Una recensione a “Storie di Gap, terrorismo urbano e Resistenza” (Einaudi 2014), l’ultimo libro di Santo Peli.
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione,
andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati,
nei campi dove furono impiccati.
(P. Calamandrei, 1955)
La scelta del più autorevole rappresentante del Partito d’azione di inserire le «montagne dove caddero i partigiani» in cima all’elenco dei luoghi simbolo della Resistenza, non è casuale. La carica evocativa di cui – si potrebbe dire naturalmente – è dotata la montagna per lungo tempo ha alimentato la narrazione resistenziale, contribuendo a disegnare i profili dei suoi protagonisti sul modello di moderni Robin Hood, adusi a muoversi in territori impervi, tra boschi e strade pedemontane, e capaci di trovare lì riparo e sostentamento. Il libro di Santo Peli racconta un’altra Resistenza, che stride con quell’immaginario mitico innanzitutto perché non suscita immedesimazione sul piano emotivo, anzi la rigetta: la Resistenza dei Gruppi d’azione patriottica (Gap), ovvero di quelle «formazioni di pochi uomini aventi per compito l’azione terroristica […]» (G. Rochat, 1972, p. 252). La formula, coniata dal Comando generale del Corpo volontari della libertà (Cvl), contiene tutti gli elementi che “giustificano” il silenzio che per lungo tempo vi è stato su queste formazioni partigiane.
La lotta “terroristica”, infatti, contemplando tutta una serie di predisposizioni che devono possedere coloro i quali scelgono di praticarla (sangue freddo, capacità di studio attento delle abitudini dell’avversario, vita solitaria e clandestina), mal si prestava ad essere avvolta da quell’aura di romanticismo così calzante, invece, per la guerriglia di montagna, dove il combattimento e il disagio della vita che si conduceva venivano comunque affrontati collettivamente dalle bande. Guerriglieri di montagna e guerriglieri di città dunque: due protagonisti della guerra di Liberazione che, tuttavia, hanno avuto fortune diverse nel racconto pubblico e nella ricostruzione storiografica. A ciò ha contribuito non poco l’atteggiamento del Pci, ovvero la forza politica che ai Gap aveva dato vita, passato dalla orgogliosa rivendicazione (nella prima fase della Resistenza, in quanto emblema della sua compattezza e affidabilità), alla sospensione (nella seconda fase, dopo la svolta di Salerno, perché motivo di divisione con gli altri partiti), alla vera e propria destituzione (negli anni Settanta, quando sono i brigatisti ad appropriarsene) di quella storia.
Il termine “terrorismo” è diventato così un “tabù”, sinonimo di follia omicida che non poteva neppure divenire oggetto di studio nel pur rinnovato clima che attraversava la ricerca storica. Sarebbero dovuti passare vent’anni affinché, grazie al monumentale studio di Claudio Pavone (1991), la comunità scientifica indossasse lenti nuove per osservare questo come altri rilevanti fenomeni della vicenda bellica italiana. Santo Peli, che già nelle riflessioni sull’interpretazione e la memoria di quel periodo mostrava di aver raccolto le sollecitazioni del grande storico della “guerra civile” (2004), in questo importante lavoro non si fa remore a battere strade della ricerca storica ancora intentate o al più solo timidamente sondate, confermando che anche uno studio scientificamente rigoroso nell’uso e nella interpretazione delle fonti archivistiche, così come nel filtraggio di quelle memoriali, può condensarsi in una forma narrativa fluida e avvincente, non pregiudizialmente rivolta solo agli “storici di professione”.
Il volume ripercorre le vicende del “gappismo” attraverso la messa a fuoco di una varietà di casi. Più che una trattazione completa e definitiva – pressoché impossibile oggi – su questi gruppi, è dunque un tentativo di individuazione di elementi comuni a esperienze diverse e di cesure periodizzanti, poiché, come afferma lo stesso Peli nell’introduzione, «Ogni singola vicenda del terrorismo urbano acquista senso e comprensibilità solo se inserita nel contesto sociale, politico e militare in continua e rapida evoluzione nel frenetico triennio 1943-1945» (p. 8).
