Per una fenomenologia della narrazione in Rete

La multimedialità, ossia l’uso integrato di tecniche, strumenti e forme espressive fino a pochi anni fa distinti o incomunicanti, caratterizza da cima a fondo l’esperienza della narrazione in Rete.

Se guardiamo alle sue pratiche quotidiane, collettive, irriflesse – anziché alle sperimentazioni avanzate o alle teorizzazioni che si risolvono in prescrizioni –, il livello descrittivo più idoneo resta quello di un’utenza media, impregiudicata, segnata da ciò che accade perlopiù e di regola, laddove produzione e fruizione circolano incessantemente l’una nell’altra. Ma cosa si intende per Rete? Anche in questo caso, occorre privilegiare le modalità con cui essa si dà – il “come” del suo esserci manifesta qui ed ora –, piuttosto che le sue condizioni di funzionamento o la sua consistenza logico-informatica e fisico-infrastrutturale. Rivolgendosi ad essa come a una forma di mondo, il discorso su di essa si riconosce interno ad essa e mira a categorie che abbiano prima di tutto un valore di indice. Come possiamo riformulare, allora, tutto un insieme di eventi, dispositivi, pratiche ed esperienze eterogenee, in modo da orientare lo sguardo sul loro fondo comune?

Tra le categorie più promettenti mi pare esserci quella di raccolta. Come pura indicazione, essa contiene l’invito a perlustrare una rete di esplicazioni, traduzioni, risonanze al tempo stesso linguistiche e concettuali, senza che mai l’orizzonte generale livelli le differenze particolari. Lo sguardo sale e scende lungo il discorso: da un insieme di modalità al loro orizzonte unitario, dal raccogliere ai suoi modi. E tiene insieme, affidandosi al linguaggio, il concreto e l’astratto: il raccogliere legna, pietre, frutti, ma anche tracce, elementi, testimonianze, opinioni, pareri. Che cosa vediamo e sperimentiamo, infatti, dicendo che il tratto essenziale dell’interconnessione e dell’interattività è quello di una raccolta? Che il parlare e l’ascoltare, il vedere e il toccare sono ormai modi di un raccogliersi tecnicamente generato e assistito? Che in Rete la percezione è sempre una percezione raccolta? Che la soggettività non è che il correlato di una raccolta e che il mondo, nella Rete, si manifesta anzitutto come mondo raccolto? Che cos’è l’immagine raccolta (prima ancora che prodotta, vista, giudicata), all’interno di una continua ri- e iper-mediazione di tutti i formati mediali? Qual è lo statuto della parola raccolta? In che senso quella della Rete è una società della raccolta, del collegamento, della collezione, della collettività? E perché è ormai quasi banale dire che un motore di ricerca, o gli aspetti più sensibili dell’informazione e della vita, hanno a che vedere prima di tutto con una raccolta?

Decostruendo la nozione di logos in base al raccogliere, un filosofo come Heidegger ha fatto appello non soltanto alle risorse della lingua preplatonica o a una radice verbale (dal greco legein al latino legere, al tedesco legen), ma anche ad una pratica (decisiva per l’antropogenesi) e a un evento complesso, in cui i confini tra attività e passività, composizione e scomposizione, unità e molteplicità, captazione e separazione, aggregazione e selezione, condensazione e rarefazione, custodia e scarto, inclusione ed esclusione, adunanza e sollevazione, sono estremamente mobili. E non ha taciuto – sottolineando ad esempio la specularità di nozioni come Gestellnis e Gelassenheitl’ambivalenza essenziale di ogni raccolta. Come forma di disposizione, essa implica infatti una semantica della posizione e della postura che va da forme di coercizione e violenza (imposizione) a forme di abbandono e rinuncia (deposizione). Se pensiamo la Rete come volto del Logos – della Raccolta – globale, è impossibile separare, al suo interno, vincoli e libertà, poteri e resistenze, omologazione e creatività.

E allora, come cambia, se cambia, il duplice tratto – espositivo-manifestativo e notificativo-referenziale – del narrare e del raccontare, in Rete? Cosa c’è nelle tracce anonime e collettive, nell’immenso brusio dei linguaggi che si imporrà un giorno all’attenzione degli storici, allorché si chiederanno cosa è stato effettivamente detto e percepito, anziché cosa sarebbe stato possibile, o addirittura si sarebbe dovuto, dire e percepire? Cosa contiene l’immenso archivio dei discorsi effettivamente prodotti, dalle loro superfici manifeste, dalle loro modalità di formazione e coesistenza, di circolazione e valorizzazione, divieto e destinazione, ripartizione e appropriazione? In quali modi e sotto quali forme, per riprendere ancora le parole di Foucault, non è tanto la “libertà” dei soggetti ad inserirsi nello spessore delle cose e a dare loro senso (insensate come sono) animandole, bensì alcuni soggetti effettivamente compaiono, raccolti nell’ordine di un discorso, raccogliendo se stessi in funzione dei discorsi, nell’anonimato di un mormorio continuo e diffuso?

