Politicamente corretto: un regime morale conformista

Pubblichiamo un’intervista di Maddalena Gretel Cammelli a Jonathan Friedman in occasione dell’uscita per Meltemi del suo nuovo lavoro, Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime

L’intervista, che affronta anche questioni di cui ci siamo occupati di recente, viene pubblicata oggi in lingua inglese su FocaalBlog (Journal of Global and Historical Anthropology).

MGC: Nel tuo testo descrivi quello che definisci «un regime morale», quello del Politicamente Corretto, che sarebbe caratterizzato da una «moralizzazione» dell’universo sociale, nonché da una diffusa «cultura della vergogna» che tu ritieni sintomatica della fine del pensiero razionale e utile ad alimentare un «meccanismo di protezione delle identità che non riconoscono l’argomentazione razionale».

In sostanza, nel tuo ragionamento, il PC è sia un fenomeno dell’attualità di questo momento storico, una specifica forma comunicativa, sia contemporaneamente un sintomo dell’attuale crisi egemonica e dunque un ingranaggio nel processo di costituzione di nuove élite globali, che tentano di affermare la propria egemonia.

Ora, il tuo ragionamento è totalmente inserito all’interno del percorso che hai sviluppato durante l’evoluzione del tuo pensiero scientifico – mi riferisco alla “scuola” dell’antropologia del sistema globale.

Per semplificare il contesto del tuo ragionamento e renderlo più accessibile a un lettore meno esperto, ti chiederei in principio di dare una sintetica spiegazione di cosa intendi per antropologia del sistema globale: cosa caratterizza maggiormente questo approccio all’analisi dei fenomeni sociali?

JF: L’antropologia del sistema globale si sviluppa dalla metà degli anni Settanta, a partire dalla constatazione che il modello di spiegazione sociale all’epoca dominante – nel quale gli unici fattori ritenuti rilevanti erano quelli interni alla stessa società – fosse sbagliato. Tali assunzioni si basavano per la maggior parte sulle teorie dell’antropologia evoluzionista, sul funzionalismo e sul funzionalismo strutturalista, i quali assumevano che una società potesse essere un organismo che si auto-organizza e si auto-riproduce, e che dunque potesse essere compresa analizzando i suoi soli elementi interni. Anche il marxismo, specialmente il materialismo storico, si fondava su questi assunti.

L’ipotesi contraria che è stata sviluppata, in principio da Kajsa Ekholm Friedman, riguardava proprio il fatto che tutte le società fossero imbricate in sistemi di relazioni più ampi, e dunque il fatto che vi fosse sempre una distinzione cruciale tra l’ordine sociale e il più ampio sistema sociale di cui questo è parte. Questo punto è stato poi sviluppato in un modello di riproduzione sociale in cui i cicli di riproduzione erano storicamente più ampi di quelli della sola società. Si metteva così in discussione il primato evoluzionista: le cosiddette società primitive – usate per illustrare l’esistenza di un’età della pietra – risultavano in realtà essere prodotti della marginalizzazione che avveniva all’interno di sistemi imperiali. Dove si trovavano società più isolate si sollevava la domanda relativa a come queste realtà si fossero isolate, e questo processo spesso aveva a che fare con relazioni predatorie di più ampia scala che avevano condotto alcune popolazioni verso zone più sicure, oppure avevano a che fare anche con il collasso di sistemi più ampi.

L’archeologia ha poi confermato molta parte di questa ri-concettualizzazione del vecchio schema neo-evoluzionista. Il paleolitico e il neolitico erano organizzati in sistemi regionali di scambio, guerre, ma anche in cicli di espansione e collasso/declino.

