L’etnopsichiatria al Festival dei Matti di Venezia

Pubblichiamo un estratto dell’etnopsichiatra Roberto Beneduce* in occasione della sua partecipazione al Festival dei Matti di Venezia, in un incontro dal titolo “Tempi spezzati. Le migrazioni e le follie che ne vengono” che si terrà oggi alle 16.30 all’Ateneo Veneto.

Esiste un’etnopsichiatria nel nostro paese? La risposta a questa domanda può, a certe condizioni, essere positiva, e tracciare qualche punto di repere può essere utile anche perché nel nostro paese, alla stregua di un fiume carsico, l’etnopsichiatria sembra essere tornata nuovamente alla luce dopo un periodo di relativo torpore. Occorre però fare un passo indietro. Almeno due i nomi che devono essere menzionati quando si voglia tracciare una possibile genealogia dell’etnopsichiatria in Italia: Ernesto de Martino e Michele Risso, anche allo scopo di riconoscere una peculiarità che, forse, potrebbe evitare talune derive e talune trappole del dibattito nel contesto italiano.

Ernesto de Martino, più noto come storico delle religioni, sta conoscendo fra l’altro da alcuni anni un rinnovato interesse, non solo in Italia, con la ripubblicazione delle sue maggiori opere, ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Se forse è eccessivo dire, come fa Comelles, che De Martino «has had a profound influence on health education», bisogna tuttavia ammettere che la sua riflessione anticipa tutti o quasi i problemi epistemologici e metodologici relativi al rapporto fra psichiatria e antropologia e all’etnopsichiatria stessa. L’originalità del suo approccio, che si esprime fra l’altro in quel documento unico che è La fine del mondo, pubblicato postumo nel 1977, bene esprime la curiosità e l’acutezza di De Martino nel costruire le premesse di un confronto, o meglio di un’analisi comparativa fra apocalissi psicopatologiche e apocalissi culturali, fra registro psicologico e registro storico-antropologico. Soprattutto, La fine del mondo realizza il primo vero articolato (sebbene incompiuto) riesame critico storico-antropologico di buona parte delle categorie e delle osservazioni psicologico-psichiatriche (l’autore scandaglia sistematicamente nelle sue note oltre un secolo di pensiero psicologico e psichiatrico: da Janet a Minkowski, da Bleuler a Binswanger, da Kraepelin a Baruk, incrociando un dialogo serrato con la Daseinanalyse, la fenomenologia e l’esistenzialismo).

Il suo contributo propone d’altronde un’originale soluzione a quegli assilli metodologici che hanno scandito e scandiscono tuttora buona parte della ricerca etnopsichiatrica. Nelle sue annotazioni, che datano dei primi anni ’60, De Martino aveva già chiaro il ruolo di un relativismo culturale non ingenuo e il possibile contributo dell’etnopsichiatria nella comprensione della “normalità” o della sua crisi. Riferendosi agli scritti dello psichiatra Henry Ey, egli scrive:

Gli stati psicopatologici (…) non hanno che un apparente significato interpretativo se non si parte dall’ethos del trascendimento, da una analisi della valorizzazione intersoggettiva come costitutiva dell’umanità, e da un apprezzamento storico-culturale dei dominanti livelli di valorizzazione e dei corrispondenti rischi di regressione, di flessione, di caduta (…) Il pericolo del concetto di struttura è che (…) il nevrotico e lo psicotico della borghesia viennese e la contadina analfabeta del Mezzogiorno d’Italia, e ancora – da Moreau a Ey – il sogno e la malattia mentale (e ancora il sognare dell’europeo colto contemporaneo e il sognare dell’Aranda australiano, ecc.) sono sottratti al loro contesto storico-culturale, e accomunati e confusi in un’unica struttura che ci fa perdere il senso esatto dei rispettivi vissuti, il loro carattere dinamico-integratore o regressivomorboso. (De Martino, 1977, Einaudi)

Torna alla mente la posizione critica espressa, negli stessi anni da Devereux contro “vacche sacre quale il relativismo culturale” e la sua volontà di concepire un’idea di normalità assoluta, metaculturale. Impegnati entrambi ad evitare tanto l’etnocentrismo quanto il rischio di una valorizzazione della differenza etnica priva di riferimenti al contesto e alla storia, in De Martino il costante riferimento a quest’ultima per interpretare tanto il senso della patologia e delle differenze culturali quanto quello dell’incontro fra uomini di culture diverse, stesse, gli permetteva però di esprimere una posizione più “moderna” e un’adesione più efficace al senso locale e culturale tanto della sofferenza quanto della cura, così come al valore delle strategie rituali, rivolte a reintegrare l’individuo nella comunità proprio attraverso la destorificazione della sua concreta, idiosincrasica esperienza di malattia. In questo passaggio De Martino sembra riprendere per intero il motivo lévi-straussiano dell’efficacia simbolica. Mentre però l’etnologo francese riconduce la capacità di guarire dello sciamano e della sua tecnica essenzialmente alla riuscita identificazione fra il corpo del malato e la geografia del mito, fra il male e la sofferenza del primo e il successo dell’eroe le cui gesta sono narrate durante la cura, a curare secondo De Martino è la possibilità di risituare il male e la rottura che questa esperienza genera nella biografia della persona all’interno di un piano mitico rituale che consente la reintegrazione piena nel gruppo, il recupero della capacità di agire nella storia di quest’ultimo, con quest’ultimo. Le pagine rivolte all’analisi del tarantismo rivelano ancora una volta una sensibilità tutta moderna che consente all’autore di collocare per intero l’esperienza delle tarantate e le strategie rituali rivolte a risolvere la “crisi” all’interno della famiglia dei culti di possessione, e ciò nonostante le perplessità di alcuni studiosi. Il costante riferirsi alla storia consente infine a De Martino anche di non confondere il piano del sintomo, della malattia con quello della peculiare esperienza sciamanica, dei suoi stati di coscienza alterata, della sua perdita di rapporto con la realtà (ciò che invece Devereux fu propenso in numerosi scritti a far coincidere):

