Pasolini, discutendo di Salò, sosteneva che nulla è più anarchico del potere, perché il potere fa ciò che vuole, e ciò che vuole il potere è completamente arbitrario. Eppure, a scrutare il fondo uccisore della sovranità moderna, emerge la fragilità di un potere che ha bisogno, per esistere, del riconoscimento delle proprie vittime. Come una preghiera di Dio, l’ordine implora di essere amato, anche da coloro che mette a morte. Di questa che nel libro di Francescomaria Tedesco, Eccedenza sovrana (Mimesis 2013), viene definita “teurgia politica” beneficia Barnardine, l’assassino boemo di Misura per misura di Shakespeare, che alla chiamata al patibolo risponde con un’imprecazione: non ha voglia di morire, e non morirà, e al potere “gli prenda la peste alla gola”. È così che egli si fa sovrano. Al pari dello Stato e contro lo Stato. Di Eccedenza sovrana pubblichiamo l’Introduzione.
In Misura per misura Barnardine, assassino e ubriacone boemo detenuto nelle carceri viennesi, deve essere ucciso perché la sua testa serve a sostituire la testa di un altro a cui invece si vuole risparmiare la vita. Ma accade qualcosa di strano e inaspettato: Barnardine rifiuta di farsi uccidere, anzi risponde con l’ingiuria alla chiamata dei suoi carcerieri e del Duca Vincentio, autorità sovrana di Vienna. E Barnardine non verrà ucciso. Al suo posto, la testa di Ragozine, pirata.
Questa tragicommedia fu rappresentata alla corte di Giacomo I il giorno di Santo Stefano del 1604, davanti a quel coltissimo figlio di una regina decapitata, che aveva già scritto il Basilikon Doron, speculum princeps per suo figlio Enrico: consigli per reggere lo Stato. Shakespeare e la sua King’s Men recitano al cospetto di un sovrano impegnato a declinare l’autorità regia in una chiave profondamente religiosa e autoritaria, scagliandosi contro i privilegi del parlamento e cercando di limitare le sue prerogative.
Ma che ci fa uno come Barnardine alla corte di Giacomo? L’analisi del rapporto tra sovranità e politica in Inghilterra a cavallo tra Cinque e Seicento, ovvero nel momento di germinazione dello Stato moderno, superiorem non recognoscens, passa anche attraverso il teatro elisabettiano. Esso è lo specchio fedelissimo dell’atteggiamento verso la politica: un atteggiamento, tra le altre cose, di profondissima diffidenza, in cui il politico è il truffatore, l’assassino, l’ingannatore. Le figure del politico sono figure del Maligno. In questo contesto, il sovrano diventa un vero “machiavello”. Si assiste cioè alla ricezione, in Inghilterra, di un’accezione di “politico” e di “politica”, in cui Machiavelli diventa l’epitome del Male e dell’inganno. Non conta molto quanto fosse filologicamente e concettualmente corretta questa accezione. Conta che nel teatro elisabettiano si verifichi questa declinazione, e il machiavellismo che viene “ricostruito” è quello elaborato dagli ugonotti francesi in opposizione alla corona di Francia. Machiavelli così diventa l’arcidiavolo, l’incarnazione di tutti i mali del potere, non ultima la rapacità economica che i francesi avevano sperimentato facendo la conoscenza dei fiorentini che Caterina de’ Medici (figlia, lo si ricordi, di quel Lorenzo de’ Medici a cui Il Principe era dedicato) si era portata dietro dall’Italia. Un anonimo ugonotto francese scriverà che la corte italiana di Caterina si era resa responsabile di più morti di quanti ne avessero fatti il veleno dei serpenti, la crudeltà delle tigri, leopardi, coccodrilli, linci, orsi e altri voraci animali in tutti i tempi dalla creazione.
Insomma, nel momento in cui si cristallizza, nelle opere di autori come Bodin e Hobbes ma anche in vicende storiche come la Pace di Westfalia, la sovranità moderna come noi la conosciamo, si può – scavando nella storia e nella letteratura – rintracciare un antico filone: quello del potere come male, e della resistenza al potere da parte degli “scarti” della società. A Barnardine fanno eco i personaggi rabelaisiani, i quali giocano a una radicale messa in questione del potere attraverso il meccanismo dell’abbassamento dell’alto e della ridicolizzazione del potere (anche religioso). Eretici ed eresiarchi propongono una cosmogonia che sovverte l’ordine costituito, in un rapporto tra cultura subalterna e cultura dominante che non è affatto il risultato dell’imposizione di questa su quella. Il mugnaio Domenico Scandella non trae la sua visione, quella che gli costerà la morte, dalla lettura dei libri; egli è figlio di una cultura popolare diffusa che attinge al magma delle tensioni ereticali e riformatrici.
