George Alexander Louis tra i Giardini di Kensington

A proposito di alcune anologie tra il royal babe George Alexander Louis e Peter Pan, l’eroe vittoriano della letteratura per l’infanzia.

George Alexander Louis a detta del suo illustre padre è un simpatico birbaccione, uno spensierato tiratardi. Campeggia in una posa plastica, tra le braccia di mammà, in una foto amatoriale, digital-popolare, scattata dal nonno borghese.

Tutto è immerso in una luce di conciliante quotidianità: una famiglia come tante, con un cane come tanti, in una posa come tante. In una realtà profondamente contraddittoria, frammentata e conflittuale come la nostra l’immagine conciliante di questo ritratto familiare funge da surrogato simbolico di un sentimento di unità nazional-patriottica sempre rimosso, costantemente spostato e riposizionato in un altrove fatto di piccole patrie dai confini cangianti, minacciate da orde zombie di migranti. Così la nevrosi mediatica cresciuta attorno al regale nascituro contamina l’immaginario, inebria anche testate giornalistiche “repubblicane” come il Guardian, travolge steccati ideologici e proietta la Gran Bretagna sull’Isolachenoncè del volemose bene.

Di certo il radioso futuro che attende il piccolo George non verrà minimamente turbato dalla precarizzazione “a zero ore” dei lavoratori di una delle associazioni impegnate nel sociale e patrocinate da babbo e zio, o dalla memoria dell’esplosione di rabbia che nell’agosto del 2011 coinvolgeva la periferia londinese. Come un altro illustre pargolo britannico, il Peter Pan di sir James Barrie, potrà mostrare i bianchi e aguzzi dentini da latte ed esclamare: «Io sono la giovinezza, io sono la gioia, io sono un uccellino appena uscito da un uovo»[1].

Ma a pensarci bene l’analogia tra il royal baby e l’eroe vittoriano della letteratura per l’infanzia non è del tutto campata in aria, ammesso e concesso che non l’aspergiamo di polvere di fata e le lasciamo esprimere un pensiero felice.

Spostare la prospettiva dell’immagine dall’intenzionalità della fotocamera al neonato consente di rovesciare l’analisi, di guardare alla fotografia come ad un oggetto estraneo. In questo modo poniamo una distanza tra noi e l’immagine per distinguerla dalla trama continua della narrazione mediatica, per rilevarne i contorni e ridarle lo spessore perduto. Quasi volessimo guarirla dal cattivo incantesimo che l’ha appiattita sulle prime pagine dei tabloid di mezzo mondo.

Allo stesso modo possiamo rovesciare lo sguardo sul mito letterario di Peter Pan e trattarlo come se fosse un indovinello troppo complesso per un bambino, un gioco di parole estraniante perché privo di senso[2]. Non dovremmo allora sorprenderci di scoprire che questo domandare estraniante sul mondo letterario di Barrie determina un ulteriore rovesciamento della rappresentazione nell’ordine delle idee e dei valori del contesto storico-sociale vittoriano. Allora, forse, Peter Pan avrà qualcosa da suonare con il suo flauto anche per George Alexander Louis.

Ma andiamo con ordine e cerchiamo, innanzitutto, i tratti più vistosi di questo indovinello. In Peter Pan nei Giardini di Kensington Peter incarna l’archetipo della sconfinata libertà dell’infanzia, di un immaginario che non vuole sottomettersi a niente e nessuno. Neanche alla tutela delle cure materne, alle quali fugge quasi senza rimorsi per vivere tra i Giardini di Kensington oltre l’orario di chiusura, tra le fate pronte ad esaudire il suo sconfinato desiderio di diventare un uccello.

In Peter e Wendy il tòpos del ratto della giovane vergine, la piccola Wendy Darling condotta da Peter Pan sull’Isolachenoncè insieme ai suo fratelli per svolgere la funzione di madre dei bambini perduti, culmina nella lotta con il capitano James Uncino e con l’esclusione finale dell’eroe vincitore dalla sicurezza domestica del focolare borghese dei Darling. Nello sviluppo della vicenda Wendy viene progressivamente abbandonando la gioiosa confusione della mente infantile – il punto di forza di Peter nella lotta con Uncino – per riconciliarsi con la ferrea prevedibilità e tranquillità del padre, Mr. Darling «uno di quegli uomini seri che si intendono di titoli e di azioni» anche se «a dire il vero, nessuno sa come vadano queste cose, ma lui sembrava capirle e spesso parlava di azioni in rialzo e di titoli in ribasso con tanta competenza che nessuna donna avrebbe potuto fare a meno di ammirarlo»[3].

