Frankenstein, una macchina per pensare

Il Frankenstein di Mary Shelley non è solo un fortunatissimo romanzo dell’orrore.

Il Frankenstein di Mary Shelley non è solo un fortunatissimo romanzo dell’orrore che ha generato numerose riletture letterarie, teatrali e cinematografiche ma anche una «straordinaria, insemplificabile macchina per pensare». Tale è l’idea di fondo che muove il recente saggio di Franco Pezzini, dal titolo Fuoco e carne di Prometeo. Incubi, galvanisti e Paradisi perduti nel Frankenstein di Mary Shelley di recente pubblicazione per Odoya. Il romanzo della Shelley oggi ha ancora molto da dirci. Lasciando da parte le facili interpretazioni in chiave reazionaria, secondo le quali le uccisioni perpetrate dal mostro rappresenterebbero una sorta di punizione divina allo scienziato per aver osato valicare i confini assegnati all’uomo, il personaggio di Frankenstein è il paradigma di una grande responsabilità nei rapporti interpersonali. In questo senso, il romanzo si dimostra ancora molto attuale, in quanto rappresenta la responsabilità, anche politica – nei confronti di ciò che si è creato. Quella narrata è la tragedia del non riuscire a comprendere «chi ci è affidato dalla vita o dal concreto delle nostre azioni. La grande tragedia in fondo di un mondo sempre più efficiente (la rivoluzione industriale, la produzione di massa) che però crea esseri senza nome, sempre più rabbiosi, abbandonati e ignorati, allontanati persino da quelle istanze di Bellezza che rendono la vita diversa. […] Perciò» continua Pezzini, «ha probabilmente ragione chi definisce politica la struttura ideale dell’intero romanzo, in riferimento non tanto a singole contingenze storiche ma a una più generale riflessione politico-filosofica sul rapporto tra uomo e società».

Alla base della storia del giovane studente di filosofia naturale Victor Frankenstein – colui che infonde la vita in una mostruosa Creatura – è il retroterra culturale dell’autrice Mary Shelley. Per la sua formazione è senza dubbio fondamentale l’influsso dei genitori: William Godwin, «intellettuale radicale, giornalista e romanziere ma soprattutto filosofo politico, tra i primi rappresentanti moderni dell’utilitarismo e del pensiero anarchico», e Mary Wollstonecraft, scrittrice, filosofa e attivista per i diritti della donna. Se il Frankenstein deve molto alle pagine di Rousseau, sia da un punto di vista filosofico che narrativo (soprattutto all’Emilio, riguardo alle prime esperienze sensoriali della Creatura), ciò è sicuramente ascrivibile all’ambiente culturale domestico, in quanto i genitori di Mary gli avevano dedicato studi appassionati e lo avevano continuamente citato nei propri scritti. Su un altro versante, per quanto riguarda il titanismo di matrice romantica ampiamente presente nel romanzo, è invece fondamentale l’apporto fornito dal poeta Percy Bysshe Shelley, marito di Mary. Nel 1814 – Mary è appena diciassettenne – i due fuggono insieme in Francia e «attraversano come figure da romanzo romantico la Francia e poi la Svizzera». Mary e Percy sono tra i primissimi inglesi ad aver intrapreso la via del Grand Tour dopo l’interruzione dovuta agli eventi napoleonici. Costretti successivamente a ritornare in Inghilterra, si recarono di nuovo a visitare la Svizzera nel 1816, stabilendosi vicino alla dimora di Lord Byron, Villa Diodati. Ed è proprio qui, nel giugno 1816, quello che è passato alla storia come «l’anno senza estate» (una gigantesca eruzione del vulcano Tambora, in Indonesia, aveva infatti sprigionato ceneri vulcaniche nell’atmosfera raffreddando il clima), che Mary, Percy, George Byron e John Polidori, per un gioco nato da una scommessa, si mettono a scrivere storie dell’orrore. Mary, per l’appunto, scriverà la prima stesura del Frankenstein, pubblicata poi nel 1818.

Fuoco e carne di Prometeo è costruito come un saggio dall’impianto narrativo e racconta la storia del romanzo invitando continuamente il lettore a una riflessione di ampio respiro sulle problematiche psicologiche e sociali sollevate dal libro e abbracciando con lo sguardo diversi aspetti della società del tempo. Come “finestre” aperte verso la nostra epoca, invece, vi sono poi tanti paragrafi dedicati alla fortuna del Frankenstein nel teatro, nel cinema, nel fumetto. L’intero romanzo appare come un racconto svolto dal protagonista, Victor, al capitano di una nave che si trova imprigionata fra i ghiacci del Polo (all’interno di uno spazio, quello della nave, che secondo Foucault rappresenta l’«eterotopia per eccellenza», cioè un luogo separato dal normale contesto quotidiano). L’inizio della storia è affidata alle lettere che il capitano Walton scrive alla sorella Margaret, nelle quali rende nota l’impresa che intende compiere, la ricerca del passaggio a nordest verso l’Oceano Pacifico. Nell’impresa titanica che il giovane Walton vorrebbe compiere sono numerosi i richiami alla Bibbia e al Paradiso perduto di Milton, e lo saranno anche successivamente, nel corso del romanzo. Ecco che qui si mette in moto – osserva Pezzini – la «straordinaria macchina per pensare»: i riferimenti biblici, riconoscibilissimi per un lettore dell’epoca, sono imbastiti su un contesto laico, anzi «orrido e magari blasfemo»: «il riferimento alla Bibbia mette in moto catene di spiazzanti connessioni simboliche, provocazioni ulceranti e tutto il complesso di una straordinaria macchina per pensare». Riferimenti alla Genesi si riscontrano anche nel momento in cui Victor infonde la vita nella sua creatura, ma qui ritroviamo trasfigurata anche una vera e propria scena di parto «con la blasfema sostituzione a una madre di uno scienziato uomo».