Dunque, si diceva, nascita del potere sovrano – alla quale corrisponde, in uno strano paradosso che caratterizza tutta la modernità, la nascita del soggetto inteso come portatore di diritti individuali, “libertà da” – e resistenza al potere sovrano. Potere che vuole uccidere – poiché il potere del Leviatano è il potere di frenare la violenza della guerra civile attraverso la minaccia costante, latente dell’uccisione da parte dello Stato stesso – e potere a cui viene negata la legittimità di uccidere. È dentro il rapporto conflittuale tra questa minaccia di un potenziale “sfrenamento” e la soggettività giuridica e politica che si gioca la modernità.
Tuttavia, c’è un limite: il potere, per essere tale, ha bisogno della legittimazione. Nella Gnosi, in cui dio ha bisogno di essere restaurato nella propria gloria dagli atti degli uomini. Così nella politica lo Stato ha bisogno di essere restaurato, costituito, fatto, creato, proprio dai suoi sudditi. Lo Stato recita una preghiera ai propri cittadini affinché lo “amino”, sia il loro unico “amore”. Questo “bisogno” di “amore” è ciò che nella cabbalistica ebraica, oltre che nella Gnosi, viene chiamata “teurgia”, cioè le pratiche attraverso cui l’uomo “pone” dio. Lo Stato, per esistere, ha bisogno del riconoscimento da parte dei cittadini. Se ne era avveduto anche La Boétie, quel lampo sinistro che attraversa la filosofia politica occidentale, e che forse meglio di tutti spiega che il tiranno non ha bisogno di essere abbattuto: egli “deperisce” quando si smette di obbedirgli.
Il tema del riconoscimento però è anche (soprattutto) in Hegel e nella mise à jour di Kojève. In Hegel, naturalmente, non c’è affatto un meccanismo di riconoscimento tra lo Stato e il cittadino: per Hegel il riconoscimento è solo inter-individuale. Lo Stato non esiste per i cittadini, mentre i cittadini devono essere pronti a morire in guerra (o sul patibolo) per esso. Ma se si dà un’interpretazione democratica dell’eticità, allora si può dire non solo che tra Stato e cittadino sussiste una relazione di riconoscimento, ma anche che questa relazione non è data una volta e per sempre. Ne consegue che questa relazione si può spezzare quando ai cittadini vengono fatte richieste inaccettabili da parte di quello Stato che intende avere il loro riconoscimento. Poiché è solo tramite esso, che lo Stato esiste.
Perché Barnardine non viene ucciso? Perché alla richiesta di riconoscimento da parte del potere sovrano (“Barnardine! Devi alzarti e farti impiccare, Mastro Barnardine”) egli risponde con l’imprecazione. Come racconterà Althusser, il soggetto (che in qualche misura è già tale) si soggettivizza e si assoggetta (secondo l’ambiguità tipica del termine “soggetto” in quanto insieme superiore, autonomo, ma anche subordinato) quando risponde alla chiamata (interpellation) del poliziotto che per la strada gli urla hé, vous, là-bas! ruotando di 180°. Girarsi significa diventare soggetto. Ciò che Althusser non ci dice è che girarsi rende soggetto il chiamato, ma costituisce nel suo potere sovrano anche il chiamante. Se il chiamato avesse risposto “che vuoi?”, il potere, come un mostro dai piedi d’argilla, sarebbe collassato.
La figura di una relazione di questo genere è Abramo: l’anziano patriarca viene interpellato da Dio affinché sacrifichi suo figlio Isacco. Nella cabbalistica ebraica Dio, sobillato da Satana – il dubbio della coscienza, in termini moderni; un dubbio che piacerebbe a Saramago – ha bisogno che Abramo gli dimostri il suo amore incondizionato. È la teurgia di cui si parlava in precedenza, sebbene in nessuna delle opere della sapienza ebraica la relazione tra Abramo e Dio venga posta nei termini della “teurgia”. Abramo, a ogni modo, non spezza affatto quella relazione. Abramo è preso nella trama del potere non tanto perché uccide Isacco (intanto perché non lo uccide, anche se in alcune interpretazioni cabbalistiche Isacco viene ucciso e poi risuscita), ma in quanto alla interpellazione egli risponde hinneni, “eccomi”, “sono qui”, “vedimi”: obbedisco. In questo modo, egli costituisce e restaura Dio e la sua gloria.