La formazione delle prime civilizzazioni corrispondeva alla formazione di ampi ordini imperiali. In Mesopotamia si è sviluppata una grande civilizzazione come risultato di un surplus agricolo. Le pietre per i suoi templi, così come lo stagno e il rame per i bronzi, erano tutti importati. Ed è sempre più chiaro oggi che in queste civilizzazioni antiche vi era una forma di capitalismo, anche piuttosto elaborata. La natura di questi sistemi, con l’avvento di antiche civilizzazioni, è sorprendentemente simile al mondo moderno. Strutture commerciali, schiavitù, salari, accumulazione di capitale e struttura di classe sono luoghi comuni – e pure dominanti – nella storia del mondo. Un aspetto cruciale è che questo sistema ha una sua specifica dinamica di espansione e contrazione che segue schemi ciclici, i quali includono l’accumulazione di ricchezze nei centri seguita da un movimento di ricchezze verso altre zone, spesso periferiche: il declino del centro e lo sviluppo di nuovi centri – finanziati dai centri più vecchi – attraverso l’esportazione di ricchezze (capitale). Questo ciclo di civilizzazione di lunga durata è accompagnato da trasformazioni socio-culturali maggiori.

MGC: A fondamento dell’analisi sistemica vi è una riflessione sui cicli della storia: cosa intendi per “declino egemonico”? chi esercita egemonia su chi? E poi: come definisci il termine egemonia (rispetto, per esempio, alla diffusa definizione di Gramsci dello stesso termine)?

JF: In questa analisi, egemonia fa riferimento alla centralità politico-economica e al potere su di una regione ampia che è organizzata in centro/periferia e semi-periferia. Queste ultime non sono categorie fisse, bensì forme emergenti: le periferie sono risultato di un processo di periferizzazione, un complesso di scambi ineguali e di sfruttamento coloniale. Questa non è l’egemonia di una classe ma di una regione, e per questo si discosta dalla nozione gramsciana. L’egemonia può prendere la forma dello sfruttamento delle risorse di una grande regione e anche l’assoggettamento di quella regione. Può anche comportare il controllo sia economico che politico di quella stessa regione. Ci sono molte variabili qui, dall’impero formale alle strutture imperiali informali. Con “declino egemonico” ci si riferisce alla perdita di egemonia: in termini sistemici globali questo accade a partire da un processo di decentralizzazione di accumulazione di ricchezza e di potere in relazione al sistema più ampio. Questo conduce a un incremento di competizione, crisi, violenza e infine allo slittamento verso un nuovo centro egemonico emergente. L’attuale passaggio di egemonia dall’Europa Occidentale e dagli Stati Uniti verso l’Asia dell’Est e del Sud è un esempio di questo fenomeno.

MGC: Nel libro usi spesso anche il concetto di “inversione ideologica”: cosa intendi?

JF: “Inversione ideologica” si riferisce al processo tramite cui il contenuto dell’ideologia si trasforma in quello che potrebbe essere considerato il suo opposto. Lo si usa per fare riferimento a un insieme di slittamenti delle seguenti tipologie: il nazionalismo era considerato un valore progressista negli anni Cinquanta e Sessanta, e ora invece è considerato reazionario. Faccio riferimento a una serie di termini che sono stati sostituiti dai loro opposti nel seguente modo:

1968                                                1998

il nazionale                                    il postnazionale

il locale                                           il globale

collettivo                                        individuale

sociale(ista)                                   liberale

omogeneo                                      eterogeneo

monoculturale                              multiculturale

eguaglianza (somiglianza)         gerarchia (differenza)

In questo slittamento la nozione di “progressista” ha subito un cambiamento sostanziale. La sinistra contemporanea rappresenta il globale, l’individuale, il liberalismo, il multiculturalismo e pure il post-nazionale, esempi di un mondo che nei fatti assomiglia molto all’ideologia di quello che era chiamato neo-liberalismo. Uno slittamento importante qui è quello che ha portato il cuore delle rivendicazioni a passare dalla classe alla cultura. La classe lavoratrice, o quello che ne è rimasto, è ora considerata reazionaria e razzista e ad oggi è la nuova borghesia, la sinistra bio (latte left), che spinge la lotta rivoluzionaria. Ma ovviamente non c’è nessuna lotta rivoluzionaria, questa sinistra bio (latte left) è infatti totalmente inserita nello status quo.

MGC: Qual è dunque la relazione tra l’attuale fase di crisi egemonica e il proliferare di modalità comunicative caratterizzate dal PC?

