Terremoti, Territorio e Pianificazione nell’Italia moderna

Note a margine di Fault Lines. Earthquakes and Urbanism in Modern Italy (Berghahn Books, 2015).

Pubblichiamo la recensione di un importante volume pubblicato da Giacomo Parrinello, che approfondisce la storia ambientale di due grandi terremoti del secolo scorso e racconta un affascinante viaggio fra dinamiche di modernizzazione urbana e ricostruzione prima e dopo i disastri. La versione inglese dell’articolo (disponibile alla pagina seguente) è stata originariamente pubblicata su Entitle Blog.

La Sicilia è una delle regioni italiane a maggiore sismicità, e nel corso dei secoli è stata colpita da terremoti ricorrenti che ne hanno modellato storia, cultura, economia, nonché gestione ambientale e pianificazione territoriale. Le ricostruzioni in seguito a questi terremoti – e, in generale, il modo in cui tali ricostruzioni sono state pianificate e gestite – hanno pertanto lasciato segni tangibili e intangibili nello sviluppo urbano e territoriale, nella cultura e nella società.

Nel volume Fault Lines. Earthquakes and Urbanism in Modern Italy (Berghahn Books, 2015), l’autore Giacomo Parrinello esplora le continuità e discontinuità tra le ricostruzioni in seguito ai due grandi terremoti di Messina (1908) e del Belice (1968) e le preesistenti traiettorie di sviluppo e modernizzazione. La domanda centrale del volume è se i terremoti possano parlare e abbiano qualcosa da dire per comprendere l’evoluzione di queste due aree siciliane tra il XIX e il XX secolo in termini di organizzazione spaziale, economia e società. L’ovvia risposta è che, sì, i terremoti possono parlare con voce netta e squillante. Al di là di ogni retorica, la meticolosità dell’autore, oltre alla sua creatività e chiarezza nel presentare i propri risultati, consente infatti ai terremoti di raccontare un viaggio affascinante a Messina e nella valle del Belice prima e dopo il disastro.

Siamo a Messina, ultimi decenni del XIX secolo. Seguendo la tendenza intrapresa da altre città nell’Italia post-unitaria, le istituzioni locali proposero una serie di riforme urbanistiche tali da innescare un processo di modernizzazione che avrebbe condotto a trasformazioni fisiche e sociali del tessuto urbano. Tali riforme ricadevano sotto la pratica urbanistica del risanamento, volta al miglioramento della qualità della vita urbana tramite l’allargamento delle strade, la demolizione degli insediamenti poveri e insalubri e un nuovo sistema integrato per l’approvvigionamento e la gestione delle risorse idriche (Capitolo 2).

Nonostante molteplici critiche, ritardi e conflitti tra i vari attori locali, queste riforme urbanistiche furono attuate, per venire poi bruscamente interrotte da uno dei più gravi terremoti della storia italiana che occorse in Sicilia e Calabria il 28 dicembre 1908 innescando anche uno tsunami e diversi incendi (Capitolo 1). Gran parte della città di Messina fu distrutta, riportando decine di migliaia di vittime e di sfollati.

Già all’inizio del 1909, pochi mesi dopo il sisma, fu deciso che Messina sarebbe stata ricostruita dove era sempre esistita. Nella ricostruzione, agli obiettivi preesistenti di modernizzazione e risanamento, sarebbero stati affiancati anche quelli per la mitigazione del rischio sismico. Il processo di modernizzazione dunque riprese (Capitolo 3) con l’avvio della ricostruzione e condusse alla trasformazione totale di Messina, contribuendo a modificarne l’economia locale da una tradizionale vocazione marittima a un’economia industriale e terziaria. Migliaia di sfollati dai centri vicini trovarono inoltre rifugio in città. Le sistemazioni temporanee pianificate dalle amministrazioni locali per la loro accoglienza, tuttavia, divennero permanenti per decenni, generando condizioni di sfruttamento, povertà e emarginazione, ripercorrendo una tendenza divenuta poi un problema chiave in molte delle varie ricostruzioni post sisma italiane1. La dimensiodne di Messina aumentò drammaticamente e condusse a un intenso sviluppo urbano.

Cambiamo scenario, e spostiamoci in villaggi contadini scarsamente popolati nella valle del Belice, con povertà diffusa e una cronica mancanza di infrastrutture, primi anni Venti del XX secolo. Dopo gli iniziali tentativi di modernizzazione nel periodo post-unitario, durante il fascismo vennero proposti numerosi piani di sviluppo che puntavano alla modernizzazione agricola e rurale, alle bonifiche e alla lotta alla malaria (Capitolo 5). Dopo la seconda guerra mondiale, la Cassa per il Mezzogiorno continuò il percorso intrapreso tramite la distribuzione di finanziamenti per l’avvio di una trasformazione rurale in grado di ammodernare le infrastrutture agricole e promuovere l’industrializzazione dell’area. Quando la sequenza sismica colpì il Belice il 14 gennaio 1968, decine di villaggi furono distrutti (Capitolo 4). Centinaia di persone persero la vita; decine di migliaia furono gli sfollati e gli assistiti.