Parallelamente la vicenda di Peter si sviluppa nel senso di un completo ed hegeliano riconoscimento durante il duello finale del proprio antitipo, il capitano Uncino, rigidamente inserito negli schemi di comportamento aristocratici, residuo umano di un’epoca tramontata e votata al culto dell’onore:

Nelle sue maniere si nota anche qualche traccia del gran signore che è stato e mantiene una nobile compostezza anche quando sgozza i suoi nemici. Si dice che fosse anche un raconteur di fama. Più si dimostra garbato, e più sembra minaccioso, il che probabilmente è la prova più autentica del suo retaggio aristocratico. […] Uomo di indomito coraggio, si dice che l’unica cosa che lo faccia sobbalzare sia la vista del sangue, che è denso e di colore insolito. Negli abiti scimmiottava lo stile che si suole associare al nome di Carlo II, da quando, agli inizi della sua carriera, qualcuno gli ha fatto notare che riscontrava in lui una strana somiglianza con gli sventurati Stuart[4].

Questo personaggio, fedele alle tradizioni del suo lignaggio, sfida Peter Pan ad una leadership sull’Isolachenoncè giocata tutta sul piano dell’eleganza e dello stile, dell’onore e del rispetto dei suoi sottoposti, e a suo modo trionfa quando trascinato via dal coccodrillo – rappresentazione ticchettante della Storia – riconosce che il proprio avversario lo ha sconfitto aggirando le regole del duello e mancando di buone maniere.

Mr. Darling e Uncino da un lato, Wendy e Peter dall’altro. Disciplinamento borghese e aristocratico contro immaginario infantile. Mediante questo chiasmo sir James Matthew Barrie mette in scena uno dei nodi irrisolti della società vittoriana all’inizio del XX secolo – Peter nei Giardini di Kensington è un racconto pubblicato nel 1906 – quello che potremmo definire il nodo epistemico della nursery, ovvero “quale pedagogia, quale rapporto questa società deve intrattenere con l’universo dell’infanzia?”

L’emergenza di questo primo problema si colloca accanto a un ulteriore livello d’interpretazione, che coinvolge la spiegazione storico-causale. Secondo Martin J. Wiener la perdita del primato economico britannico tra XIX e XX secolo, a vantaggio di potenze emergenti come Stati Uniti e Reich bismarckiano, è stata determinata in gran parte e nel lungo periodo dalla progressiva integrazione del capitalismo inglese – unitariano e di origini piccolo-borghesi e cittadine – nella Weltanschauung tradizionalista della piccola e grande aristocrazia terriera[5].

Questa subalternità culturale alimentata dall’istituzionalizzazione delle publics schools e dall’ideologia vittoriana si sarebbe tradotta – tra il 1851 (anno dell’Esposizione Universale di Londra) e il 1870 – in una vera e propria “controrivoluzione dei valori”, in un’inversione dell’Inghilterra-Officina dei capitani d’industria di Manchester e Liverpool nell’Inghilterra-Giardino neogotica e preraffaellita.

Se, come vuole Wiener, l’ideologia industrialista inglese è stata cooptata e diluita nell’ideologia aristocratica e tradizionalista dell’età vittoriana, allora il mito letterario di Peter Pan può essere letto come il feticcio della sopravvivenza della prima nella seconda. Lo spirito d’imprevedibile innovazione, di sfrenata brama di conquista, di narcisistica autocelebrazione incarnato da Peter, e che Uncino vuole imbrigliare in una lotta per la vita e per la morte a colpi di bon ton, si ritira alla fine del racconto nel proprio regno immaginario, lasciando la scena alla felicità domestica dei Darling, il nucleo familiare borghese vittoriano par excellence.

Cessata l’epoca dei Peter Pan, innovatori degli schemi nelle tecniche e nei rapporti di produzione, all’Inghilterra d’inizio XX secolo non rimarrebbe che la celebrazione di un futuro-passato ri-conciliato, del microcosmo ordinato delle gentry e della piccolo borghesia urbana.

Se ritenessimo esaustiva la spiegazione di Wiener, allora la serenità dell’immagine familiare con William, George e Kate si collocherebbe all’interno di una serie di ritratti di famiglia ancor più intimisti e quotidiani, in quanto prodotti dall’immaginario britannico post-tatcheriano.