JF: PC come ho detto è un fenomeno generale in cui si ottiene il controllo sociale usando pensieri che associano idee che dividono il mondo tra ciò che può e ciò che non può essere detto. Questo emerge in periodi di instabilità in cui si teme di dire la cosa sbagliata, fenomeno spesso associato a un senso di vergogna. La vergogna è uno degli strumenti principali del PC. Il PC può essere utilizzato in molte situazioni differenti e non è in sé associato a un tema politico particolare, anche se io sono stato accusato proprio di questo. Voglio dire che non è una questione di multiculturalismo versus fascismo, come alcuni sono stati portati a pensare. Al contrario, il PC può essere utilizzato in situazioni anche piuttosto distinte. Come fenomeno contemporaneo io lo collego a una situazione di declino egemonico che è in sé un periodo caratterizzato dall’emergere di una élite cosmopolita in una situazione di crescente polarizzazione di classe. Questa élite cosmopolita cerca di rafforzare il proprio potere, che è precario poiché non è realmente consolidato né accettato, in più modi: invocando un’immagine del mondo che supporti la propria avversione verso l’identità nazionale liberale; attaccando coloro che stanno perdendo la propria sicurezza sociale e che si lamentano della direzione della società e del fatto che si sentono completamente ignorati; categorizzando questi ultimi come rappresentanti del diavolo, e di razzismo, nazionalismo, fascismo.

Trasformando l’identità cosmopolita in un’ideologia generale questa emergente élite crea un intero linguaggio per descrivere il mondo che ha bisogno di essere imposto, in una situazione in cui, come minimo, non tutti sono d’accordo. Il PC è un modo per evitare argomentazioni apertamente razionali attraverso un processo che de-classifica moralmente il nemico, rendendo in tal modo l’argomentazione superflua. La caratteristica principale del PC è il suo procedere attraverso associazioni di idee. Questa è una forma di comunicazione che è tipica di situazioni in cui il sé individuale è considerevolmente indebolito, dove il narcisismo è diventato dominante, e cioè di situazioni in cui il soggetto è sempre più dipendente da quello che è chiamato lo “sguardo dell’altro” per sopravvivere psicologicamente. È in situazioni di questo tipo che il controllo attraverso lo strumento dell’associazione di idee può funzionare.     

MGC: Il libro ha attivato un dibattito in Italia poiché in effetti è uscito in un momento in cui la situazione politica che sta attraversando il Paese rende la tua lettura del PC di grande attualità. Al tempo stesso la prospettiva critica che tu porti è estremamente fine e alle volte è stata, in modo sommario e scorretto, definita essa stessa come fascista o alimentante forme di razzismo. Ora, come sai il contesto italiano ha visto in questi anni, ma ancora più nei mesi recenti, un proliferare nel dibattito pubblico di questioni legate al senso dei termine fascismo oggi e anche all’attualità di concrete forme di razzismo.

JF: Il libro affronta proprio la questione relativa al modo in cui sono proliferate accuse di fascismo e al modo in cui ad esempio un approccio critico verso le politiche migratorie può essere ri-categorizzato come razzista, fascista, o addirittura nazista. Dunque, lasciami essere assolutamente chiaro rispetto a questo fraintendimento. Essere critici rispetto alla situazione attuale di immigrazione di massa non ha nulla a che fare con il fascismo… altrimenti i neri negli Stati Uniti che sono stati critici dell’immigrazione per anni sarebbero essi stessi fascisti. Il fascismo è un’ideologia ben più sofisticata di così. In questo libro io provo ad analizzare i processi concreti attraverso cui si produce questo tipo di categorizzazione. Se sono critico delle politiche migratorie, allora sono critico verso gli immigrati e dunque sono razzista dal momento che gli immigrati vengono da altre culture e se i fascisti sono razzisti allora i razzisti sono anche fascisti. In questo modo di categorizzare il mondo, i liberali sono per definizione progressisti. Questo è ciò che ha portato, tra l’altro, Fox News a chiamare il New York Times un «giornale comunista», mentre Obama e Soros sono celebrati come «progressisti» o addirittura rivoluzionari. È interessante considerare cosa è successo quando forme leggere di PC hanno fallito… In particolare, sarebbe anche interessante esplorare le argomentazioni celate dietro all’influenza Russa nelle elezioni nazionali, al perché Trump ha battuto Hilary, alla collusione con Putin, etc. Ciò che qui viene assunto è che società come Cambridge Analytics possono cambiare il corso delle elezioni diffondendo notizie false e che le persone sono totalmente manipolate dai media. In questo modo il populismo sembrerebbe null’altro che la manipolazione delle persone attraverso le forze del male il cui obiettivo è fare vacillare la democrazia. Mentre non è necessario discutere del modo in cui gli Stati Uniti hanno finanziato Yeltsin in Russia e hanno sempre cercato di utilizzare la propaganda per cambiare la direzione della politica in altri Paesi, dovrebbe essere ovvio che l’isteria sollevatasi dopo la vittoria di Trump da parte del Partito democratico ha tutte le sembianze di una forma magica di PC che è impazzita.