Spaventato dal volto della Creatura, Victor scappa e la abbandona a se stessa. Secondo Pezzini, l’irresponsabilità dello scienziato nei confronti della Creatura può riflettere l’irresponsabilità di Percy nei confronti della prima figlia avuta da Mary, poi morta dopo due settimane di vita. Come si evince da alcune lettere della Shelley, ella stessa si sentiva trascurata dal marito: quindi Victor che fugge irresponsabilmente di fronte alla sua creazione riflette, in un certo senso, Percy che non si occupa come dovrebbe della figlia e della moglie.

La «macchina per pensare» del Frankenstein introduce anche il tema della giustizia. La giovane Justine, governante della famiglia Frankenstein a Ginevra, viene accusata ingiustamente dell’assassinio del fratellino di Victor, William, in realtà ucciso dalla Creatura che medita vendetta contro il suo creatore. Justine finirà per essere condannata a morte. L’episodio, secondo Pezzini, «ha un valore più specifico nel senso di una riflessione/denuncia – a dirla con papà Godwin – di giustizia politica». Infatti, «nell’opera Inchiesta sulla giustizia politica e sulla sua influenza sulla morale e sui costumi moderni (1793) ricordata anche nella dedica del Frankenstein, Godwin evocava il valore dell’opinione pubblica contro la falsa opinione, la superstizione e il pregiudizio, visti come i veri sostenitori del dispotismo». Questa riflessione sulla giustizia presente nel romanzo risponde quindi a una vera e propria scelta narrativa schierata.

Un altro tema molto importante presente nel libro è quello della solitudine e della disperazione provocate dall’incomprensione da parte degli esseri umani. La Creatura è emarginata dal contesto sociale dell’umanità e per questo, nel profondo, è anche ribelle. Rispetto alle riletture cinematografiche – nota l’autore – il romanzo possiede in sé una disperazione autentica e inconsolabile: è la disperazione nata dalla terribile consapevolezza di essere un diverso e un emarginato. La rabbia e l’istinto di uccidere nascono come una vendetta nei confronti del contesto sociale e, nella fattispecie, del suo creatore Victor Frankenstein. Respinto dalla famiglia di De Lacey, la Creatura ne incendia la casa, dopo che l’anziano padre è fuggito assieme ai suoi figli. La ribellione insita nel personaggio del mostro può far pensare alla rivolta dei luddisti, avvenuta proprio negli anni che precedono l’uscita del romanzo, fra il 1811 e il 1817: il proletariato ribelle, sui giornali dell’epoca – che titolano «The monster is on the loose» («il mostro è libero») – veniva appunto assimilato a un monster. La Creatura ribelle diventa quasi uno «schiavo ribelle verso il padrone-padre. Frankenstein nasce in questo clima e con tutte le domande poste dal nuovo contesto industriale a intellettuali di formazione libertaria: e tale devastazione di campo e casa De Lacey da parte della Creatura sembra estremamente significativa».

L’emarginazione dal contesto sociale e la conseguente ribellione della Creatura è un aspetto presente anche nelle riletture cinematografiche. Fra le numerosissime pellicole dedicate al romanzo della Shelley, questo aspetto emerge in due fra le migliori: nel capolavoro di James Whale, Frankenstein (1931) e nella geniale parodia realizzata da Mel Brooks, Frankenstein Junior (1974). Il primo fra i due film consegna all’immaginario successivo l’icona del mostro, interpretato da Boris Karloff. Nella celebre scena dell’incontro con una bambina, insieme alla quale si mette a cogliere fiori in un prato, la Creatura appare come un essere dall’animo gentile. Quando però incontra ostilità e avversione da parte degli esseri umani, emergono rabbia e  violenza distruttiva. Emarginato e ribelle, il mostro, nelle scene finali, invece della casa di De Lacey, incendia un mulino, simbolo del lavoro umano e dello sfruttamento a esso legato (che, ancora, ci può far pensare alle macchine distrutte dai luddisti). Allora, in definitiva, la violenza della Creatura appare come uno specchio che riflette la vera e profonda violenza degli esseri umani che, pronti a difendere la propria comunità dal “diverso” senza comprenderlo, non esitano a emarginarlo e a dargli la caccia. E questo tema oggi, purtroppo, appare di stringente attualità. Ancora una volta, anche al cinema, Frankenstein continua ad essere una straordinaria macchina per pensare.

[Ancora sul capolavoro di Mary Shelley: qui vi avevamo parlato di come un altro testo lo interpreta come fondativo di una fantascienza femminista. Recensione a cura di Cecilia Cruccolini].

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