La convinzione di dover sviluppare azioni di tipo terroristico matura presto nei vertici del Partito comunista. Nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre, a fronte di una situazione in cui l’occupazione tedesca delle città minaccia di produrre arrendevolezza e rassegnazione, deprimendo persino quell’entusiasmo che gli scioperi di marzo e la mobilitazione operaia durante i 45 giorni avevano suscitato, occorre che piccoli gruppi fortemente determinati rompano, prima che si stabilizzi, quella cupa e passiva «pseudonormalità» (p. 22). Naturalmente, è nelle previsioni dei dirigenti politici la reazione feroce dei nemici, ma non si può accettare il ricatto della rappresaglia sui civili: bisogna costringere i tedeschi, che sulle prime mantengono un profilo basso allo scopo di accreditare l’idea che nulla sia cambiato, a reagire, mostrando la feroce verità dell’occupazione. Del resto, ci vorrà del tempo perché sulle montagne si inizi ad organizzare militarmente, rendendole efficienti, le bande partigiane in via di formazione.
I primi attentati gappisti, eseguiti in diverse località (tra cui Firenze, Genova, Milano e Torino) tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1944, sono dirompenti e di relativa facilità di preparazione, poiché del tutto inaspettati: obiettivi degli attacchi sono il comandante del Distretto militare di Firenze, Gino Gobbi (1 dicembre 1943), e il federale del Pnf di Milano, Aldo Resega (18 dicembre). Più complessa risulta, invece, la realizzazione dell’esecuzione di Italo Ingaramo, comandante della Gnr di Firenze (29 aprile 1944), e di Camillo Nicolini Santamaria, questore di Milano (3 febbraio 1944). La riuscita di queste azioni, pur rappresentando il punto più alto del gappismo, segna altresì la fine del suo primo ciclo (pp. 71 sgg).
Nella seconda fase, dall’estate alla primavera del 1945, l’organizzazione entra in una crisi profonda: i gruppi durano pochi mesi e vengono subito falcidiati, mentre, venuto meno l’effetto sorpresa, cambiano anche i bersagli, sicché, stretti nella morsa della repressione, agli attacchi mirati si privilegiano quelli dinamitardi. Questa nuova pratica solleva forti dubbi nel vertice del partito, preoccupato del consenso delle masse ad attacchi che rendono impossibile sapere chi effettivamente si trovi sul luogo al momento dell’esplosione (vedi lo scambio di lettere tra Pietro Secchia, a nome della Direzione Nord del partito, e Arturo Colombi, responsabile della federazione comunista di Torino, pp. 161-6). Da questa situazione generale si differenzia l’esperienza dei Gap emiliano-romagnoli che, dall’estate del ’44, individuano nella fuoriuscita dalle città e nel rapporto con le campagne, sul modello delle brigate partigiane di montagna, lo strumento non solo della loro sopravvivenza, ma soprattutto del rilancio dell’organizzazione (capitolo V.). La loro, però, è una vicenda isolata.
Per i comunisti, nella mutata fase occorre garantire una partecipazione di massa all’insurrezione che, anche in virtù dell’espansione delle formazioni partigiane in montagna, sembra velocemente avvicinarsi. Ora più che mai, con la fame, i bombardamenti e le privazioni, le città sperimentano l’acme della guerra e dell’occupazione. Gli obiettivi del movimento di Liberazione devono adeguarsi ai nuovi problemi che la situazione pone, e in tale rinnovato contesto i Gap appaiono superati: superata sembra essere ormai l’organizzazione in quanto tale, per la crisi che l’ha investita, ma superata è soprattutto la funzione per cui i Gap erano stati pensati. È in questo frangente che si affacciano sulla scena le Squadre di azione patriottica (Sap), gruppi di operai armati e inquadrati militarmente che, come le brigate Garibaldi, e diversamente dai Gap, agiscono con spirito unitario, colpendo la bassa manovalanza fascista, le spie e i militi in libera uscita, dedicandosi anche a sabotare strade e linee ferroviarie. Con questo paradigmatico passaggio di testimone volge al tramonto la stagione dei Gap, anche se «[…] il modo “gappista” di combattere si è invece visibilmente sedimentato, è entrato a far parte diffusamente della fase estrema della guerra civile» (p. 170), come dimostrano le vicende legate alla brigata volante Balilla, attiva protagonista della prosecuzione della guerra partigiana nell’area di Genova (pp. 171-180).