V’è però un ulteriore livello d’analisi, alternativo alla contestualizzazione del mito letterario di Peter Pan all’interno della spiegazione storica di Wiener. Si tratta di una strada lasciata aperta dallo stesso Barrie nelle venature horror che connotano l’atmosfera dei Giardini di Kensington, da cui lo stesso Peter Pan è influenzato per quanto riguarda la carica impulsiva di alcuni suoi inquietanti atteggiamenti.

Due esempi, il primo relativo a Mamie Mannering, la bambina per la quale le fate costruiscono la Casetta dei Giardini di Kensington, il secondo riguarda invece un Peter Pan in versione creatura-della-notte, di fronte a una Wendy adulta e madre di una bambina:

Ma quando scendevano le ombre della notte, Tony lo spaccone perdeva la noncuranza che aveva per Mamie e la guardava impaurito. E non c’è da meravigliarsene, perché quando calavano le tenebre Mamie assumeva un aspetto che possiamo solo definire sinsitro. Aveva tuttavia un’espressione serena, in netto contrasto con lo sguardo turbato di Tony. Tony le regalava allora i suoi giocattoli preferiti (che si riprendeva il giorno dopo) e Mamie li accettava con un inquietante sorriso. […] Tony la scongiurava di non farlo quella notte, e la madre e la bambinaia di colore la minacciavano, ma Mamie si limitava a mostrare il suo angosciante sorriso[6].

Wendy fece scorrere le sue dita tra i capelli di quel tragico bambino. Non era più la bambina che si struggeva per lui. Era una donna che sorrideva ripensando al passato, ma il suo sorriso era bagnato di pianto. Poi accese la luce e Peter vide. Lanciò un urlo di dolore e quando quella meravigliosa e alta creatura si chinò per prenderlo tra le sue braccia, Peter indietreggiò bruscamente.
«Che significa?», urlò di nuovo. Wendy dovette dirglielo.
«Sono vecchia, Peter. Ormai i miei vent’anni sono passati da un pezzo. Da tempo sono cresciuta».
«Avevi promesso che non lo avresti fatto!».
«Non ho potuto farci niente. Sono una donna sposata, Peter».
«Non è vero!».
«Sì, è vero. E la bambina nel letto è mia figlia».
«Non ci credo!».
Poi, però, pensò che era verò, sguainò il pugnale e si avvicinò alla bambina che dormiva. Ovviamente non la colpì. Si sedette sul pavimento e scoppiò a piangere[7].

La ricorrenza in questi passi di aggettivi come “sinistro”, “inquietante”, “angosciante”, l’ambientanzione notturna, la comparsa di un pugnale utilizzato da Peter come arma per difendersi da una possibile minaccia, lasciano trasparire nella narrazione di Barrie un fondo oscuro.

Peter Pan e il suo microcosmo narrativo affiorano infatti da uno schema letterario mitologico, quello dell’essere che elargiva nelle società tradizionali ai giovani del gruppo l’esperienza positiva di morte e rinascita nell’iniziazione, ma che nelle condizioni della società e della cultura moderne diventa un personaggio “orchesco”, il feticcio funereo di una sopravvivenza in un contesto nuovo. L’occorrenza è già stata rilevata da Furio Jesi, per il quale la letteratura vittoriana per l’infanzia, le raccolte di fiabe, miti e tradizioni religiose dell’epoca proliferano di feticci funerei, di vero e proprio horror.

Il mitologo torinese colloca la letteratura per l’infanzia vittoriana all’interno di un insieme più vasto fatto di opere letterarie, raccolte di materiale etnografico e folklorico, letteratura di genere come Dracula di Bram Stoker e classici della scienza antropologica come Il Ramo d’oro di Frazer. Tutti questi elementi sarebbero accomunati dalla catalogazione ed esposizione – proprio come in un museo – di affioramenti mitologici da culture preindustriali e premoderne, trattati come «segreti che è lecito esibire socialmente solo in forme riduttive»[8].

Questo atteggiamento riduzionista, teso a spiegare e razionalizzare il lato inquietante della magia, del rito religioso, della tradizione premoderna è ciò che Wittgenstein rimprovera allo stesso Frazer nelle sue Note sul “Ramo d’oro”.

Il punto è che secondo Jesi, al di là della polemica antipositivista del filosofo austriaco, Wittgenstein vede nella valutazione frazeriana della magia un atteggiamento superficiale in quanto incapace di esorcizzarne gli aspetti più inquietanti[9]. Con la sua riduzione a primitivismo della violenza fisica e psicologica intrinseca nelle tradizioni descritte nel Ramo d’oro, Frazer aggira l’inquietante sorriso notturno di Mamie Manning e consegna alla società vittoriana i suoi peggiori incubi, uno sfondo indicibile di massacri coloniali e violenza sull’infanzia.

