Fatti, rifatti, contraffatti

Ancora oggi a parlare di Bianciardi

di Stefano Jacoviello

Film, libri, documentari, canzoni, articoli, convegni, e ora anchespettacoli teatrali. Il pensiero di un uomo sopravvive, anche a lui stesso, nella serie di interpretazioni che lo seguono. Così si ha l’impressione di un dialogo che attraversi il tempo. Così si costruiscono le tradizioni. Fedeltà o infedeltà, al pensiero o alla persona: sono atteggiamenti interpretativi che alimentano quesiti per i filologi, i critici, i familiari, talvolta anche per i semplici passanti, acquirenti o spettatori chiamati a dar “da posteri” una sentenza qualsiasi.

Nel discutere sull’attualità di Bianciardi sarebbe interessante capire quanto possa contare oggi il suo pensiero, quale sia e cosa ne resta, e quanto invece sia importante, o invadente, “il mito di un antieroe” che si è costruito a partire dalle sue narrazioni. La finzione autobiografica dei suoi romanzi è stata lo strumento più efficace per irridere il passaggio obbligato “dalla cronaca alla storia”, la progressione “dal neorealismo al realismo” che attanagliava la critica militante del dottor Fernaspe nella Milano degli anni Sessanta. Poi questa narrazione è diventata immediatamente la base per una biografia: racconto di una realtà che a sua volta era stata una finzione servita a raccontare una realtà che, molto più problematicamente, sfuggiva agli occhi di chi se la trovava davanti. Ogni racconto tende a testimoniare, o più semplicemente lo pretende. La vita di Luciano Bianciardi ha lentamente trovato riverberi in mille altre vite agre, o è servita a raccontarle, forse con la segreta pretesa di testimoniarle.

Bianciardi è riuscito così a darci «la narrativa integrale – ma la definizione, attenti, è provvisoria – dove il narratore è coinvolto nel suo narrare proprio in quanto narratore, e il lettore nel suo leggere in quanto lettore, e tutti e due coinvolti insieme in quanto uomini vivi e contribuenti cittadini e congedati dall’esercito, insomma interi» [1]. È riuscito in un sol colpo a congedarci dall’autore e a rimetterlo in gioco. Bianciardi smaschera la militanza, ma milita per pulsione inevitabile. Discerne lucidamente la professionalità dal professionismo come una qualità da un vezzo, ma non si sottrae al soccombere di fronte a ogni vizio professionale, e anche i romanzi diventano pagine senza capire più se ciò dipende dalle condizioni in cui si traduce, oppure è questo lavoro che cerca quelle condizioni, e «se uno è costretto per nascita e malasorte a lavorare, meglio che lavori di continuo finché non muore, e se ne stia fermo sul posto di lavoro» [2].

Bianciardi è irregolare, in questo. Non banalmente negli affetti disordinati, nel manifestare le pulsioni senza lasciare che la morale del nuovo perbenismo terziario e quartario le inquadri in forme del desiderio. Quello lo facevano già i “bitnicchi”, nei loro romanzi per di più, e con quel modo di raccontarsela come in un romanzo. La sua irregolarità è in quella paradossalità che impedisce qualsiasi sentenza, costringendo a considerare tutte le altre possibili come sentenze qualsiasi.

Oggi che da più parti si invoca il ritorno degli eroi, di grandi sistemi etici e morali rispetto a cui sentire l’obbligo del confronto, Bianciardi sembra lasciarci soli con i problemi. L’unico diritto da rivendicare senza accettare mediazioni è quello al coito verace, vero atto rivoluzionario perché cancella ogni infingimento, riequilbra fini e mezzi di produzione e impedisce l’alienazione, mina alle basi il neocapitalismo e il socialismo insieme, riportando finalmente l’uomo allo stato della bestia, l’unico che gli si addice veramente. No, non sembra per lui il mestiere di eroe. E’ questo che lo rende simpatico, e fa venir voglia di parlarci un po’, ancora oggi.

Note

(1] Luciano Bianciardi, La vita agra, Bompiani, Milano 1962 (1995, p.27).

[2] Idem, p. 192.

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