Riflettendo sullo statuto dell’immaginazione – via via qualificata, soprattutto in rapporto alle arti e al mondo tecnicamente riprodotto, come narrativa, intermediale e infine interattiva –, Pietro Montani ha richiamato l’attenzione sulla crucialità, già kantiana, di un evento di unificazione estetica – tenere assieme le molteplicità e le differenze entro un’articolazione non ancora cognitivamente predeterminata e pregiudicata (ovvero, nei termini qui proposti: raccogliersi in un’unità né solo percettiva né solo concettuale) –, senza la quale non sorgerebbe alcuna esperienza, né, tanto meno, quella sua ripresa creativa, plastica e contingente, che per lungo tempo si è chiamato arte e che al suo vertice è stata capace di riorganizzare, rivitalizzare, rilanciare e rigenerare l’esperienza. Nel far questo, egli si è unito a quanti mettono in guardia dai rischi di sospensione della referenza al mondo (e dunque di autoreferenzialità) ai quali la Rete ci sottopone ogni giorno nell’ambito di una deriva an-estetizzante e di una progressiva riduzione della contingenza a processo calcolabile, della percezione a sensazione, del linguaggio a slogan. Nel quadro di un’atrofizzazione emotiva e cognitiva, il dispositivo tecnologico globale rischia, con la sua tendenza ad ottimizzare, levigare, stabilizzare e assicurare l’esperienza, di canalizzare, contrarre, irrigidire, impoverire e banalizzare l’esperienza stessa. La deriva manifestamente sensazionale, esibizionistica, narcisistica e spettacolare di molti social network, è in tal senso un campanello d’allarme. Di fronte a tutto questo, l’auspicio è, da un lato, quello di una maggiore consapevolezza da parte di tutti coloro che sono maggiormente impegnati nel progettare e modificare la Rete; dall’altro, un maggior coraggio creativo da parte di coloro che, a qualsiasi titolo, si sentono legati a un insieme di pratiche e di attitudini riconducibili a uno sguardo artistico. Si tratterebbe, di fronte al progressivo assorbimento delle forme tradizionali di socialità in protocolli ripetitivi e standardizzati, di pensare e praticare, rievocando Walter Benjamin, un‘arte legata a valori espositivi, capace di mettere al lavoro anche e soprattutto parole e immagini prive di ogni pregnanza auratica, persino le più dozzinali e consunte.

Qui vorrei provare a proseguire e a rovesciare questo approccio, chiedendomi se una fenomenologia della narrazione tecnicamente raccolta, predisposta, distribuita, non riservi qualche controesemplificazione che sfugga da un lato alla sola evidenza dei rischi richiamati e dall’altro all’auspicio, tanto legittimo quanto restrittivo, di una risposta dell’arte (creatività) alla tecnica (coazione), anziché di una risposta della tecnica stessa, coi suoi propri mezzi, a se stessa, in una torsione di se stessa. In linea con quanto premesso circa il privilegio dell’esperienza quotidiana, collettiva e irriflessa, farò riferimento, molto sinteticamente, a una narrazione composita che ho potuto raccogliere, in momenti e formati diversi (dagli scambi scritti a quelli vocali) grazie alla Rete. Si tratta a tutti gli effetti della narrazione di una narrazione.

Nel settembre 2014 un ragazzo di ventisei anni si toglie la vita sparandosi un colpo di fucile alla tempia. Lascia un figlio di nemmeno due anni. Attivo tra l’altro in lotte e manifestazioni contro inceneritori e discariche sul proprio territorio, nel 2011 era stato arrestato, mentre si accingeva a partire per la Val di Susa, con accuse di tentato omicidio, devastazione, saccheggio e resistenza a pubblico ufficiale. Erano i giorni successivi alla manifestazione romana del corteo degli indignati, che aveva visto una larga partecipazione sociale e alla quale eravamo presenti anch’io e un collega di un’università italiana. Si indagava sugli scontri che avevano condotto all’assalto di un blindato dei carabinieri, e le parole del ragazzo, finito per caso nell’intercettazione telefonica riguardante il suo interlocutore, venivano in gran parte travisate, tanto che dopo un mese il tribunale del riesame, anche grazie all’ausilio di materiali audiovisivi disponibili in Rete, ad esempio su YouTube, ne disponeva la scarcerazione in attesa del processo.

