Raffaella Lamberti e Angela Balzano conversano intorno a Fare e disfare il genere di Judith Butler, appena uscito per Mimesis, a cura di Federico Zappino.
Angela Balzano: Fare e disfare il genere è un libro chiave per entrare nel vivo del pensiero di Judith Butler. Qui lei discute di numerose “questioni di genere”: lo fa situandosi a cavallo tra mondi diversi e generazioni diverse, e mettendo al centro l’idea, ma anche l’attività, del creare e del decostruire le soggettività. Per leggere questo libro ho sentito dunque l’esigenza di avviare un confronto: pensare la complessità che Fare e disfare il genere ci consegna richiede una pluralità di punti di vista. Non solo: Butler stessa ci insegna che se c’è qualcosa d’interessante nella soggettività è la sua permanente apertura all’alterità – una apertura che ci definisce e ci spossessa al contempo. Ho deciso quindi di ragionare, a partire da questo libro, con colei che per prima mi ha mostrato che il femminismo non ha mai avuto un unico volto e un’unica voce: Raffaella Lamberti. Gli undici saggi raccolti da Butler nel volume sollevano problematiche su cui entrambe ci arrovelliamo da tempo, pur partendo da vissuti ed esperienze molto diverse, essendo nata nel 1984 io, e nel 1938 lei. Da quest’angolazione il libro di Butler assume pertanto un doppio pregio: ci invita a fare e disfare i generi, ma anche le generazioni. Pensare e vivere in modo diverso e più sostenibile, anche collettivamente, generi, sessi, sessualità e soggettività è una sfida che riguarda tutte, per cui urge trovare terreni d’incontro e tessere nuove reti affettivo-politiche. Senza evitare i disaccordi o i punti di non ritorno, occorre valutare quant’è stato fatto, e quanto c’è ancora da fare. Parafrasando Butler, le storie del femminismo «non appartengono al passato». Questa conversazione assume, infatti, pienamente la prospettiva aperta da questo libro: le storie del femminismo «continuano ad accadere, simultaneamente, e si accavallano proprio mentre cerchiamo di catturarle in una narrazione comprensiva» (p. 35).
Il titolo scelto per la riedizione del testo, non più La disfatta del genere [pubblicato nel 2006, dalla casa editrice Meltemi, ndr], ma Fare e disfare il genere, ci pare andare in questa stessa direzione e rendere meglio giustizia alle intenzioni/riflessioni di Judith Butler. Nondimeno, scegliere di tenere la stessa prefazione di allora di Olivia Guaraldo (La disfatta del gender e la questione dell’umano), che diventa a questo punto a propria volta testo e che apre alla nuova traduzione di Federico Zappino e alla sua nota a margine (Il genere, luogo precario), vuol dire adottare un approccio transgenerazionale non oppositivo, ma cooperativo. E questo è tanto più importante e proficuo, se si considera che in questa parte di mondo, l’occidente del capitalismo avanzato, sono proprio le differenze a funzionare come dispositivi di segmentazione, d’inclusione/esclusione. Oggi, quello che Federico Zappino chiama «biocapitalismo cognitivo e relazionale» (p. 364), come fanno peraltro Andrea Fumagalli e Cristina Morini, opera tatticamente tagliando e cucendo proprio le nostre differenze in precisi meccanismi di eteronormazione e controllo: per questo Butler sostiene che non possiamo limitarci a rappresentare l’ennesima identità sessuale consumabile, perimetrabile e facile da esporre in vetrina (o sullo schermo). Il passo che ci esorta a fare non è facile, ma è impellente: riconoscere che non possiamo liquidare intere questioni irrisolte auto-definendoci come “post”, ma cominciare a sperimentare cosa avviene negli spazi intermedi, dove le differenze s’incontrano. Emblematicamente, Butler scrive: «Il movimento trans e il movimento intersessuale a mio avviso non sono postfemministi. Entrambi, al contrario, trovano nel femminismo importanti risorse concettuali e politiche, e il femminismo rappresenta per loro una continua sfida, oltre che un alleato» (p. 41).
Come Raffaella Lamberti, anch’io considero quest’affermazione di Butler veritiera e attuale. In primo luogo perché c’è ancora bisogno, e desiderio, di lottare per l’autodeterminazione dei corpi e delle menti. In secondo luogo perché, come mirabilmente Butler argomenta sulla scia di Foucault e Deleuze, la questione della soggettività è la questione del potere. Quando si parla di soggettività le differenze diventano il primo campo da esplorare. Oltre Butler, tante pratiche e teorie femministe hanno insistito sul nodo delle differenze. Viene in mente Rosi Braidotti, con la quale da sempre Butler intrattiene uno scambio virtuoso, in cui i limiti delle rispettive posizioni sono esaltati e superati nella prospettiva aperta dall’altra da sé, come si evince dal saggio contenuto nel libro dal titolo Fine della differenza sessuale? (cap. IX).