MGC: A tuo avviso esiste una relazione tra l’emergere e il diffondersi del PC e il prosperare oggi del razzismo – non solo nei discorsi ma anche nelle pratiche? In che modo la diffusione e l’utilizzo di uno specifico linguaggio e di un “regime morale” della vergogna hanno attivato l’insofferenza verso le problematiche legate alle difficoltà concrete della vita in società multiculturali in declino?

JF: Nei miei precedenti lavori sulla relazione tra il declino egemonico, la crisi, le migrazioni e forme di etnicizzazione ho discusso il collegamento tra ciò che ho chiamato “doppia polarizzazione” e il fenomeno dei crescenti conflitti etnici e del “razzismo”. La doppia polarizzazione fa riferimento alla frammentazione simultanea della sfera nazionale, che era dipendente da una forte identità e ideologia modernista che si è disintegrata negli anni Ottanta, portando così all’emergere di identità culturali sub-nazionali, e conducendo a una polarizzazione orizzontale e a una polarizzazione verticale. Sto facendo riferimento a come una parte della popolazione stia vivendo una crescente mobilità verso l’alto e si stia sempre più identificando con un certo liberalismo cosmopolita, mentre le classi più basse, proletarie, in declino, siano diventate sempre più nazionaliste e populiste. Il razzismo cui faccio riferimento è piuttosto generalizzato in questo periodo di frammentazione, e non è riducibile ai precedenti fenomeni di suprematismo bianco o ariano, anche se le nuove élite dichiarano queste cose. L’attuale paura del populismo sembra più corrispondere a una resurrezione della nozione di “classi pericolose”, ora definite come masse “anti-democratiche”.

MGC: Quale è il rapporto tra nuove élite, PC e il fenomeno di immigrazione di massa? Nei tuoi studi metti in comparazione l’attuale fase di crisi egemonica con altre nella storia dell’umanità: in che modo credi che la comparazione storica possa arricchire la profondità analitica rispetto alla complessità e all’attualità delle problematiche legate all’immigrazione oggi?

JF: Questa è una grande questione. Ci sono molti esempi di declino egemonico e di migrazione di massa nella storia. La relazione tra questi due fenomeni è il fatto che in periodi di declino egemonico si produce una generale disintegrazione dell’ordine gerarchico imperiale che porta alla proliferazione di differenti poteri in competizione fra loro, all’interno di un mondo in frammentazione, con crescenti conflitti, guerre, crisi economica e quindi anche migrazioni (come fughe o abbandoni). Spesso ci si è riferiti alle invasioni barbariche nel mondo antico, alla fase finale dell’età del Bronzo nel 12 secolo a.C., alla crisi greca negli ultimi secoli prima dell’ascesa dell’egemonia di Roma e al declino stesso dell’impero romano. In tutte queste fasi, i cosiddetti barbari erano popolazioni delle “periferie” che erano precedentemente integrate, e che dunque erano in vari modi influenzate dal declino dell’ordine imperiale, che spesso avveniva attraverso un movimento verso centri imperiali più deboli. 

