Il numero della rivista Meridiana intitolato Fare politica torna criticamente su temi e problemi classici degli studi politici. Pubblichiamo un estratto dall’introduzione di Fabio Dei e Antonio Vesco.
Tutta l’antropologia è antropologia politica. Questo slogan circola largamente nei recenti dibattiti in questa disciplina. Si tratta di uno slogan, come si dice, anti-culturalista. È curioso, ma una scienza che è nata e si è sviluppata attorno al concetto di cultura è oggi preoccupata proprio dal prenderne le distanze. Cosa c’è che non va nella cultura, anzi nel culturalismo? Negli ultimi venticinque anni l’antropologia è stata molto impegnata su temi come l’identità, l’integrazione dei migranti, il razzismo, l’etnicità e i conflitti etnici. In questi campi, si è avvertito con forza il rischio di una assolutizzazione delle differenze culturali, intese come basi prepolitiche e neutrali dell’appartenenza: come se la chiusura, l’odio e persino i conflitti identitari fossero causati da tratti distintivi, eterni e ineluttabili, che dividono i popoli e si collocano a monte della storia. Di fatto argomenti di questo genere sono stati utilizzati come copertura ideologica proprio dai più aggressivi movimenti xenofobi e nazionalisti. È stata dunque d’obbligo una critica (o autocritica, per meglio dire) dell’antropologia rispetto agli usi eccessivamente essenzialisti del lessico culturale. Se fino agli anni ottanta si assumeva che compito degli antropologi fosse (de)scrivere la cultura, dagli anni novanta l’obiettivo è stato scrivere contro la cultura. Nuove parole d’ordine hanno sostenuto una nuova sensibilità rivolta «contro l’identità» e «contro il fondamentalismo culturale». Si è costantemente ripetuto che a incontrarsi e scontrarsi non sono le culture ma le persone; e che alla base dei conflitti non vi sono i valori, le tradizioni e i sentimenti etnici ma gli interessi economici e politici. E così via. Di conseguenza, nel linguaggio teoretico il termine cultura è stato rimpiazzato da altri, in particolare da «pratica» e da «potere». Nozioni che intendono sostituire una visione dell’azione sociale basata su modelli statici e neutrali (strutture, modelli cognitivi, reti di significati) con una incentrata sull’agency di soggetti politici orientati verso particolari poste, i quali, in questa loro volontà di potenza, mettono in gioco – strumentalmente, ideologicamente – le retoriche culturali.
Se la critica al culturalismo era dovuta e inevitabile, non sono invece affatto scontati gli esiti di una frettolosa e radicale dismissione del concetto di cultura tout court. Il politicismo, d’altro canto, pone a sua volta problemi, o almeno rischi, di non poco conto. Quello di scivolare in vetuste forme di determinismo materialistico, in primo luogo: dove il rapporto tra le vere motivazioni economico-politiche e le superficiali motivazioni culturali tende ad appiattirsi su quello tra struttura e sovrastruttura, tra l’ordine dell’oggettività e quello della falsa coscienza. In secondo luogo, e di conseguenza, il rischio di ripiombare in una nozione pre-antropologica di soggettività agente – universale e utilitarista – rispetto a cui le differenze e i particolarismi sarebbero soltanto mistificanti incrostazioni di superficie.
Ora, se tutto è politica, quale terreno migliore della politica in senso stretto per mettere alla prova l’impianto teorico dell’antropologia contemporanea? Per saggiare i rapporti tra la nozione di potere e quella di cultura, e valutare la capacità di resistenza di quest’ultima? La proposta di questo numero di «Meridiana» nasce appunto da una simile esigenza. Più precisamente, da una duplice convinzione. Primo: per capire le pratiche dei partiti politici, le loro modalità di ricerca del consenso e di radicamento in realtà sociali e territoriali specifiche, occorre tirare in ballo elementi che non sapremmo come definire se non culturali. Vale a dire non soltanto le consapevoli strategie, le ideologie o dottrine, gli interessi materiali messi in gioco, ma anche le reti di significati e i contesti morali in cui i diversi attori sociali si muovono, cruciali per definire il senso dei loro interessi e delle loro motivazioni. Secondo presupposto: per accedere a questo sfondo talvolta inespresso dell’azione sociale non basta riferirsi alle autorappresentazioni che i politici e i loro interlocutori offrono di se stessi. Occorre invece uno scavo etnografico capace di cogliere il livello più sottile delle pratiche quotidiane, quel non detto che sta alla base della costruzione sociale della realtà.
Non tutti i saggi raccolti in questo volume utilizzano una metodologia di ricerca etnografica: tutti però cercano di comprendere lo specifico del politico nel quadro di retoriche sociali e di contesti morali più ampi. Tutti – dal nostro punto di vista – esplorano le possibilità della nozione di «cultura politica» al di là delle censure anticulturaliste, ma anche confrontandosi con il classico uso che di questa espressione ha fatto il discorso politologico. Quest’ultimo – come del resto anche alcuni giornalisti e leader di partito – parla talvolta di «basi antropologiche» dell’appartenenza politica: intendendo con ciò da un lato una dimensione di lunga durata, dall’altro il radicamento in forme di vita, in basi concrete dell’esistenza materiale e della socialità. Questa visione può essere fuorviante se presenta le basi antropologiche come una sorta di immoto e in qualche modo pre-razionale sfondo su cui la razionalità strategica e interessata del politico si innesta. Una sorta di primordialismo, opposto e simmetrico a quel senso comune che insiste sull’influenza totalizzante e ingannevole dei media, che sarebbero in grado di spostare un’opinione pubblica inerme su posizioni sostanzialmente irrazionali.
