From there to here

“From There To Here” è un progetto fotografico di Giulio Piscitelli che verrà proiettato giovedì 1 giugno all’Angelo Mai di Roma in occasione di “We Are One | Festa della Repubblica dei Desideri“, una giornata dedicata al tema delle migrazioni e dell’accoglienza. Ospitiamo, di seguito, la presentazione del fotografo.

Per poter arrivare dove si vuole, tutto dipende da dove ci si trova.

Jose Saramago, Cecità

Il problema dell’immigrazione verso l’Europa non è di tipo numerico, ma burocratico: è un problema di passaporti, perché essi non hanno tutti lo stesso valore e lo stesso potere di far viaggiare le persone. Il problema dell’immigrazione è un problema dialettico, perché dimentichiamo che un migrante può essere anche chiamato viaggiatore, ed è attraverso questo problema dialettico che avviene la deumanizzazione di queste persone, quando soprattutto i giornalisti (ambito al quale appartengo) dimenticano di parlare di persone che viaggiano e le trasformano in entità in movimento con minore diritto di farlo rispetto ad altri,  allora nasce la figura dell’immigrato, del profugo o peggio del clandestino. Ma se tutti avessero possibilità di spostamento attraverso vie legali, la figura del clandestino non esisterebbe, nessuno è clandestino, lo si diventa.

A mio parere, in questa prospettiva anche la figura del contrabbandiere, passeur, trafficante di uomini o che dir si voglia, acquista un altro volto; queste persone, che senza ombra di dubbio sono dei criminali, rispondono al tempo stesso a una necessità alla quale non c’è risposta: quella del poter viaggiare. Probabilmente se le migliaia di persone che in questi anni hanno viaggiato in modo inumano avessero avuto la possibilità di viaggiare in libertà, non avrebbero avuto necessità di affidarsi ai contrabbandieri e di conseguenza figure di questo tipo non sarebbero esistite e molte morti si sarebbero potute evitare.

La crisi dell’immigrazione sta sbattendo in faccia al mondo occidentale e benestante le disuguaglianze che il modello economico e sociale fin qui utilizzato ha creato: la crisi è una metafora delle contraddizioni relative alla redistribuzione dei diritti nel mondo. Attraverso la possibilità o meno di viaggiare, si palesa ai nostri occhi l’esistenza di una classificazione dell’umanità generando un mondo di serie A ed uno di serie B. Ma in un mondo dove modelli culturali ed economici vengono presentati e diffusi attraverso i media e soprattutto internet, come fa il mondo occidentale benestante a pensare che le persone più povere del globo non richiedano con forza quegli standard che a loro sono stati negati praticamente da sempre?

Come possiamo pensare noi occidentali ed in particolare l’Europa, di continuare a non pagare un pegno per gli enormi danni sociali ed economici  che sono stati creati (e che continuano a persistere) durante l’epoca coloniale? Con il continuo sfruttamento di risorse, i cui profitti non arrivano alle popolazioni locali, con il continuo foraggiare di capitali regimi dittatoriali, purchè agevolino le economie delle grandi multinazionali e gli interessi di stati occidentali, lasciando a chi vive li solo la miseria o peggio la guerra? L’Europa è circondata da catastrofi alle quali ha partecipato e partecipa, un’Europa che si rifiuta di guardare l’ipocrisia dell’aiuto umanitario d’emergenza, spacciandolo come l’unico mezzo praticabile per aiutare le persone ed allo stesso tempo si continuano ad innalzare muri trasformando una problematica sociale in una di sicurezza. Un’Europa contraddistinta dalla pietà e dall’indignazione da social network, che muove le masse per il tempo di una visualizzazione su Facebook. 

Probabilmente fino a quando il modello economico internazionale sarà basato sullo sfruttamento, non si arresterà la fuga di chi cerca un posto migliore per sé ed i propri cari, né si arresteranno le proteste crescenti di chi vive schiavizzato con minori diritti rispetto a una parte di mondo che se ne frega esplicitamente. È il capitalismo baby…
Questa crisi in un modo o nell’altro finirà e noi europei saremo probabilmente liberi  di non pensare a quello che succede fuori dalla nostra porta, saremo anche più soli, ignoranti e impauriti; difesi e coccolati dai muri che abbiamo costruito. Muri fisici e ideologici che abbiamo costruito ex novo o che abbiamo resuscitato dalle ceneri populiste e xenofobe dei secoli appena trascorsi.

Come si sentiranno le migliaia di persone respinte alle nostre frontiere, recluse nei centri d’accoglienza o nei ghetti più o meno visibili d’Europa? La negazione del diritto a una vita migliore da parte dell’Europa a migliaia di persone in arrivo o che già vivono sui nostri territori non è molto diversa dalle politiche attuate dai regimi dittatoriali che ci sentiamo in diritto di criticare. Dittatori che fanno comodo o meno a seconda del momento storico: pensiamo a Gheddafi, con il quale si sono stretti accordi per arginare i flussi di disperati provenienti da tutta l’Africa, ma che nel 2011 abbiamo bombardato dopo aver fiutato l’odore degli investimenti petroliferi. Oppure al 2016 quando la storia si è ripetuta con il governo turco o marocchino, chiudendo gli occhi dinnanzi alla violazione giornaliera dei diritti delle persone in cambio della tranquillità e della sicurezza.

Sono spaventose l’ondata dilagante di populismo e razzismo alimentata dalle scelte politiche degli ultimi anni e il costante aumento della mancanza di empatia che si diffonde a macchia d’olio grazie alla spinta della paura dell’invasione. Come figlio del sud mi sono sentito spesso vicino alle sofferenze patite dalle persone che ho incontrato. Ho visto in loro quella che è stata l’emigrazione della mia terra, un’emigrazione di giovani che continua tutt’ora a causa della mancanza di giuste politiche e dell’abbandono delle istituzioni.

Non ho potuto non immedesimarmi in uno qualsiasi di questi giovani che ho visto sulle barche, provenienti dal sud del mondo e che aspira a un posto migliore dove vivere; lo fanno tutti i giorni i miei conterranei, diretti nelle capitali del nord Europa alla ricerca di un lavoro, qual è quindi la differenza? Conoscere questa realtà, che lascerà una traccia indelebile nella storia del nostro continente, è stata una scuola di vita, mi ha insegnato a essere consapevole e critico nei confronti di ciò che vedo e vivo, e soprattutto mi ha fatto tessere dei fili di vicinanza e ragionamento tra quella che è la realtà della terra del sud alla quale appartengo e i Paesi di provenienza delle persone che ho incontrato.

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