Riprendendo quest’attitudine all’ibridazione di prassi e pensieri, partiamo dunque col mettere a fuoco il senso del libro stesso. Butler afferma che i saggi raccolti in Fare e disfare il genere «rappresentano il tentativo di mettere in relazione le questioni del genere e della sessualità con le questioni più ampie della persistenza e della sopravvivenza» (p. 35). Questo tentativo caratterizza anche l’incontro tra generazioni diverse. Si potrebbe dire che Butler fa centro e descrive un tentativo che è tutt’ora in corso, che nella relazione tra Raffaella e me ha assunto un ruolo cardinale. Lei, di opzione e formazione femminista, ma con frequentazioni diverse dall’esistenzialismo al marxismo e a Hannah Arendt, ha posto al centro delle sue battaglie e delle sue riflessioni i nodi della sopravvivenza, della cura della vita e della morte. Io ho orientato le mie ricerche e le mie lotte attorno alle questioni dell’autodeterminazione dei corpi e dei dispositivi di bio-controllo della riproduzione. Insieme, oggi, seguiamo la strada che anche Butler, peraltro, ci indica: «agire di concerto per creare schemi interpretativi entro i quali affrontare queste problematiche complesse e urgenti» (p. 48).
Raffaella Lamberti: La relazione tra noi è diventata negli anni un “agire di concerto”, un arendtiano “distinguersi e concertare”, grazie al corso di Etica e Politica negli studi di genere, che presiedo da dieci anni a nome dell’Ass. Orlando, con Carla Faralli dell’Università di Bologna, e che curiamo insieme ad altre. Sicuramente è un rapporto che definirei “intergenerazionale”, in cui entrambe ci diamo stimoli a vicenda. In questo caso sei stata tu a invitarmi a rileggere questo libro. E io l’ho apprezzato, perché credo ci sia bisogno di tornare ai temi che Butler solleva. In questo periodo rileggevo la Butler ebrea che guarda alla Palestina, cioè Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo. Con piacere, quindi, ho visto Fare e disfare il genere, che vorrò studiare. D’altra parte lo stesso corso Etica e Politica negli studi di genere quest’anno aveva il titolo di Vita, sopravvivenza, convivenza, e l’avrà anche l’anno prossimo. Questa conversazione è quindi un inizio, avvia un percorso, in cui parole-chiave del pensiero di Butler e scenari che lei descrive dovranno trovare il giusto spazio nelle nostre future collaborazioni.
Ciò detto, mi ritrovo nella citazione che hai fatto: Butler non mette al centro solo il genere, ma la vivibilità stessa della vita è la posta in gioco, come scrive Guaraldo. Il termine inglese “viability” ci racconta già molto: non solo sopravvivenza, ma vivibilità per nuove vite possibili. In questo senso ritrovo un tema che mi è consueto, caro, quello della vita buona, che vuol dire anche morte buona. Non è, tuttavia, l’unico motivo per cui bisogna riprendere in mano questo libro. La scelta del curatore di cambiarne il titolo, dicevo, ne svela l’importanza. Fare e disfare il genere indica il doppio movimento che attraversa il pensiero di Butler. Nell’ottima Prefazione all’edizione del 2006, riproposta anche per questa, Guaraldo legge Butler, per certi versi, come una hegeliana, nel senso di “idealista”. Eppure, dire che occorre “pensare” il corpo non significa negare la sua materialità. In Butler c’è un doppio movimento, una doppia attenzione. Un’attenzione, un movimento è il lavoro fondamentale della riflessione (e dell’idea), su ciò che costituisce le condizioni della leggibilità dell’esperienza e del reale dato, il genere codificato in primo luogo, o da produrre ex novo. La seconda attenzione, movimento, però, non è una sussunzione del concreto nell’idea. È l’analisi di situazioni, di vicende che Butler descrive senza ricondurle ad astrazioni e universalizzazioni. Il movimento di Fare e disfare il genere assomiglia di più al movimento del pendolo, perché dall’analisi dei dispositivi che orientano e producono il genere come “naturalmente” maschile e femminile, torna costantemente all’esperienza e alle vicissitudini del genere senza negarle, ma articolandole in quanto tali “a partire da sé’, dalla propria situazione e teorizzazione. Non credo, tuttavia, rilevante stabilire se c’è idealismo o meno. Quando scrive di genere, Butler riesce a fare i dovuti distinguo perché si rivolge a movimenti politici reali, da quelli femministi a quelli queer/trans/intersex: lei stessa parla della sua appartenenza a «una comunità politica di ordine complesso», secondo una formulazione davvero azzeccata. Vi è un punto in comune tra Butler e Rosi Braidotti: mentre entrambe hanno chiaro che non è dirimente, ma fuorviante, al fine della concepibilità della molteplicità aperta delle espressioni che può assumere la sessualità, individuare/quantificare tutti i possibili generi, entrambe riconoscono la strategicità politica (a volte esistenziale) del “posizionamento”, quello che tu chiami “collocazione”. Nel saggio che hai citato a proposito del confronto transatlantico con Braidotti, Butler scrive che la teoria può nascere solo dal situarsi, sottolineando, però, un pluriposizionamento per nascita, formazione e scelta di entrambe.