Come nota Jesi il linguaggio attraverso il quale Frazer – e forse anche Barrie – esprimono i contenuti mitologici al centro delle loro opere è un linguaggio oggettivante che sottende l’incredulità degli autori e dei lettori alla verità fattuale delle vicende mitologiche citate o narrate. Se il sorriso di un bambino appena nato ha dato vita alle fate, un atto di incredulità infantile ne uccide una.

La soluzione di Wittgenstein non richiede tuttavia un ritorno alla credulità infantile, un mistico ri-evocare la verità fattuale degli affioramenti mitologici, ma un esercizio di analisi e ri-composizione delle inquietudini suscitate dalla narrazione[10].

Cosa ha a che fare questo excursus nei Giardini di Kensington con la prima foto del royal baby? In che senso le critiche di Wittgenstein alla collezione folklorica e mitologica del Ramo d’oro possono essere rivolte all’immagine da cui siamo partiti?

Quello che mi premeva mettere in luce non è tanto una spiegazione storica della sopravvivenza dell’istituto monarchico britannico nel 2013, ma l’uso dell’immagine conciliante della giovane famiglia reale per la costruzione di una menzogna politica, l’armonia sociale del Regno Unito.

Certo, il credito emotivo che una giovane madre con il suo piccolo riscuote sul consumatore di tabloid è un vantaggio non indifferente per il potere simbolico di un’istituzione del passato, a caccia di legittimazione sociale. Ma v’è di più: la produzione e l’uso di un certo tipo di immagini – il rasserenante quadro familiare immortalato dalla fotografia amatoriale del nonno – in cui affiorano e funzionano residui mitologici attraverso i quali infanzia e horror, futuro e passato, si scontrano con le contraddizioni politiche, sociali ed economiche del presente[11].

Rileggere le avventure di Peter Pan e ritornare a guardare il presente con la distanza vittoriana dei suoi occhi ci aiuta a dissodare la mitologia depositata in queste immagini.

 

Note

[1] J. M. Barrie, Le avventure di Peter Pan, tr. it. di P. Falcone, Newton Compton, Roma 2008, p. 219.

[2] Per la genealogia dello straniamento come procedimento letterario cfr. C. Ginzburg, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 15-39.

[3] J. M. Barrie, op. cit., p. 70.

[4] Ibid., pp. 121-122.

[5] M. J. Wiener, Il progresso senza ali. La cultura inglese e il declino dello spirito industriale (1850-1980), tr. it. di P. Ignazi, il Mulino, Bologna 1985.

[6] J. M. Barrie, op. cit., p. 38.

[7] Ibid., pp. 242-243.

[8] F. Jesi, Wittgenstein nei giardini di Kensington: le «Bemerkungen über Frazers “The Golden Bough”», in Nuova corrente, nn. 72-73 (1977), p. 172.

[9] Cfr. L. Wittgenstein, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, tr. it. di S. de Waal, Adelphi, Milano 1975, p.19.

[10] Cfr. Ivi: « Credo che l’impresa di dare una spiegazione sia sbagliata già per il semplice motivo che basta comporre quel che si sa, senza aggiungervi altro, perché subito si produca da sé quel senso di soddisfazione che si ricerca mediante la spiegazione. […] Qui si può solo descrivere e dire: così è la vita umana». A partire da queste osservazioni Wittgenstein elabora e sviluppa uno dei concetti cardine del suo “secondo modo” di filosofare, il concetto di “rappresentazione perspicua” (übersichtliche Darstellung). Sarebbe interessante approfondire come l’intento wittgensteiniano di descrivere gli usi lingusitici piuttosto che spiegarli sia stato influenzato e stimolato dallo sguardo estranianete sul tedesco letterario da parte dei bambini della Bassa Austria, durante l’esperienza del filosofo come maestro elementare nelle scuole di Puchberg e Trattenbach tra il 1920 e il 1926; sull’argomento cfr. W. W. Bartely III, Ludwig Wittgenstein maestro di scuola elementare, ed. it. a cura di D. Antiseri, Armando, Roma 1975.

[11] Per il rapporto tra mito e menzogna politica rimando sempre a C. Ginzburg, op. cit., pp. 40-81.

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