MGC: Infine: qualcuno ti ha definito fascista o anche razzista. Ti chiederei dunque di esplicitare in modo chiaro il tuo pensiero al riguardo. Come ti posizioni? Ad esempio, nel testo racconti che Breivik ha citato il tuo lavoro… come mai a tuo avviso? E cosa ne pensi? Bisogna per forza di cose essere “fascisti” per avanzare critiche alla “sinistra” e alla gestione dell’immigrazione?

JF: Non sono sorpreso dalla tua domanda poiché il PC è proprio questo, e vi si esprime piuttosto bene la natura della crisi ideologica che attraversa una certa élite emergente e coloro che vi si identificano. Breivik mi ha citato un paio di volte, principalmente rispetto alla natura dell’immigrazione oggi  (nel mondo del PC il fatto di essere citato da Breivik fa di me un fascista). In particolare riguardo all’immigrazione islamica, la formazione di una cultura diasporica che si pone in maniera oppositiva rispetto ad alcuni valori tipici dell’Occidente non è una mia invenzione. Io cito, non di meno, il lavoro di Bassem Tibi, che ha scritto su questi argomenti in Germania per parecchie decadi. La formazione di società parallele all’interno dello Stato-nazione non è semplicemente una questione di prima fase di integrazione. L’integrazione avviene in periodi di crescita. In periodi di declino la migrazione conduce alla formazione di popolazioni segregate e nel caso dei Musulmani, che sono un’ampia parte degli immigrati in Europa, questo rende difficile elaborare ideologie alternative e forme culturali, creando così le condizioni per un conflitto. Un certo Islam è ben adattato a questa situazione data la sua auto-definizione in relazione all’Occidente nella storia del mondo. Questo non dovrebbe stupire nessuno… è perfettamente logico nella situazione contemporanea. Non ci sono terroristi buddisti in Europa, né terroristi Hindu né Latino-americani. La situazione è complessa, certamente, ma vi sono implicate alcune tendenze chiare. Qualche anno fa (2001) ho scritto un articolo sul terrorismo islamico in cui criticavo la posizione della sinistra liberale seguita al 9/11, rispetto alla quale sarebbe tutta nostra responsabilità…Chomsky e soprattuto Galtung che hanno dichiarato che Al Quaeda rappresentava la reazione del mondo povero contro il potere dell’Occidente. Questo argomento era come dire che gli Islamisti non erano altro che mere estensioni della nostra stessa volontà, che loro non avevano nessuna intenzionalità propria, un atteggiamento questo tipicamente coloniale rispetto alla comprensione dell’“altro”. La mia argomentazione sosteneva che vi erano una serie di strategie autonome coinvolte in molte comunità musulmane, il che, ovviamente, non equivale a dire che tutti i musulmani pensano nello stesso modo. Non tutti i tedeschi erano nazisti così come non tutti gli italiani erano fascisti. Le strutture sociologiche riguardano il modo in cui certe ideologie sono implementate e possono diventare dominanti, non da ultimo poiché queste risuonano con uno schema culturale potente. Questo ha a che fare semplicemente con il modo in cui funzionano certe identità culturali. Chiamare questo islamofobia o fascismo è semplicemente come dire che “questo non mi piace” o che “trovo questa cosa pericolosa”, che a sua volta equivale a dire che “preferirei non discuterne”. È più importante scoprire cosa sta accadendo piuttosto che essere sorpresi da quello che avrebbe dovuto essere ovvio. La nozione che l’immigrazione è qualcosa di intrinsecamente positivo è semplicemente assurda, sia per coloro che avrebbero preferito restare a casa loro, sia per le popolazioni che ricevono. Per lo meno sarebbe utile discutere criticamente.

Come sostengo nel libro, e come già discusso sopra, essere contrari all’immigrazione non dovrebbe essere né di destra né di sinistra, come è evidente dagli scrutini dei neri negli Stati Uniti e dalle posizioni esplicite ad esempio del Partito comunista francese negli anni Settanta. Il fatto che il “padre” svedese della social-democrazia fosse un ammiratore di Mussolini non dovrebbe stupire nessuno che conosca la storia del socialismo. La critica al PC non è la soluzione a nessun problema: ma un invito ad aprire un confronto su questi problemi con gli occhi aperti.

 

 

Print Friendly, PDF & Email
Close