Forte come una pietra in faccia

Una lettura de La casa della fame di Dambudzo Marechera, uscito per Racconti edizioni (2019) nella traduzione di Eva Allione.

Marechera La casa della fame

A maggio la casa editrice Racconti ha pubblicato La casa della fame di Dambudzo Marechera nella traduzione di Eva Allione, un importante arrivo in libreria di uno scrittore mai pubblicato prima in Italia. Lo scrittore è nato a Rusape nel 1952 in quella che allora si chiamava Rhodesia Meridionale, ed è morto nel 1987 ad Harare – pochi anni dopo che il suo paese era diventato Zimbabwe –, concludendo i suoi giorni alcolizzato e malato di aids. Marechera, cresciuto in un contesto di povertà e violenza nel regime di apartheid inferto dai bianchi, era riuscito nonostante questo a studiare prima alla University of Rhodesia, da cui fu cacciato, e poi a Oxford, da cui subì una nuova espulsione per fare definitivamente ritorno in Rhodesia. Nel 1978 scrive La casa della fame (The House of Hunger) novella pubblicata in una raccolta contenente altri racconti più brevi, con cui diverrà il primo africano a vincere il Guardian Fiction Prize. Questo rapporto conflittuale con la cultura letteraria dell’Inghilterra, fatto di ammirazione ma anche di rifiuto anticoloniale, si riversa completamente nel libro così che l’espressone letteraria di un disagio umano e politico ne diviene la poetica centrale.

Inutile cercare di afferrare una trama lineare. È il racconto allucinato di una giornata di un giovane scrittore africano circondato dalla violenza – politica, familiare e sociale – in un ghetto della Rhodesia durante l’apice del segregazionismo del regime di Ian Smith. Vi si mescolano invenzione, vissuto personale, e allusioni la cui veridicità autobiografica è lasciata volutamente ambigua. Si procede per salti improvvisi tra visioni, narrazioni di fatti o ricordi, e conversazioni che a loro volta si perdono in altri ricordi o racconti monologati. Ci si muove in luoghi dai confini mai nettamente definiti, con un continuo sovrapporsi di piani cronologici in cui lo scorrere del tempo si dilata e si contrae attorcigliandosi su sé stesso.

La condizione di miseria e marginalità, di povertà e sofferenza, cui erano sottoposti i neri, pervade con la sua atmosfera ogni cosa: il bar, la scuola, il ghetto, tutto è teatro di follia e malessere, i rapporti umani sono corrotti o devastati e nessuna riconciliazione appare possibile. Marechera lo dichiara esplicitamente in una Intervista dell’autore con sé stesso inclusa alla fine del libro: «Per quanto mi riguarda, io sono stato influenzato dalla brutalizzata eppure ostinata umanità che mi circondava dove sono cresciuto, al punto da disperarmi. Le loro esistenze, il modo in cui si piegavano ma non si spezzavano sotto i colpi che gli piovevano addosso, in quei ghetti che allora venivano chiamati locations» (p. 115). La violenza – fisica ma anche delle emozioni, e dei traumi – assurge a condizione esistenziale e sono le botte, il sangue e i lividi, a contrappuntare lo scorrere delle diverse narrazioni, investendo il lettore come un calcio in piena faccia: «Come si fa a “osservare” una pietra che ti sta per colpire? Era quella la mia relazione con la “società” di Rusape dell’epoca» (p. 116).

La paradossalità sta nel fatto che una scrittura fortemente allucinata, visionaria, onirica (ma un sogno che si fa incubo), finisca per essere la rappresentazione quasi mimetica della degradazione dei corpi e delle menti causata dal dominio coloniale. L’esasperazione livida e scatologica è lo specchio delle condizioni di vita sotto l’apartheid. La sofferenza sociale si proietta dentro e fuori l’individuo incarnandosi nel malessere emotivo ma anche nel decadimento fisico delle malattie veneree. Tutto scorre senza uno scopo e appare corrotto, ogni cosa – a partire dalle parole – è materica, ma anche grottesca e degradata. Dalle iniziazioni sessuali degli adolescenti con le prostitute ai traumatici ricordi scolastici, dal bar unica oasi alcolica di socialità, alla casa della fame – che dà il titolo –, che è fame e sete di conoscenza politica e di cultura, di emancipazione anticoloniale, ma anche luogo da cui scappare in preda a un’ansiosa irrequietezza.