A.B.: Su questo punto Butler è molto efficace: le soggettività portatrici di differenze non sono marginali, ma sono spesso marginalizzate. Il desiderio di riscatto di queste soggettività, per nostra fortuna, si esprime in cooperazione/condivisione/cospirazione, e nel farlo, si posiziona. Senza questo desiderio, che Butler chiama anche «desiderio di riconoscimento», probabilmente non ci sarebbero state lotte femministe da trasporre da generazione a generazione, i movimenti lesbo-queer-trans-intersex forse non avrebbero la stessa visibilità, la stessa efficacia. Il desiderio di riconoscimento è in questo senso vettore di potenza politica. In effetti troppo spesso si dice che Butler ritorna a Hegel, eppure lei stessa lo scrive chiaramente: in Fare e disfare il genere Spinoza ha lo stesso peso.
R.L.: Sollevi uno dei passaggi fondamentali messo a tema da Butler: il nodo visibilità/vivibilità. I temi delle vite invisibili, delle soggettività marginalizzate, ma anche delle comunità di nuova espressione dei generi, sono al centro del suo pensiero, perché sono stati e sono tuttora al centro del suo attivismo. Perciò Butler non si definisce “post”, non vuole dirsi né post-femminista né post-moderna: crede che ci sia ancora una lotta in corso tra chi è visibile e degno di vita e di lutto e chi non lo è. La centralità del riconoscimento ha una chiara matrice hegeliana; ma Butler è al tempo stesso la pensatrice che meglio ha ritratto Antigone, “colei che trasgredisce”, mettendo in campo, a partire da Lévinas, la dipendenza dall’Altro, il rapporto ineludibile e radicale tra l’Io e il Tu che comporta violenza e trauma perché ciascuno giunga all’esistenza prima ancora delle imposizioni del binarismo gerarchico maschile/femminile. Insomma, lei non pare riproporre uno schema dialettico, con una possibile sintesi finale. La co-implicazione di polarità diverse, ad esempio quelle di sesso e genere, oggi assai meno distinguibili e distinte in Butler del momento in cui furono scritti i saggi qui in oggetto, viene elaborata e rielaborata con ritorni ripetuti dell’autrice sui propri passi. Né Butler ci consegna una nozione idealista dei “processi” nei quali diveniamo, dei “contesti” e delle collettività in cui pensiamo e agiamo: il contesto è storico e contingente, soprattutto è “socialità”, complessità contraddittoria e conflittuale che si vive “adesso” e “qui”, tra le relazioni vitali postulate dal genere che pre-esiste e i legami affettivi che vogliamo portare a realtà a partire dal suo disfacimento. Il suo modo di pensare la lotta politica è tutto teso a trovare modi grazie ai quali andare oltre la normazione, le «regolamentazioni di genere» (cap. II) radicate nel genere da disfare, sia a livello dei meccanismi e funzionamenti della regolamentazione istituzionale e “simbolica” che eccedono le fattispecie empiriche, sia a livello delle istanze giuridiche empiriche che eccedono la regolamentazione, poiché i due livelli si richiedono e rimandano, né, neppure insieme, esauriscono senso e ambiti della regolamentazione di genere stessa.
Conveniamo tuttavia, con Guaraldo e tra noi, che se molti saggi decifrano il nesso tra il genere e la sua norma eterosessuale, è evidente che hanno svolto al tempo stesso un inedito lavoro di costruzione, un “do”, un fare che ha aperto varchi e offerto direzioni di pensiero e di agency in seguito frequentate da singole e singoli studiose/i e attiviste/i degli universi LGBTQI, e non solo. In tale direzione l’undo, il disfacimento del genere, ha comportato la decostruzione e l’abbattimento di strettoie, ipostasi e universalizzazione che Butler ha colto nelle strutture parentali originarie studiate da Lévi-Strauss e nella fissazione dei ruoli simbolici delle figure parentali primarie definite da Lacan.
