel suo testo già contengano quella gestualità quotidiana che lentamente erode e si ritaglia spazi nel meccanismo statale e istituzionale, il background di studi sui contadini del Sud-Est asiatico è sicuramente l’angolazione necessaria attraverso cui leggere la forza, ma anche la semplicità e l’immediatezza, di questa prassi. «Discrete e anonime, come per la diserzione, queste “armi del debole” contrastano nettamente con le sfide aperte, pubbliche rivolte al medesimo obbiettivo. Se quindi la diserzione è un’alternativa a basso rischio dell’ammutinamento, l’uso abusivo di un terreno è un’alternativa a basso rischio dell’occupazione delle terre, il bracconaggio e il furto di legname sono un’alternativa a basso rischio della rivendicazione dei diritti di caccia, pesca e legnatico. Per gran parte della popolazione mondiale di oggi (e sicuramente per le popolazioni subalterne che si sono succedute nella storia), queste tecniche hanno rappresentato l’unica forma politica disponibile nel quotidiano» (p. 38).

C’è allora una diserzione della sfida aperta nello (e dello) spazio pubblico, spazio di dialogo in cui lo Stato e i suoi traduttori e mediatori sono gli unici attori riconosciuti e autorizzati a proferire parola. Non rivendica e non manifesta, non si struttura e non si organizza per poterlo fare, ma solo agisce, utilizza, riprende. In questo dialogo tra lo Stato e ciò che è stato ricondotto alla forma statuale, qualcosa sfugge: è qui che lo sguardo obliquo anarchico riesce a osservare quel che si sottrae al discorso istituzionale. È, quindi, altrove rispetto alla politica della piazza e del mercato che si trovano modalità di agire politico che non riescono a penetrare – e forse non lo vogliono – sul piano della politica statuale e istituzionale, e che sono in movimento negli interstizi di questa, nei luoghi d’ombra, nelle zone opache. (Piuttosto che allo Stato, conviene pensare alle diverse forme di statualità e strategie di statalizzazione, cioè, per così dire, a quell’insieme di operazioni di regolamentazione – «appropriazione e controllo» nelle parole di Scott – che tendono a ridurre all’ordine ciò che a esse stesse appare come disordine).

Da un lato c’è quindi un movimento di sottrazione rispetto alla questione centrale della visibilità istituzionale e dello spazio pubblico di dialogo: qui si può nascondere una cattura che porta all’inquadramento, al disinnesco delle istanze più radicali, alla traduzione in un linguaggio non proprio della propria rabbia e dei propri gesti, consegnando il conflitto a gestori esperti e accreditati. Dall’altro lato questa prassi è una prassi di resistenza, e mantiene attiva quell’autonomia e quel vivere che la macchina da guerra statuale aveva scardinato e ristrutturato in altro modo, ordinandola tanto nel tempo quanto nello spazio. Basti pensare, restando ad alcuni esempi forniti da Scott, al tempo e allo spazio di lavoro rimodellati nella fabbrica, ai metodi di coltivazione differenti dall’agricoltura industriale, alla progettazione urbanistica che plasma la struttura apparentemente caotica e disordinata di certi quartieri, alla lingua ufficiale e nazionale che soppianta le abitudini linguistiche vernacolari.

È nell’intreccio di questo doppio aspetto che si innesta un elemento fondamentale della riflessione di Scott, cioè il fatto che questa prassi anarchica possa essere di massa, sposata dall’intera comunità, popolare, quindi frequente e approvata. Se soddisfa queste condizioni si ha una sorta di azione collettiva che, di fatto, ha la forza di revocare la legiferazione dello Stato, semplicemente ignorandone la legge, rimanendo silenziosi alle sue richieste. Qual è lo spazio di movimento, quanto si può osare, in maniera, diciamo, silenziosa e anonima? Non è un caso che molti esempi riportati da Scott provengano dalla vita di tutti i giorni e risultino talvolta davvero basilari – la velocità ammessa in strada, i semafori –, ma proprio per questo si rivelano particolarmente efficaci. Ma rileggendo il frammento sul bracconaggio, il furto di legname e l’uso abusivo di terre si può inquadrare con estrema chiarezza quella prassi anarchica, evasiva dell’occhio istituzionale, della dimensione pubblica e del dialogo con lo Stato, quel sabotaggio silenzioso che ne corrode la macchina e le pretese.

Si può scoprirsi anarchici senza saperlo, senza definirsi tali, «senza aver mai sentito parlare dell’anarchismo o della filosofia anarchica» (p.10)? Si può scoprirsi anarchici senza volerlo essere, sicuramente senza proclamarlo energicamente, ma semplicemente lasciando affiorare un pensiero e delle pratiche che incontrano i capisaldi del pensiero e delle pratiche anarchiche? Per Scott questa non è solo una proposta teorica ma anche una sensazione, un presentimento, che muove innanzitutto da se stesso e dal contemporaneo panorama politico americano. Senza voler disarticolare completamente il gesto dal significato politico che questo porta, senza voler recidere il legame che stringe il gesto in sé a chi lo compie, ciò che emerge con efficacia in questo testo è una costellazione di gestualità disobbedienti, insubordinate e autonome. Una gestualità anarchica anche senza anarchismo.

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