Come a Messina, anche nella valle del Belice i preesistenti obiettivi di modernizzazione vennero inseriti all’interno del processo di ricostruzione. Tuttavia, a differenza di Messina, i quattordici villaggi colpiti dal sisma non furono ricostruiti nella loro posizione storica. Si optò invece per l’abbandono e la loro delocalizzazione a varie decine di chilometri di distanza in un’ottica di pianificazione che sarebbe stata definita come “città-territorio” (Capitolo 6). L’idea era infatti quella di costruire moderne new town, autonome dal punto di vista delle funzioni urbane e in grado di sostentarsi con una propria economia. Pertanto, i nuovi insediamenti trasformarono quella che era un’area rurale in una serie di new town dalle caratteristiche suburbane, con moderne infrastrutture urbane e reti stradali organizzate per una mobilità prettamente automobilistica.

Gran parte di questi piani di modernizzazione, tuttavia, non ottenne i risultati attesi di “sviluppo”. I flussi di emigrazione verso l’Italia settentrionale e l’estero rimasero costanti negli anni seguenti. La qualità delle abitazioni rimase scarsa. Spinti da Danilo Dolci, gli abitanti diedero vita a manifestazioni di protesta per reclamare i loro diritti chiedendo uno sviluppo e una ricostruzione che si focalizzassero sulle esigenze locali dettate dal basso e non da Roma o Palermo. Corruzione, mancanza di coordinamento tra enti istituzionale e il distacco tra le politiche di sviluppo decise a livello centrale e il contesto locale condussero, in sostanza, al fallimento di questi tentativi di modernizzazione.

Sia a Messina che nella valle del Belice, l’obiettivo di integrare modernizzazione urbana, ricostruzione e mitigazione del rischio condusse alla trasformazione radicale dell’ambiente costruito. Sebbene il volume di Parrinello narri questa trasformazione principalmente attraverso una disamina storica delle scelte di pianificazione urbana, offre anche approfondimenti dettagliati su altre storie che inevitabilmente emergono e si intrecciano, come i conflitti tra autorità locali e centrali, il ruolo della scienza nel dibattito pubblico e politico, le ingiustizie ambientali e spaziali, le lotte delle comunità locali, il fallimento di uno sviluppo concepito come centralizzato e mai calato davvero sul territorio.

Diciassette anni fa, il viaggio intrigante nei disastri italiani di Dickie, Foot & Snowden in Disastro! Disasters in Italy since 1860: Culture, Politics, Society, avrebbe potuto rappresentare una pietra miliare per il dibattito in Italia. Ciononostante, probabilmente non fu in grado di portare attenzione e stimolare dibattito, in particolare nelle scienze sociali italiane, sul ruolo dei disastri nella formazione e trasformazione del rapporto tra uomo e ambiente. Al contrario, dopo il terremoto dell’Aquila nel 2009, è sorto un crescente interesse su questi temi da parte del mondo accademico con un’ampia prospettiva di scienze sociali, tra cui geografia umana, sociologia, antropologia2.

Libri come Territorio e Democrazia: un laboratorio di geografia sociale nel doposisma aquilano (L’Una, 2012), Fukushima, Concordia e altre macerie. Vita quotidiana, resistenza e gestione del disastro (Edit Press, 2015), Oltre il rischio sismico. Valutare, comunicare e decidere oggi, le politiche del disastro (Carocci, 2015), Politiche del disastro. Poteri e contropoteri nel terremoto emiliano (Ombre Corte, 2016) e il recente Territori Vulnerabili. Verso una nuova sociologia dei disastri italiani (Franco Angeli, 2016), fanno parte di un numero crescente di contributi e prospettive che mira a rispondere a domande su come la politica e la pianificazione reagiscano ai disastri, quale sia il ruolo dei disastri come acceleratore dei processi sociali, economici e politici preesistenti, come questi contribuiscano a esacerbare condizioni delle disuguaglianze spaziali e sociali, vulnerabilità e sfruttamento, e come aumentare la capacità decisionale e di leadership delle comunità locali.

A tal proposito, in Italia è necessaria una maggiore attenzione alla comprensione dei disastri dalle molteplici prospettive delle scienze sociali. Dopo il terremoto di Amatrice nell’agosto del 2016, è sembrato infatti ancora più chiaro come il dibattito pubblico sia ancora fortemente orientato verso un approccio tecnocratico alla mitigazione del rischio sismico e soffra di uno scarso utilizzo delle scienze sociali nel comprendere la costruzione sociale e politica dei disastri e le cause di vulnerabilità sociale esistente nelle aree appenniniche. È inoltre necessario fornire una chiara comprensione dei rischi e disastri come questioni altamente politiche, che richiedono sia risposte istituzionali che di potenziamento delle comunità locali a recuperare le proprie voci.

Il volume di Giacomo Parrinello è, pertanto, una fonte importante da aggiungere a questo campo di studi. La speranza è che gli argomenti toccati divengano presto parte integrante e riconosciuta della ricerca accademica, del dibattito politico e dell’opinione pubblica, e non solo un problema considerato in maniera superficiale e discontinua quando si verifica un disastro.

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Note

  1. Cfr. il volume di Pietro Saitta Quota zero. Messina dopo il terremoto: la ricostruzione infinita
  2. Cfr. il recente articolo di Fabio Carnelli, Giuseppe Forino e Sara Zizzari L’aquila 2009-2016. The earthquake in the italian social sciences e l’introduzione di Mara Benadusi al primo numero della rivista Antropologia Pubblica

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