Scritture migranti e spazi anonimi di narrazione: “Fra-intendimenti” di Kaha Mohamed Aden

Pubblichiamo una recensione di Caterina Bragantini alla raccolta di racconti Fra-intendimenti di Kaha Mohamed Aden (Nottetempo, 2010).

Potrai dire che sei stato un buon marito e un buon padre
ma dovrai anche dire che hai sbagliato a non scappare con noi.
Mi rendo conto che è giusto che un uomo resista
quando si vuole privarlo della sua città, della sua casa,
del suo lavoro, del suo mondo e della sua dignità.
Oltretutto, per nessun motivo ragionevole, o accettabile.
Ma era bene che tu scappassi con noi e io non perdessi lo sguardo dei tuoi occhi.
Tra il giusto e il bene hai scelto il giusto e hai sbagliato.
(Kaha Mohamed Aden, Fra-intendimenti)

Kaha Mohamed Aden appartiene a quella generazione di scrittori stranieri che fa parte della cosiddetta letteratura italiana della migrazione. Inizialmente all’interno di questa categoria letteraria erano stati compresi autori giunti in Italia a cavallo fra gli anni ottanta e novanta, le cui storie erano testimonianze in prima persona di esperienze riconducibili al fenomeno migratorio che cominciava a investire il paese. Più di recente il settore letterario della migrazione ha incluso autori nati in Italia da genitori immigrati, che hanno frequentato scuole italiane e assunto l’italiano come prima lingua.

La letteratura italiana si è servita del termine migrante per individuare soggetti che una lunga tradizione di studi, con riferimento ad altri paesi, ha definito postcoloniali. Mettere in evidenza un tema già metabolizzato dall’immaginario collettivo qual è quello dell’esperienza migratoria che sarebbe forse meglio chiamare dei “nuovi italiani” costituisce un’operazione che ha implicazioni di non poco conto, come quella di tralasciare il tema, altrettanto rilevante, del passato coloniale italiano nei paesi dell’Africa Orientale.

A partire dalla definizione coniata da Armando Gnisci[1], il mercato editoriale ha assecondato la diffusione di questo generico contenitore che include scrittori dalle storie e dagli stili piuttosto eterogenei. Molti degli autori in questione si sono appropriati di questa categoria, servendosi dell’etichetta di migranti per legittimare l’utilizzo della lingua italiana da parte di stranieri da un lato e per posizionarsi all’interno del panorama letterario italiano dall’altro.

Mohamed Aden fa ricorso alla lingua italiana per narrare vicende riconducibili al proprio contesto di origine. Nata a Mogadiscio, l’autrice si trasferisce definitivamente in Italia nel 1987 e nel 2010 pubblica Fra-intendimenti, la sua prima raccolta di racconti. Le storie narrate nel libro sono quasi tutte di natura autobiografica. I marcatori di identificazione e gli effets de vie – ossia gli elementi relativi alla storia del personaggio che inducono il lettore a identificarlo con l’autrice in persona – ricorrono in tutti i racconti:

Sono una donna Darood, un clan nomade che riconosceva come suo territorio diverse zone della Somalia, al nord, al centro e al sud, ma che tradizionalmente non era di casa a Mogadiscio e dintorni […]. Nonostante tutto ciò, rimango una donna Daarod di Mogadiscio da almeno due generazioni e, per quanto mi riguarda, quando parlo somalo chiamo le ore come si faceva nella mia città, in barba a tutti gli assassini che capeggiarono e che tutt’ora capeggiano Mogadiscio (pp. 69-70).

Tuttavia, ogni racconto rappresenta un mondo che travalica l’esperienza personale dell’autrice, costituendosi come paradigma della diaspora somala e della disgregazione di un universo nazionale.

Se in Autoritratto, racconto d’apertura della raccolta, l’autrice presenta al lettore una parte della sua famiglia – le sue nonne – collocando la propria identità all’interno di un quadro familiare ben preciso, l’ultima storia, intitolata Nadia, racconta l’esperienza di una giovane ragazza somala che lavora come colf per una famiglia italiana.

Dal primo racconto all’ultimo si snodano una serie di quadri i cui motivi principali sono l’«incubo» dei documenti, i problemi con la grammatica italiana, le istituzioni scolastiche, il cambio di orario, i doveri clanici e familiari, le lunghe telefonate con le zie, le avventure di giovani somali mandati in un angolo della Somalia per alfabetizzare nomadi e contadini.