A.B.: Butler ci dice che tutto può cambiare, che, dunque, non solo le concettualizzazioni e i ruoli possono mutare, ma anche le soggettività. Trovo molto efficace il superamento dei limiti di Lacan che Butler compie. C’è in Butler una viva reinterpretazione e un’utilissima critica delle teorie e delle prassi psicoanalitiche. In questo credo che abbia saputo riattualizzare le opere di Foucault, Deleuze e Guattari: psichiatria e psicoanalisi come dispositivi di eteronormazione. Allo stesso modo Butler intende la medicina, come un blocco di sapere/potere all’opera sui corpi “anormali”. Pensiamo al caso delle soggettività intersex, ai chirurghi e agli psicoanalisti che si arrogano il diritto di stabilire cos’è giusto per loro. Eppure, gli “anormali” non sono meramente assoggettati. Foucault (in The Subject and the Power, 1982) affermava che il soggetto può costituirsi secondo due possibili alternative: «Ci sono due significati della parola soggetto: soggetto a qualcun altro tramite controllo e dipendenza, soggetto alla sua stessa individualità tramite coscienza o consapevolezza di sé». A zig-zag tra Foucault e Butler, il termine “genere” sembra oscillare tra questi due poli: genere costruito tramite controllo e dipendenza, genere costruito dalla stessa individualità tramite coscienza o consapevolezza di sé.
R.L.: Butler dice esplicitamente che medicina e psicoanalisi sono violente quando sono chiamate a “costruire il genere”. Ma è violenta anche la legge, quando ad esempio impone la sterilizzazione alle persone transessuali. La violenza, peraltro, in lei riguarda questioni alla radice dell’esistere e ambiti più vasti del convivere e non convivere. Infatti, da pensatrice complessa, Butler riflette in altre opere anche sulla violenza delle guerre e delle migrazioni forzate. Il suo valore tu l’hai individuato subito: tenere insieme le questioni della vivibilità e della morte con quelle del genere. In lei la sessuazione è consustanziale alla vita, non si tratta di piani separati, scissi. Genere e vita si co-implicano, con tutte le contraddizioni del caso. Qui risiede anche la sua vicinanza a Luce Irigaray. Butler “vive” il genere proprio come un’oscillazione tra i due poli che caratterizzano la vita tutta, tra il fare e il disfare. Così, finalmente, possiamo scorgere nel suo pensiero un’efficace e credibile apertura. Fare e disfare il genere ci insegna che i deliri di onnipotenza sono inutili: noi non siamo in grado di “auto-generarci”. Noi “ci facciamo” tutti insieme, eppure possiamo auto-determinarci, possiamo disfare ciò in cui non ci riconosciamo. “Scongegnare il genere”, nel senso di far saltare i suoi meccanismi di eteronormazione significa aprire orizzonti di possibilità impensati. Come suggerisci citando lei e citando Foucault: genere non solo come dispositivo di “assoggettamento/soggezione”, ma anche di “soggettivazione”. Su questo occorre continuare a conversare. Così come bisogna continuare a ragionare sui nostri obiettivi politici immediati. Butler pone con forza sul piatto che l’istanza di cambiamento è il cuore del femminismo. Condivido il suo e tuo punto di partenza: cambiare in nome della vita buona per tutte e tutti. Ma è il concetto stesso di vita a essere abusato e frainteso. La tua generazione ne è perfettamente consapevole: è esattamente in nome della “vita” che vengono portati avanti discorsi conservatori e normalizzanti.
A.B.: Butler vede benissimo questa contraddizione, ovvero il fatto che al centro dei meccanismi di accumulazione tardo-capitalisti c’è la vita in sé. Come lei stessa scrive, infatti: «Il punto non è estendere il diritto alla vita a tutti coloro che rivendicano tale diritto in nome di embrioni muti, piuttosto di comprendere come la possibilità della vita di una donna dipenda innanzitutto da un esercizio di autodeterminazione sul proprio corpo e dalle condizioni sociali che rendono possibile tale autodeterminazione» (p. 46). Questa affermazione è di un’attualità sconcertante, soprattutto nel contesto italiano, a riprova del fatto che questa riedizione era davvero necessaria. D’altronde, come scrive Cristina Morini nel recente volume collettaneo Il gesto femminista, «se la riproduzione viene messa a valore… allora è più che mai necessaria una lettura che riporti al centro la vita». Anche per questo vogliamo leggere, e rileggere, Butler.