Il protagonista, come Marechera, è schizofrenicamente scisso tra il miraggio che l’impadronirsi della lingua dell’impero britannico possa significare emancipazione, e il rifiuto di quella stessa cultura intrisa di sopraffazione e di aggressività, tormentato com’è dai fantasmi degli eroi neri, dalla figura dell’intellettuale africano come viatico per l’emancipazione dal predatorio regime coloniale. «L’inglese era automaticamente connesso con lo splendore e il lusso appariscente della parte bianca della città», racconta nell’autointervista. «Se poi parliamo di esprimere il tumulto creativo che avevo in testa, mi sono adattato all’inglese come un’anatra all’acqua. Ero dunque complice e studente nella mia stessa colonizzazione mentale. E allo stesso tempo, c’era ovviamente il disagio, lo shock di essere d’improvviso colpito dal balbettio, di essere disertato dal mezzo stesso che utilizzavo per la mia arte» (p. 120). Questo conflitto pervade il libro costituendone la cifra e concretizzandosi nella destrutturazione che Marechera fa dell’inglese, ben resa nella traduzione di Allione.

La presa di parola diretta – politica come culturale – da parte dei subalterni è un passo fondamentale per rovesciare i rapporti di forza e di potere cui sono sottomessi, va di pari passo con la presa di coscienza della propria condizione e con la volontà di sovvertirla. Non basta che qualcun altro enunci l’ingiustizia di un’oppressione, di una forma di sfruttamento, di un controllo sui corpi e sulle culture, è necessario che chi li vive sulla sua pelle si faccia portatore diretto del proprio punto di vista, senza mediazioni. Se non ci si racconta da sé non si sarà mai soggetto ma si resterà sempre oggetto della rappresentazione altrui.

La lingua è sia lo strumento con cui percepiamo e decifriamo il reale che quello con cui lo comunichiamo, e se la letteratura è la forma di indagine del reale in cui essa manifesta le proprie capacità espressive al massimo della potenzialità, l’uso che fa Marechera dell’inglese – sovvertendone il razzismo implicito nei rapporti di forza culturali – diviene una forma di rivendicazione anticoloniale. È interessante la scelta di usare l’idioma dell’impero britannico per smontarlo e scardinarlo, diversa da ciò che hanno fatto altre scrittrici e scrittori africani usando la lingua materna rifiutando quella coloniale. Marechera, nell’autointervista, si pone da solo il problema («Hai mai pensato di scrivere in shona?») e si risponde nel seguente modo: «Mai venuto in mente. Lo shona era parte integrante dell’inferno nel ghetto da cui cercavo di scappare. Lo shona va calato nel contesto di un’esperienza degradante e straziante per la mente dalla quale l’unica via di fuga apparente era l’inglese e l’istruzione» (p.120).

Non è compito mio – da maschio bianco occidentale – dirimere la questione, che va invece lasciata in mano ai soggetti stessi attivi nella decolonizzazione dei linguaggi, della cultura, del pensiero. Di sicuro quella di Marechera è una scelta coraggiosa: il suo stile allucinato e distorto riesce nella rappresentazione molto più che realistica della degradazione del dominio coloniale, è una scrittura acida, che aggredisce questioni importanti corrodendole (il colonialismo, il ruolo degli intellettuali, il rapporto uomo-donna, la violenza), ed è una pietra lanciata in faccia al mondo borghese e imperialista che dominava (domina?) la cultura britannica, e occidentale in generale. Ma è una scrittura molto difficile, quasi ermetica, che reca in sé come contraltare il rischio di raggiungere solo quel mondo accademico che lo aveva rifiutato (lo stesso ambiente che a posteriori lo definì «il Joyce africano», un parallelo con l’irlandese che scelse di scrivere in inglese di certo lusinghiero dal punto di vista letterario, ma che denota l’atteggiamento eurocentrico della critica occidentale, anche quando vuole essere elogiativa, nel dover utilizzare a ogni costo un paragone con uno scrittore bianco per descriverne uno africano), risultando di difficile fruizione al grande pubblico. Ma è anche alla luce di questo rischio, condiviso con chiunque voglia sperimentare con la lingua, con chi non voglia appiattirsi su di un realismo sociale di mera denuncia didascalica, che si tratta di una scelta coraggiosa.

Marechera la casa della fame

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