Maria Arena racconta le sue esperienze in ambito cinematografico: dalla passione per il cinema ai “film difficili”, dalla legge di riforma alla didattica nelle accademie.
Cosa significa “film difficile”?
Il mio primo film lungometraggio è un tipico esempio di “film difficile”: Gesù è morto per i peccati degli altri, un film documentario che racconta la storia di 7 trans prostitute, girato a Catania in autoproduzione e poi prodotto a Milano da Invisibile Film, che ha prodotto anche film di Michelangelo Frammartino, Davide Maldi, Laura Viezzoli, Paola Piacenza, Bruno Oliviero. Non ho usufruito dei contributi statali per realizzarlo e anche adesso fatico a trovare un produttore che mi sostenga nei bandi per realizzare il prossimo film.
Io rientro di certo nella categoria dei registi con “film difficili” e a volte penso che avrei dovuto aprire una casa di produzione per realizzare film. Ci sono molti esempi nella storia del cinema in cui i registi hanno affiancato l’attività di produttori per realizzare i propri film, ma io ho sempre rimandato perché è un impegno troppo gravoso.
Ma quali sono i “film difficili”? Sono quelli che il produttore crede di non poter piazzare, il distributore vendere, l’esercente riempirci la sala? Contrariamente a quanto si dice i “film difficili” come i film documentari e i film indipendenti in generale, hanno un loro pubblico, un pubblico che va informato e non scoraggiato, un pubblico che ha fatto esperienza di un certo cinema “impegnato” ma non per questo “noioso” o “difficile”. Le tecnologie digitali hanno reso disponibili i mezzi per la realizzazione di audiovisivi, il consumo è anche molto cresciuto attraverso la rete e il cinema indipendente produce molte opere interessanti.
In particolare, credo che i film documentari siano un’occasione di approfondimento pur rinunciando a raccontare storie e il pubblico lo sa e s’interessa, come ho potuto costatare nella distribuzione in sala che ho seguito personalmente del mio primo film. Per Gesù è morto per i peccati degli altri, ho impiegato cinque anni di lavoro tra sviluppo, riprese, postproduzione, dedicando molto tempo alla ricerca dei fondi per realizzarlo.
Un film è difficile per varie ragioni: difficile per me innanzitutto perché non sono riuscita a trovare fondi (non ho vinto nessun bando per la produzione) ed ho dovuto girare in autoproduzione, difficile perché un film documentario dedicato a realtà emarginate, socialmente e politicamente, forse può permetterselo un regista affermato; contemporaneamente difficile da distribuire per le stesse ragioni di cui sopra. Ho dovuto montare un rough-cut per poter trovare una produzione, poi il “film difficile” è stato anche distribuito da Berta Film in Tv (Cielo/Sky), dvd (CG Home Video), vod (Google Play, Chili,e iTunes) e a livello internazionale. Le sale cinema invece le abbiamo curate direttamente in modo indipendente io, Josella Porto e Gabriella Manfrè della Invisibile Film, con un ottimo riscontro di pubblico e un passaparola che ci vede ancora in giro.
Con questa formula abbiamo girato le sale cinematografiche italiane che sostengono film indipendenti e trovano o creano occasioni per poter far circolare film che non hanno grosse distribuzioni. Il film è stato inserito dalla FICE (federazione italiana cinema d’essai) nella programmazione di “Racconti italiani”, i documentari al cinema ma non necessariamente le sale FICE proiettano i film del pacchetto e a volte nemmeno conoscono l’esistenza di questo pacchetto.
La riforma del cinema
Spero che la tanto attesa riforma del cinema serva anche al cinema indipendente e alle case di produzione medie o piccole. La distribuzione è l’anello finale del processo della realizzazione di un film, non ho capito se il ddl tratti anche di questo. Purtroppo circolano molti brutti film, probabilmente costosi, ma non è soltanto il budget che conta. Credo che gli esercenti dovrebbero lavorare di più per coltivare il proprio pubblico. A Milano ad esempio il cinema Beltrade ha tenuto il mio film per un mese intero arrivando a circa 1300 spettatori: come è possibile? È possibile perché il Cinema Beltrade informa il suo pubblico e propone il cinema indipendente e il documentario.
Fare cinema in Italia
Molte delle persone che ho conosciuto e che volevano fare cinema si sono spostate a Roma con un discreto successo. Io sono nata a Catania, mi sono trasferita a Milano a 18 anni per studiare e poi ci sono rimasta. La mia vita è divisa tra due luoghi, due immaginari, due linguaggi: Catania, da una parte, dove sono nata, dove vado spesso per lavoro e dove immagino i miei prossimi progetti cinematografici; Milano, dall’altra, città in cui vivo da molti anni, luogo della mia formazione, delle prime esperienze lavorative ma anche città dove ho gli affetti più cari che sono i miei due figli e mio marito. Ultimamente c’è anche Palermo dove ho una cattedra come supplente annuale all’Accademia di belle arti di Palermo. Mi sposto continuamente quindi tra la Sicilia e Milano, a settimane alterne, tutto l’anno, viaggiare mi consente di leggere molto e di pensare ma è anche molto faticoso.
