La fotografia, fin dalla sua nascita, ha avuto la velleità di ordinare il mondo, di catalogarlo per tipologie, in modo da poter circoscrivere ogni cosa all’interno di un sicuro recinto di definizioni.
Le immagini prodotte dai pionieri dell’impiego fotografico in ambito scientifico, dalla Luna di Lewis Rutherfurd alle sequenze di Marey per lo studio del movimento fino agli esperimenti di Duchenne De Boulogne sulla manifestazione visiva delle emozioni, possiedono qualcosa di affascinante e poetico che va ben oltre l’analisi oggettiva di un evento specifico e ha fatto da subito intravedere la possibilità di un incontro fra l’approccio analitico e una comprensione più sottile di certi aspetti dell’animo umano.

L’affascinante lavoro di Nicolai Howalt, non sembra immune da questa esigenza tassonomica, sebbene ristretta a un campo particolarmente insolito. Infatti il fotografo danese, nel suo 141 boxers, contrappone, all’interno di una griglia di studio (come quelle teorizzate da Rosalind Krauss), doppi ritratti di giovani pugili, prima e dopo un incontro: le inquadrature dei volti sono serrate e rifuggono ogni pretesa estetica o compositiva, il fine sembra l’indagine asettica e priva di emozioni, come se ci trovassimo in un laboratorio ad analizzare una risultante tangibile della terza legge della dinamica.

L’impatto visivo sulla parete ricorda istintivamente la più famosa “esposizione in tempo reale” di Franco Vaccari, quella del 1972 alla Biennale (Lascia una traccia fotografica del tuo passaggio) con la celebre cabina Photomatic; ma le motivazioni sono distanti dal genere di operazione compiuta a Venezia e 141 boxers sembra accostarsi meglio alle ricerche intraprese da Thomas Ruff alla fine degli anni Ottanta, tese a riportare in vita il modello tradizionale di ritratto, in voga fra i fotografi della Nuova Oggettività.

Al di là di un chiaro messaggio anti-violento di cui si fa portavoce, We are the not dead della fotografa Lalage Snow pone in sequenza il volto dei soldati a Kabul, prima, durante e dopo i conflitti armati. Il lavoro di Snow è molto vicino, dal punto di vista formale, alla serie di Howalt. La cosa che più mi colpisce di questo lavoro fotografico è il generale livellamento delle emozioni superficiali e sensorie, a favore di una maggiore profondità intellettuale, lontana da facili retoriche. Un approccio all’immagine di tipo archivistico che è figlio, da un lato, delle ricognizioni di Bernd e Hilla Becher, iniziate nel 1957, al fine di documentare e, in qualche modo, tutelare la memoria delle archeologie industriali della Germania post-bellica; e dall’altro, delle bizzarre e variegate catalogazioni dell’artista americano Ed Ruscha, totalmente autoreferenziali, incentrate sul concetto stesso di archiviazione (Twenty Six Gasoline Stations, Various Small Fires, Every Building on the Sunset Strip).

A cavallo fra anni Sessanta e Settanta, il tema dell’archivio è stato affrontato da molti illustri esponenti della fotografia e dell’arte concettuale: emblematici i lavori di Robert Morris (Schedario, 1962), On Kawara (la serie Date Painting, iniziato nel 1966), Gerhard Richter (Atlas, dal 1962).
Tornando ai boxers, la scelta della forma “archivio” obbliga a prendere le distanze dai ritratti dei giovani sportivi, soffermandosi sui particolari, strettamente connessi alla medesima condizione che li accompagna e l’uso della griglia, per presentare il lavoro, pone le immagini in una condizione non gerarchica, scardinando ogni possibile intenzione narrativa. Ogni doppia effige, in un susseguirsi che pare infinito, presenta cambiamenti di entità variabile, a volte minimi, a volte palesi, a causa del colore del sangue che spicca sulla pelle, ma il punctum viene insistentemente incanalato nello sguardo di questi individui: è il filo rosso da seguire per leggere la sequenza in modo da capirne la reale portata.