Senza dubbio l’analisi dello psichicamente malato ha metodologicamente la grande importanza di mettere a nudo il momento del rischio contro cui combattono il numinoso, il sacro, il magicoreligioso, il simbolismo mitico-rituale: ma mentre nella vita magico-religiosa quel rischio sta come momento di una dinamica di ripresa e di reintegrazione, nella malattia psichica esso si viene sempre più isolando come nudo rischio, senza ripresa e reintegrazione efficaci. Chi sale e chi scende una rampa di scale si incontrano necessariamente su un certo gradino: ma quel loro incontrarsi non significa che nel momento in cui poggiano il piede sullo stesso gradino, le istantanee relative della loro identica posizione hanno lo stesso significato dinamico, poiché l’uno sale e l’altro scende. (De Martino, 1977, Einaudi)

Non meno pertinenti per queste riflessioni sono le definizioni che De Martino dà dell’etnopsichiatria e della psichiatria transculturale (senza mostrare eccessiva preoccupazione per le eventuali differenze fra questi termini: distinzioni che invece ossessionavano Devereux). Qui però voglio soprattutto mettere in rilievo un ulteriore aspetto della sua analisi: e cioè l’attribuizione alla psichiatria transculturale di un ruolo originale non soltanto nello studio dei condizionamenti socio-culturali dei disordini mentali o nel riconoscimento di un concetto di efficacia terapeutica concepito come proprio di ogni cultura, ma soprattutto nella costruzione di una consapevolezza critica dei limiti delle categorie nosografiche e della psichiatria europea nel suo complesso, i cui «quadri (…) non sono puntualmente applicabili a tutte le culture dell’ecumene». Questo passaggio, come anche la citazione più in alto riportata, documenta ancora una volta la modernità di De Martino, le cui parole sembrano anticipare di trent’anni le recenti critiche medico antropologiche sull’abuso di nozioni come il PTSD o il Trance and Possession Disorder.

Storico delle religioni, De Martino può dunque a giusto titolo essere considerato uno dei padri dell’etnopsichiatria italiana, e il suo contributo rimane a questo riguardo largamente inesplorato. L’altro grande pioniere dell’etnopsichiatria italiana è senza dubbio Michele Risso, psichiatra profondamente influenzato dagli scritti demartiniani, che avviava un’originale riflessione metodologica a partire dal lavoro clinico svolto in Svizzera con pazienti immigrati provenienti in prevalenza dall’ambiente contadino del Meridione d’Italia. Per Risso i lavori di De Martino rappresentavano la via maestra per decifrare il senso delle angosce e dei sintomi di immigrati alle prese con la solitudine affettiva e le sfide dell’esperienza del lavoro in un contesto ostile (il libro, scritto con Böker, fu pubblicato nel 1964 in tedesco e tradotto in Italia solo molti anni dopo). Le categorie di ‘fattura’, di ‘malocchio’, di ‘fascinazione’ erano considerate essenziali per comprendere il senso dei racconti degli immigrati italiani incontrati negli anni ’50 presso la Clinica Psichiatrica di Berna, le loro inquietanti esperienze (sensazione di morte imminente, di cambiamento nel proprio aspetto, percezione di arresto nella circolazione, episodi di caduta, confusione). Michele Risso rivolge però la propria attenzione anche all’analisi di un nucleo costantemente incontrato nei suoi pazienti: i conflitti con la figura femminile, con la donna straniera come oggetto di proiezioni e desideri e sorgente di sensi di colpa. L’analisi della dimensione affettiva all’interno dell’esperienza migratoria gli consente di cogliere da una prospettiva originale la crisi dei ruoli, il venir meno dell’ovvio, di quelle finzioni che sostengono il senso di realtà condivisa allorquando ci si confronta (da posizioni di marginalità) con codici di comportamento dei quali non si riesce a comprendere per intero o governare il significato. Gli autori non mancavano di sottolineare però, accanto alle dimensioni culturali, anche il ruolo di un contesto che con la sua estraneità, con la minaccia dei suoi “segni incerti” (Barthes), partecipava in modo determinante all’insorgere dei disturbi:

I controlli dell’ufficio stranieri, che limitano la loro libertà, risveglia la loro antica sfiducia nei confronti dello stato; la moderna assistenza sociale, mai conosciuta prima d’ora, resta per loro incomprensibile, non viene colta come un aiuto (…), e non riesce a sostituire la protezione dell’unione familiare. (M. Risso e W. Boker, 1992, Liguori)

L’attenzione al contesto sociale ed istituzionale rappresenta dunque un’ulteriore premessa da cui muovere per poter proporre un’analisi accurata tanto del delirio di influenzamento, il demartinianmo “essere agiti da”, quanto delle categorie eziologiche tradizionali o strategie terapeutiche più efficaci. Se gli autori ammettono che quel sintomo è nei loro pazienti presente in misura più rilevante che negli altri immigrati provenienti dalle stesse regioni (e che dunque la cifra culturale non esaurisce la totalità di quel sentire, di quell’esperienza), aggiungono che il connotato fondamentale dell’esperienza delirante, quella di essere idisosincrasica, qui non trova conferma: «La convizione del malato che una fattura sia la causa di tutti i suoi mali, viene approvata senz’altro, dato che l’idea di subire una trasformazione morbosa da parte di un influsso magico non rappresenta nulla di strano». L’ipotesi con la quale si chiude la ricerca, consapevole dell’irrisolta tensione fra i due registri (quello interpretativo proposto dalla dalla teoria psicologica, e quello disponibile a partire dalla cultura d’origine), merita di essere ricordata:

Dove si tenta di penetrare intellettualmente nel delirio, il paziente non viene aiutato; dove, invece, nonostante l’insorgere di una psicosi, può essere mantenuto un rapporto affettivo tra il malato e i suoi simili (…) vi sono forse maggiori possibilità di un miglioramento o di una guarigione. La possibilità di accogliere la malattia in un modello culturale accettato tanto dal paziente quanto dal suo ambiente natale, consente al malato di conservare la continuità della sua esistenza nella comunità. (M. Risso e W. Boker, 1992, Liguori)

Queste conclusioni anticipano ampiamente lo spirito del successivo lavoro di Risso, che aderì con entusiasmo ai modelli della psichiatria comunitaria e alle esperienze del movimento di Psichiatria Democratica, movimento protagonista della legge di riforma psichiatrica nota come “legge Basaglia”. Negli anni seguenti Risso continuò il suo lavoro di decostruzione delle categorie e dei modelli terapeutici della psichiatria occidentale, interessandosi in particolare alla critica della medicalizzazione della condizione di immigrato (esemplare è l’analisi del paradigma medico della nostalgia) e dei modelli eziologici proposti nella letteratura per interpretare il presunto maggior grado di incidenza di disturbi psichiatrici nella popolazione immigrata. Il suo lavoro si salda così idealmente a ricerche come quella di Littlewood e Lipsedge, dove la variabile ‘cultura’ s’intreccia e assume il suo pieno valore solo quando situata accanto alla variabile ‘contesto’ e fra le determinazioni storiche che influenzano l’uso delle categorie, la formazione dei saperi, le attitudini degli operatori o le strategie istituzionali. Gli scritti di De Martino e di Risso, le ricerche stesse che De Martino aveva condotto nel Salento con uno psichiatra come Jervis, non trovano però un’eco soddisfacente negli anni seguenti, nei quali prevalgono soprattutto istanze di rinnovamento legislativo ed istituzionale: le nuove pratiche per la salute mentale sembrano concedere poco spazio alla riflessione su questi argomenti, perdendosi a mio avviso l’opportunità di una proficua collaborazione con i muovi emergenti sviluppi dell’antropologia medica critica (soprattutto quella nordamericana); l’interesse per le ricerche etnopsichiatriche o la “questione migrazione” saranno solo sporadicamente presenti nella letteratura italiana, affiorando qui e là nel corso di convegni o di articoli. Persino coloro che avevano lavorato a stretto contatto con metodi e materiali etnografici sembrano, per ragioni diverse, volersene poi allontanare: troppo faticoso restare in una terra di mezzo, dallo statuto disciplinare incerto ed esposta ai venti mutevoli della storia e della politica come l’etnopsichiatria, più rassicurante tornare ai recinti alti della psicanalisi, della psichiatria, della psicologia clinica. Gli psichiatri transculturali, da parte loro, seguiranno a tenere le proprie posizioni interessandosi al rapporto fra cultura, malattia mentale e cura: con poche eccezioni, i loro contributi ripeteranno le prospettive e gli approcci degli studi condotti negli anni ’60 e ’70, senza costruire né con gli antropologi né con gli storici un dialogo autentico (in grado cioè di interrogare i saperi in gioco mettendo in discussione, reciprocamente, i propri presupposti metodologici).

 

*Par 3 da “L’etnopsichiatria della migrazione fra eredità coloniale e politiche della differenza”: materiale di studio e di discussione prodotto in occasione dei seminari formativi rivolti agli operatori penitenziari all’interno del progetto regionale: Sportelli informativi e mediazione per detenuti negli Istituti penitenziari della regione Emilia Romagna. Qui potete scaricare il saggio completo e privo delle riduzioni effettuate per la presente ripubblicazione.

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