Se i saggi qui presentati hanno qualcosa in comune, è proprio – ci sembra – il rifiuto di pensare lo spazio del politico nei termini di una razionalità habermasiana, assediata da un lato dalla resistenza primordialista della lunga durata e delle subculture, dall’altro dai tranelli di un Grande Vecchio massmediale. Nella diversità delle situazioni storiche e geografiche discusse, il problema è proprio mettere a fuoco la costituzione situata e contingente del politico come intersezione di tutti questi livelli – di tutte le risorse culturali disponibili ai concreti e attivi soggetti che nel politico si incontrano e si scontrano. Da qui il carattere necessariamente locale delle indagini proposte: poiché è solo nella scala locale che questi intrecci possono rendersi meglio visibili.
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Si tratta dunque di mettere in connessione l’attività svolta dai soggetti all’interno delle strutture di partito e il loro coinvolgimento in ambiti più ampi della vita sociale e politica locale. Più precisamente, l’osservazione ravvicinata delle pratiche politiche territoriali ci permette di cogliere, tra l’altro: l’azione politica di militanti, candidati ed eletti e le forme di adesione ai partiti; l’articolazione territoriale di questi ultimi, il loro funzionamento e le profonde differenze che caratterizzano i diversi soggetti politici da un territorio all’altro; l’interazione tra partiti e società locali; le motivazioni (e le autorappresentazioni) alla base dell’agire politico dei soggetti; i processi di formazione di identità politiche locali e le relazioni tra queste ultime e i paradigmi che dominano la scena politica più ampia.
A fronte della tendenza – diffusa anche in ambito accademico – a concepire un agente politico astratto, universale, mosso da priorità e obiettivi di tipo economico, gli autori e le autrici di questo numero attribuiscono particolare rilevanza all’irriducibile pluralità delle culture come costitutive dei soggetti politici colti in azione nei diversi territori indagati. Quelle che a un primo sguardo appaiono come efficaci strategie messe in campo da attori razionali non sono che la punta di un iceberg, conseguenze evidenti di comportamenti politici ed elettorali che nascondono motivazioni profonde, legate a numerosi fattori: dai processi che contribuiscono a definire le identità politiche dei soggetti e dei partiti al posto che questi ultimi occupano nell’universo sociale locale. Per cogliere questi aspetti è necessario guardare alle narrazioni della politica che circolano all’interno di specifiche cerchie di cittadini e attivisti, nonché alla storia familiare e sociale di coloro che partecipano al gioco politico contribuendo a diversificare in modo straordinario le declinazioni locali di partiti e movimenti. In questa prospettiva, studiare la dimensione locale significa cogliere il politico anche (soprattutto) al di fuori degli spazi ufficialmente deputati alla politica.
Gli elementi culturali rilevabili nel contesto circostante e le rappresentazioni proposte da coloro che sono coinvolti in progetti politici locali sono dunque assunti in quanto aspetti fondanti dell’azione politica dei soggetti. I discorsi e le narrazioni relative al contesto sociale più ampio assumono una funzione di guida per l’azione di militanti, eletti e notabili locali, consentendo di comprendere «cosa significano per degli specifici attori sociali, in uno specifico contesto, termini quali politica, appunto, e potere, partendo dall’assunto che “la politica” non significa sempre e dovunque la stessa cosa»[1].
Simboli e discorsi che si producono nel contesto locale sono qui presi in considerazione, da un lato, in quanto elementi costitutivi delle identità politiche dei soggetti, dall’altro, come fattori che ne veicolano le azioni e le pratiche quotidiane, ben al di là delle motivazioni esplicite fornite dalla propaganda ufficiale dei partiti. Un tale approccio è volto a indagare sistemi di valori, rappresentazioni, pratiche sociali, forme di consumo, in definitiva atteggiamenti morali, modi di impostare le relazioni sociali, «concezioni del mondo e della vita», per rubare una celebre espressione gramsciana. Dimensioni, queste ultime, che non possono essere indagate se non a partire da una prospettiva dal basso e in relazione a concreti contesti socio-culturali.
La scelta di assumere il concetto di consenso in termini, per così dire, antropologici – ovvero in una accezione che tenga conto della dimensione culturale dell’adesione a un potere politico – può rivelarsi rischiosa: se applicato al meccanismo della rappresentanza e ai processi di aggregazione del consenso in un territorio circoscritto, questo approccio rischia di sopravvalutare la dimensione culturale a scapito di quella più propriamente politica. Ma le due sfere non possono essere considerate dimensioni alternative di un fenomeno politico: è proprio connettendole tra loro che può essere individuato il cuore della riproduzione dei rapporti di forza tra individui e gruppi in ambito politico, poiché è proprio la dimensione culturale a veicolare e legittimare le relazioni di dominio e a produrre forme di egemonia. In altre parole, rivendicare il ruolo cruciale della cultura non significa sminuire l’importanza degli interessi, del potere, della ricerca di profitto e utilità; il problema è che soltanto nel quadro di particolari universi culturali e morali si può comprendere ciò che vale per «interessi», «utilità» e «potere».
[1] M. Minicuci, Politica e politiche. Etnografia di un paese di riforma: Scanzano Jonico, CISU, Roma 2012, p. 195.