Vorrei tanto consegnare a qualcuno questo sogno. Qualcuno degno di aprire questo sogno. Aprire il sogno, si dice letteralmente così in somalo. Uno dei modi per aprirlo è raccontare il sogno a qualcuno che ti conosce, con cui hai confidenza, e poi ne discutete.
Io un’idea su questo sogno l’avrei: questo è il tipico sogno degli immigrati. In particolare di quelli che per pura sfortuna non hanno nessuna comunità che li riconosca e li protegga. Purtroppo il termine esatto è incubo e per molti è una realtà (p. 65).

Una caratteristica interessante di questi racconti è la sovrapposizione di piani narrativi, ottenuta attraverso l’inserzione di un racconto all’interno di un altro. In 1982: Fuga da casa, ad esempio, l’autrice racconta dell’irruzione dei berretti rossi[2] nella propria casa di Mogadiscio, venuti per sequestrare documenti e libri che possano provare il coinvolgimento del padre in attività sovversive. Mentre la protagonista attende che la perquisizione sia terminata, compare una bertuccia con in dono una favola sugli animali della savana, evidente metafora della situazione politica del paese.

In altri racconti, come Eeddo Maryan, invece, ritroviamo più voci narranti che si alternano. Nel presentare i diversi narratori l’autrice fa ricorso al telefono. Come in altre opere di autrici somale[3], questo mezzo di comunicazione rappresenta un efficace espediente narrativo che simboleggia la sempre maggiore de-territorializzazione delle relazioni familiari che ha colpito la comunità somala. Il vuoto lasciato da una nazione che si è trasformata in un agglomerato di unità etniche deve essere superato attraverso la narrazione di un’identità comune che non ha più come riferimento uno spazio fisico condiviso.

Il libro di Mohamed Aden è firmato dall’autrice, ma contemporaneamente esprime la volontà di richiamarsi a una sfera di anonimato. Nei racconti individuiamo infatti alcune zone in cui è presente il narratore ma non l’autore: in altri termini, è possibile individuare una funzione-autore. Questa è una strategia retorica che riporta al centro del testo la dimensione collettiva espressa da racconti e fiabe che l’autrice arbitrariamente estromette dalla creazione individuale di chi scrive, inserendoli in un contesto comunitario orale in cui la stessa dimensione linguistica del soggetto può essere rivestita da una molteplicità di individui.

La circolarità di un soggetto identificato ora con l’individuo, ora con la famiglia, ora con la comunità è sottolineata dalla presenza di continue metalessi narrative, ovvero di strategie espositive che consentono all’autrice di passare da un piano narrativo a un altro attraverso l’inserimento di un racconto nel racconto.

Al lettore sarà così impossibile focalizzare l’attenzione su un unico punto di vista, poiché quest’ultimo si disgrega nella voce di più personaggi-narratori.

L’inserimento di spazi di narrazione sostanzialmente anonimi può essere letto, in ultima istanza, come il tentativo di evocare un immaginario generico, un orizzonte rappresentativo somalo, allo scopo di ridefinire il proprio ruolo di scrittrice nel contesto italiano contemporaneo.

Un’analisi dei testi concentrata sull’autore come espressione di un’individualità non è in grado di cogliere lo sforzo, compiuto da chi scrive, di mettersi in relazione con una comunità identificante.

Le strategie narrative che prevedono l’inserimento di spazi di anonimato come fiabe, proverbi o detti popolari per ricollegarsi a una vaga dimensione di africanità, inventata e immaginata, devono allora essere ricondotte alle produzioni discorsive dell’autrice, volte a collocare la sua opera nel contesto italiano contemporaneo. Ma è la dimensione individuale della scrittrice, ovvero la sua storia di vita personale, a far sì che l’opera sia presa in considerazione da un pubblico occidentale – dunque dall’editoria italiana.

In definitiva, la ricezione pubblica del libro di Mohamed Aden è la cartina di tornasole delle modalità attraverso cui la società italiana si relaziona ai discorsi sull’alterità e definisce «il diritto di qualcuno a parlare e ad essere competente nella comprensione di un certo tipo di discorso»[4].

[Trailer del documentario La quarta via di Simone Brioni. Mohamed Aden racconta Mogadiscio. Il documentario fa parte del progetto narrativo Somalitalia: Quattro Vie per Mogadiscio]

 

Note

[1] A. Gnisci, La letteratura italiana della migrazione, in Creolizzare l’Europa, 2003, Roma, Meltemi.

[2] Così ci si riferiva comunemente alle guardie del dittatore Siad Barre.

[3] L’espediente retorico del telefono è utilizzato, ad esempio, dalla scrittrice Cristina Ali Farah in Madre Piccola, Frassinelli, Milano 2007.

[4] M. Foucault, Che cos’è un autore?, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1996.

[5] Ivi, p. 13.

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