La notizia del suicidio era stata ripresa dalla stampa del capoluogo che ospita l’università del mio collega. Il ragazzo era un iscritto. Aveva dimorato a più riprese nella casa dello studente. L’attenzione del collega era stata attirata in seguito da uno striscione, issato nel campus, con la scritta: “Chi vive nelle lotte non muore mai”. Non avendo mai incontrato di persona il ragazzo, ne aveva appreso le fattezze dalla stampa. Un giorno, girovagando sul più popolare dei social network, si imbatte fortuitamente nel profilo dell’ex compagna del ragazzo. Ne riconosce immediatamente il volto in una foto che lo ritrae insieme al figlio. Da quel momento torna a visitare più volte la bacheca, in una sorta di lettura intermittente, gravida di coinvolgimento. Come una sorta di punto di vista errante (Iser) o di lettore nomade (Certeau), che avanza e si ritira all’interno del territorio che attraversa, integrava via via la sua percezione delle cose raccogliendosi nella lettura – e per così dire facendosi collettore, non collezionista – di contenuti audiovisivi collettivi, tracce scritte, link, interventi, trovandosi a colmare con l’immaginazione i vuoti cronologici tra un post e l’altro, interrogandosi sulle stratificazioni di senso imposte dalle riscritture, dai rimaneggiamenti, dagli aggiornamenti. In una parola, interagendo con un ambiente complesso in cui un commento può modificare totalmente la fruizione di un’immagine, renderla più autentica o farla cadere nel disinteresse. In cui si compiono passi e ci si domanda se richiedere un accesso o un’informazione, se palesarsi o meno, se lasciare traccia o occultarsi.

Per un po’, pensò seriamente di contattare la titolare del profilo per parlarle, per organizzare una manifestazione in memoria, poi non più. Ma intanto aveva ripercorso la breve vita di un cittadino. Uno dei tanti ragazzi che non si accontentano del privilegio della cittadinanza, fronteggiando paure e incomprensioni, scegliendo di non spendere un’intera esistenza a difesa dei propri privilegi, sperimentano la differenza tra il sentirsi soli e l’essere isolati, dubitando della riduzione della morale a codici e leggi, avvertendo il legame vitale tra dissenso e democrazia, percependo, senza più occultarla, la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è legale. Una banale bacheca ha così rigenerato una percezione. Nella più accessibile delle piattaforme e nella collezione di tracce in Rete, il collega ha incontrato angoscia, tempo, morte, sfinimento, illusione, volgarità, ma anche ottimismo, affetto, coraggio. Ora sa e conosce cose che prima ignorava. Ricorda, mentre avrebbe dimenticato. Forse capisce ciò che mai avrebbe potuto immaginare o intuire. Certamente è entrato in contatto con un fondo di umanità (che raramente ritroverà altrove) grazie ad immagini, banali o di pessima qualità, di una malinconica casa dello studente o di un bambino di pochi mesi, e a un diluvio di pensieri espressi da una giovane vedova in un linguaggio ancora più banale, che è però quello che ciascuno utilizza per rivolgersi a chi ama, valorizzando magari uno slogan o giocando con un codice di cui finisce per restare prigioniero.

Mobile, vagante, errante, intermittente, intermediale, interattivo: così si potrebbe definire lo sguardo che ha accompagnato un’esperienza. Che non è mai un’aggiunta estrinseca o un accumulo, ma la ristrutturazione di ciò che già c’è o si possiede in altra forma. Prima che spettatore e fruitore, egli si è sentito autenticamente utente. Di fronte a chi ha narrato una storia sua malgrado, ossia senza essere un narratore intenzionale che si rivolge a un narratario preventivato o desiderabile, bensì soltanto ad altri utenti ai quali la narrazione accade in quanto raccoglitori e collettori di significanti ed enunciati, il riferimento alla realtà non è mai un oggetto, ma un effetto da sperimentare. Un evento, un’esperienza che raccoglie individui che non si conoscono e che forse non si incontreranno mai. In cui tutti noi raccogliamo ciò che non ci è espressamente destinato e (ci) disperdiamo senza sapere chi (ci) raccoglierà. Il narratore, il lettore, la realtà: tutto, qui, scaturisce dall’orizzonte di una raccolta anonima, tecnicamente abilitata e predisposta. Disposizione di materiali che diventano contenuti disponibili, che producono, come percezioni raccolte, un mutamento nell’utente. Nel lettore in quanto collettore di un legein (deporre contenuti) e correlato di un legere (raccogliere tracce).

Lettore, qui, è colui che nel costituire la significanza, è costituito. Che nel modificare il proprio punto di vista, è modificato. Che si produce nel raccoglimento della lettura, accedendo in qualche modo ad altro, all’altro. Che, andando verso l’altro e raccogliendo ciò che l’altro ha scritto senza ancora disporre di un interlocutore, capisce il bisogno di scambio, lo fa proprio, assicura anonimamente all’altro la sua presenza nel mondo e traspone in un rapporto con sé l’evento di linguaggio che lo sorprende e lo sospende. Il paradigma della raccolta è anche questo. Non c’è un soggetto che preesiste ad essa, perché la sua posizione di soggettività (lettore o narratore) è l’effetto di tale raccolta. Il soggetto è qui una supposizione, nel senso che scaturisce dal sottoporsi a qualcosa di raccolto, restando provvisoriamente raccolto per il tempo in cui permane e dimora entro un raccoglimento. Il che non significa: assorto o sprofondato in un’opera d’arte in senso auratico-cultuale, bensì in un’esposizione totale. Il soggetto dura soltanto il tempo di una raccolta: cattura e condivisione. Il suo è un tempo raccolto. Il tempo di un singolo raccolto disperso.

 

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