“Fate presto”: l’Irpinia post terremoto tra memoria e multimedialità

Sismografie ha ospitato lo scorso 6 maggio un articolo in cui Alessandro Cattunar parlava di In/visible cities, un festival in cui la multimedialità si connetteva a contesti urbani e memoria del territorio. Ospitiamo oggi una riflessione di Emanuela Di Guglielmo e Marina Brancato a partire dalla loro partecipazione al festival.

«Ma la terra con cui hai diviso il freddo mai più potrai fare a meno di amarla»
Vladimir Majakovskij

Si è concluso il 29 maggio scorso a Gorizia, In\visible cities: festival internazionale della multimedialità urbana che quest’anno ha avuto come tema centrale le catastrofi, in occasione del quarantesimo anniversario dal sisma che colpì il territorio friuliano.

In\visible cities, infatti, è stato uno di quegli eventi che ha saputo intrattenere con la memoria collettiva un rapporto del tutto nuovo. Uno strumento culturale in cui i media non solo dialogano con il pubblico, ma tra loro stessi, dando vita ad una interessante e necessaria commistione interdisciplinare tra arte, media e oralità. Dal 6 al 29 maggio 2016, la città di Gorizia si è trasformata in un laboratorio a cielo aperto: un’eterotopia felice, per citare Michel Foucault. Perché questo è stato (e sarà) In\visible cities: un luogo aperto su altri luoghi della città. Spazi in grado di comunicare tra loro e con chi li abita attraverso il linguaggio e il racconto dei media. Un momento in cui giovani artisti e studiosi italiani – e non solo – hanno messo “in campo” le loro esperienze e la loro creatività facendosi portatori di valori e pratiche da condividere, tra arte e artigianalità allo stato puro. Il risultato è stato un lavoro orizzontale e non verticale, un lavoro sperimentale sul territorio goriziano utilizzando più linguaggi. Come il workshop “Portatori di storie. Ricognizione di una memoria” diretto da Leonardo Sangiorgi di Studio Azzurro, il famoso gruppo artistico di videoarte, fondato nel 1982 a Milano.

Dodici partecipanti provenienti da tutta Italia hanno dato vita ad un racconto corale: un’installazione multimediale e interattiva relativa alla memoria del territorio. Un laboratorio in cui la multimedialità, l’uso della telecamera e delle testimonianze orali hanno incontrato le voci di chi vive Gorizia e Nova Gorica, nella quotidianità di una terra di confine. Distillati di storie intime e collettive concordano sul fatto che la città, è il proprio mondo, lasciarla o perderla comporta il rischio di perdere il proprio bagaglio di esperienze, il proprio mondo interiore che riflette quello esteriore.

Un lavoro dall’immenso valore, non solo artistico ma storico-antropologico, che potrebbe essere un esempio in terre più a Sud, come l’Irpinia, dove le ferite del terremoto sono ancora aperte e sospese tra un prima e un dopo che funziona più per dividere che per unire. Perché il terremoto è ancora un racconto rapido, sincopato nel ricordo doppio, diviso tra il vecchio e il nuovo.

La nostra esperienza a Gorizia è stata occasione, quindi, per riflettere e approfondire la necessità di far incontrare i nostri rispettivi percorsi di ricerca: l’antropologia e la fotografia del paesaggio. Due sguardi che si combinano per “leggere” i mutamenti culturali attraverso lo spazio, il tempo e le persone.

In Irpinia il sisma è stato la fine di un mondo. Non esiste Orcolat, l’orco che la tradizione popolare friulana indica come responsabile dei terremoti e che nell’immaginario collettivo, probabilmente, addomestica e rende famigliare un disastro naturale. Per chi scrive, il terremoto è la propria infanzia: coetanee di un fantasma, che ci è cresciuto accanto, in una fratellanza che annoda dolore e voglia di ricominciare.

Come per Conza della Campania, l’epicentro del terribile sisma del 1980 in Irpinia e protagonista dell’installazione artistica e audiovisiva “Fate Presto” . L’Irpinia pre e post sisma raccontata attraverso foto di archivio in bianco e nero. “Fate presto” è la “lettura” di quei volti che hanno fatto inesorabilmente i conti con la perdita di tutto.

L’installazione è uno sguardo nuovo sull’Irpinia del dopo catastrofe, fatta di nuovi equilibri e contornata da nuovi paesaggi. Il nodo centrale di questo progetto è scoprire, intercettando le connessioni e le trasformazioni dei luoghi, non solo sotto una chiave tecnico-paesaggistica ma soprattutto sotto forma d’arte e far interagire le persone con i luoghi e le architetture, rivalutando il concetto di vicinato, fondamentale tassello del nostro abitare.

Perché l’Italia è un Paese “sottosopra” per dirla con Paolo Rumiz: in fondo, siamo tutti “post terremoto”, pensiero confermato ascoltando gli altri artisti del festival e soprattutto gli abitanti del Friuli che hanno visitato l’installazione “Fate Presto”. Ognuno di loro aveva un personale ricordo, una storia da raccogliere, trattenere e condividere nello sconfinato serbatoio di memorie sismiche. Come la disarmante semplicità della testimonianza, all’interno della performance teatrale 40 d.T.//Terremoto istruzioni per l’uso di Natalie Norma Fella e Sara Rainis, di un’anziana signora di Gemona che racconta, tra le lacrime, la perdita dei suoi genitori di cui non è riuscita più a riconoscere i corpi, ormai trasfigurati dalle macerie: «Il terremoto rende più buoni le persone già buone e più cattivi quelli che lo sono già. Porta ad accelerare molte cose, e quando accade una tale catastrofe non si sa mai qual è la cosa giusta da fare, se restare in casa o scappare».

L’esperienza partecipata ad In\visible Cities ci fa capire quanto fondamentale sia la necessità del ricordo e dell’ascolto orizzontale– mai verticale – e la lettura delle trasformazioni territoriali, umane e culturali utilizzando i nuovi linguaggi per parlare e, talvolta, scuotere le coscienze.

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