Formazione
La mia formazione è duplice. Mi sono laureata in Filosofia a Milano negli anni Novanta con una specializzazione in comunicazioni sociali che mi ha dato un’ottima formazione teorica in storia e critica del cinema, del teatro e dello spettacolo, e in semiotica. Nello stesso periodo ho comprato una telecamera perché volevo fare pratica e da autodidatta ho partecipato con alcuni cortometraggi a festival nazionali (Bellaria, Torino, Roma). Poco dopo sono entrata alla Scuola Civica di Milano, allora si chiamava CFP per le tecniche cinetelevisive: tre anni di cui uno propedeutico, corso per assistente alla regia, serale, piccola classe. Bella esperienza. Si girava e montava in pellicola e in Beta.
Nei primi anni 2000 ho imparato da autodidatta a montare usando il computer. Ho girato diversi cortometraggi e poi ho lavorato come regista in campo commerciale (videoclip e istituzionali per la moda). Dalla fine degli anni Novanta tengo laboratori sul linguaggio audiovisivo e dal 2005 insegno nelle Accademie di Belle Arti Italiane (Palermo, Milano/Brera, Catania) Digital Video, una materia teorico-pratica in cui l’apprendimento del linguaggio audiovisivo avviene attraverso la pratica in prima persona degli studenti. Negli ultimi anni i miei corsi sono incentrati sul documentario.
Sia come regista che come docente mi interessa la documentazione della realtà e in particolare di quelle zone inespresse o male espresse dai media convenzionali che tendono alla semplificazione delle contraddizioni, misconoscendo l’inseparabilità tra pragma ed enigma (Pasolini). Cosa secondo me si dovrebbe insegnare in una scuola di cinema o in ogni corso legato all’audiovisivo me lo chiedo ogni anno quanto inizio i laboratori. Nel tempo la tecnologia ha reso disponibili tutti i mezzi tecnologici per la realizzazione di un lavoro cinematografico o video ma spesso resta carente la conoscenza del linguaggio audiovisivo che invece deve crescere insieme e attraverso la realizzazione di video via via più complessi. Ma se da una parte il linguaggio s’impara girando, dall’altra la storia del cinema fornisce esempi straordinari che andrebbero non solo visti ma analizzati. I ragazzi oggi vedono molte serie e spesso faticano ad avvicinarsi ai capolavori del passato dai quali invece imparerebbero molto. Non basta consegnare una lista di film raccomandandone la visione, credo si debba non solo suggerire la visione ma piuttosto accompagnarla.
Di solito analizzo in classe i primi venti minuti dei film che consiglio e spesso gli studenti si trasformano in “cinefili” e abbandonano qualche serie di troppo. Credo inoltre che in questo campo chi insegna dovrebbe imbastire il corso di anno in anno in modo diverso per far crescere il modulo in relazione alle competenze dell’utenza che ha davanti che è portatrice di attitudini in campo video in continua trasformazione.
Ecco gli studenti che incontro da circa tre anni: tutti possiedono un mezzo di ripresa e usano almeno un software di editing digitale, inoltre dedicano molto tempo alla comunicazione sui social, quindi in qualche modo hanno un “pubblico”. Cosa si può ricavare da ciò? Credo che questa utenza sia pronta per fare un salto nel percorso di apprendimento andando oltre la realizzazione del video di fine corso. Intendo dire che l’uso della rete, cui gli studenti dedicano molto tempo in modo ludico, è un’opportunità da sfruttare nella formazione di chi studia per lavorare nel campo dell’audiovisivo. Mi riferisco al fatto che attraverso i corsi si possono già sperimentare forme di distribuzione online, in cui è importante curare la costruzione di un’audience e le strategie per accrescerla attraverso operazioni paratestuali simili a ciò che fa di solito un ufficio stampa.
Un esempio della didattica di cui parlo, efficace per gli studenti di cinema e audiovisivo in genere, lo sto sperimentando dallo scorso anno proprio a Catania. Ho ideato e curo una web serie documentaristica, San Berillo Web Serie Doc, realizzata all’interno di un laboratorio di video documentazione, che tengo nel quartiere San Berillo di Catania, per il progetto di rigenerazione urbana Trame di quartiere. Il luogo è lo stesso in cui ho girato il mio film. Si tratta di un laboratorio teorico pratico di video documentazione ma per la prima volta la didattica ha come obiettivo il lancio in rete di 10 episodi da 12 minuti frutto dell’indagine documentaristica svolta. Qui l’aspetto pratico della realizzazione di un video ha come scopo la comunicazione all’esterno del lavoro svolto, e ciò comporta anche la creazione di un interesse e la costruzione di un’audience. Nel condurre questo laboratorio finalizzato alla realizzazione della web serie documentaristica metto in pratica un “metodo” che definirei sperimentale perché nasce dall’esperienza maturata in più di vent’anni di laboratori e in cui coniugo la mia formazione teorica e umanistica con l’esperienza nel campo della regia. In sintesi, fornisco le competenze teoriche e tecniche relative alla video documentazione sollecitando l’intraprendenza, l’esercizio del dubbio, la messa tra parentesi dei pre-giudizi e il fare arte come esperienza di verità che modifica il soggetto. L’obiettivo è una ricerca volta alle cose stesse in cui i partecipanti sono coinvolti in prima persona in un percorso di conoscenza finalizzato anche alla comunicazione a un pubblico reale.