Per comprendere questo, prendiamo un altro grande fotografo degli anni Settanta, Nicholas Nixon, conosciuto da tutti per un progetto cruciale, in materia di serialità: i ritratti delle sorelle Brown (fra cui la moglie di Nixon), distribuiti nell’arco di quasi quarant’anni (uno ogni anno). Qui si gioca con la materia fragile e spietata del tempo, che ogni anno va a solcare differenze apprezzabili sui volti delle quattro sorelle, lasciando aperta una porta sulle possibili implicazioni di una tale assiduità. Cosa sarebbe successo se una di loro fosse morta durante quegli anni? Se fossero cambiati i rapporti fra loro e fossero sorte delle insanabili incomprensioni? Se cause esterne, imprevedibili, avessero alterato radicalmente il fluido trascorrere delle stagioni sui loro volti?

La contrapposizione di immagini seriali porta automaticamente nella dimensione del non conosciuto, perché sono infinite le possibili vicende dietro l’intervallo di spazio intercorso fra un incipit e un finale e se la griglia nega il dispiegarsi di una storia, questi due poli la sottintendono, in un’incoerente altalena di significati, che è propria solo del medium fotografico.
È il tempo quindi che ha un ruolo cruciale anche per Howalt (sebbene un intervallo ben più ristretto di quello fra un ritratto e l’altro delle sorelle Brown), il tempo e lo sguardo che cambia, che diventa consapevole e onesto, senza artifici, forse per lo sforzo appena compiuto, per il dolore e la stanchezza. Probabilmente è solo una suggestione, ma nella breve cadenza di un incontro, questi ragazzi e queste ragazze sembrano cresciuti e sembrano aver perso qualcosa, una qualche purezza primigenia degli occhi, trasformati poi in consapevolezza inevitabile, come se ogni volta ri-vivessero una sorta di antico rito di passaggio, una metafora degli anni a venire.

Se il comune denominatore di tutti questi lavori, come ho già detto, oltre all’approccio archivistico, è senza dubbio il concetto di “tempo” (che è legato in modo indissolubile alla definizione stessa di archivio), sia in senso di sequenza cronologica, sia nel senso più ampio del termine, va considerato che esso riveste un significato differente per ognuno degli autori che ho trattato.
In Ed Ruscha si esplica con un elemento posto in sequenza all’altro (e così via) come è stato trovato e registrato durante il suo girovagare: lungo la Route 66 fra Los Angeles e Oklahoma, fotografa le sue famose ventisei stazioni di benzina nella sequenza in cui le trova e così le ripropone nel suo libro; lo stesso vale quando fotografa tutti gli edifici di Sunset Strip nel 1966: il libro si snoda su una lunga direttrice pieghevole, dove ai margini incontriamo le immagini degli edifici della strada nella scansione in cui si trovano fisicamente, sia a livello frontale che da sinistra verso destra.

Per quanto riguarda Vaccari, non siamo neppure nel campo della tassonomia e dell’archivio ma nel campo del concettuale: l’innesco di una provocazione, studiata partendo da una previsione, fa crescere ed evolvere l’esposizione, come fosse un organismo indipendente, tramite la risposta del pubblico a tale impulso, senza che l’artista vi metta più mano. Il tempo, in questo caso, è legato alla crescita dell’organismo “esposzione”.
I Becher presentano una disposizione se vogliamo intercambiabile delle immagini all’interno di ciascuna serie: la loro catalogazione di archeologie industriali mira, tramite la struttura della griglia, a far venire alla luce le differenze minime fra edifici all’apparenza identici o comunque molto simili. Qui il tempo è quello della memoria, e mettere in evidenza le singole differenze fra edifici ha lo scopo di giustificarne la catalogazione a favore del futuro ricordo.
Gli altri lavori che ho trattato in questa sede hanno una vocazione più “narrativa”, quantomeno quelli di Howalt, Nixon, Snow (altro esempio che sarebbe utile prendere in considerazione è sicuramente Roman Opalka, artista che ha meditato più di altri sul concetto di tempo), sicuramente riescono a raccontare una storia (in intervalli temporali differenti) e invertire l’ordine degli addendi non solo farebbe cambiare il risultato, ma invaliderebbe completamente il senso del lavoro.
[Potete leggere le riflessioni di Alessandro Pagni sulla fotografia su Un fototipo, il suo rifugio per pelli sensibili]