La chiamata di Barnardine è dunque al contempo il tu es che s’evoca dal fondo uccisore di ogni imperativo ma anche l’estrema soggettivazione dell’assassino rappresentato nel dramma di Shakespeare. Tutto sta alla risposta di Barnardine: girarsi di 180° significa soggettivizzarsi – riconoscimento è sempre una re-con-naissance, un nascere insieme di nuovo, un riconascimento – e assoggettarsi, confermarsi nella cittadinanza e confermare la potenza del sovrano. Negare quel riconoscimento, rispondere con l’imprecazione di Barnardine, significa qualcosa d’altro. La pena di morte è dunque un’esclusione includente o un’inclusione escludente: ma solo nella misura in cui in essa si ripete il rito del riconoscimento. La pena di morte non è affatto la riduzione del cittadino a uno stato di ferinità: al contrario, essa rappresenta la richiesta in limine mortis, per l’appunto, di una firma da apporre al patto di cittadinanza. In altri termini, se l’atto criminale è la rottura del contratto sociale, esso non è, come sosteneva Fichte, una perdita di tutti i diritti come cittadino, ovvero non è la perdita della dimensione politica. È allo stesso tempo perdita e mantenimento di quella dimensione, o meglio perdita attraverso il mantenimento di quella dimensione. Lo Stato che uccide il cittadino non nega il diritto, ma dà concreto sfogo alla violenza frenata che sta all’origine stessa dello Stato e del diritto: si tratta di un’eccedenza sovrana. La fictio del contrattualismo non riesce a camuffare fino in fondo un tale ritorno dello Stato a quella dimensione pregiuridica che lo Stato stesso ha serbato come uno scarto, un resto di animalità che ne è anche la condizione di possibilità. Del resto è interessante che la figura del boia esprima questa ambiguità, questa ambivalenza: “il boia, ci racconta de Maistre, non è fuori dalla società, ne è forse uno dei simboli dell’ambivalenza che la costituisce. Come de Maistre ci racconta, egli tiene insieme le dimensioni più nascoste, l’orrore e il legame”. La condizione trascendentale della sovranità è la pena di morte.
Il libro si chiude tornando su Barnardine, il soggetto che ha rifiutato di farsi uccidere poiché ha rifiutato di conferire il proprio riconoscimento al potere sovrano. Barnardine incarna – molto più di quanto non faccia il “santo” Bartleby caro a una certa letteratura radicale e antagonista – il soggetto che si oppone alle richieste vessatorie dello Stato, colui che – opponendosi allo Stato, negandogli il riconoscimento – si fa a sua volta egli stesso soggetto, al pari dello Stato. È nella teoria internazionalistica la tesi che la Dichiarazione universale dei diritti umani del ’48 abbia conferito agli individui una soggettività di diritto internazionale che fino ad allora spettava, classicamente e per tutta la modernità catturata dentro il paradigma westfaliano, solo agli Stati. Il novello Barnardine, diventando soggetto di diritto internazionale tramite la propria opposizione all’essere giustiziato, si fa a propria volta soggetto di diritto internazionale. O meglio si fa soggetto sovrano.
Barnardine dunque incarna tutti quei soggetti subalterni, gli ultimi della storia, i crapuloni, gli ubriaconi, i foolish, i marginali di Rabelais, che con la loro opposizione al potere sovrano dimostrano la debolezza di quel potere, il suo bisogno di essere restaurato nella sua gloria dal riconoscimento da parte dei suoi “sudditi”. Il potere sovrano ha bisogno del consenso delle proprie vittime, per ucciderle. Ma le vittime possono spezzare questo meccanismo “teurgico” e, facendolo, farsi nuovi soggetti sovrani. Basta non partecipare alla chiamata, rispondere “che vuoi?”, fare come l’asinello di Abramo, che resta ai piedi del monte Moriah: fare come un esule in mezzo alla guerra sterminatrice, fiducioso in anarchiche salvezze, fiducioso in una condizione nella quale il piccolo mondo, l’umile vita tragicamente quotidiana, nella sua misera e sublime immediatezza, svuoti e risolva il grande mondo divenuto teatro di follie disumane.