“Sopravvivere non è sufficiente”: perché leggere la fantascienza
Se réveiller dans un autre temps, c’était naître une seconde fois, adulte.
(dal film La Jetée, di Chris Marker)
Per due mesi, durante la quarantena dovuta al Covid19, la serie dal titolo Sopravvivere non è sufficiente ha ospitato una selezione di brani letterari sulla fine del mondo e la pandemia – πανδήμιος, “che riguarda tutti” – a partire da romanzi e racconti del genere fantascientifico. Il pensiero del presente, in un momento in cui quest’ultimo appariva radicalmente cambiato, esigeva ancora di più (ed esige tuttora) nuove coordinate. Rileggere il genere che ha fatto della “fine del mondo” una delle occasioni più proficue per mettere in discussione l’ordine del mondo stesso, ci è sembrata la scelta più adatta per trovarle. Ne abbiamo parlato anche con Nicoletta Vallorani, autrice storica di fantascienza e prima donna a ricevere il Premio Urania.
Cecilia Cruccolini: Innanzitutto, cosa legge una scrittrice di distopie e fantascienza durante una pandemia globale?
Nicoletta Vallorani: Di tutto, come sempre, ma forse con un po’ di concentrazione in più. Nello specifico, ho finito tutti i libri di Jesmyn Ward ai quali sono riuscita ad accedere, da ultimo Men We Reaped, questa sorta di autobiografia che fa capire molto bene la condizione degli afroamericani nel sud degli Stati Uniti, ancora oggi, dalle parti del delta del Mississippi. Ho riletto Octavia Butler, tutta la Patternist series. E James Tiptree Jr., i racconti (che sono splendidi: lezioni ancora oggi, pur essendo stati scritti alla fine degli anni ’70). Ora sono a metà di Rosewater, di Tade Thompson: bella questa Nigeria fantascientifica, un po’ Yoruba e un po’ britannica. Scrittore promettente.
C.C.: Rivolgersi a questo genere letterario in particolare, potrebbe sembrare controintuitivo in un momento come questo, ma chi lo legge e lo studia sa bene che non è necessariamente così. Abbiamo bisogno di altri modi di stare al mondo in un mondo che cambia, e proprio il testo fantascientifico è in grado di offrirceli: si potrebbe dire che sia stato inventato proprio per questo. Lei cosa ne pensa?
N.V.: Non so se è stato inventato proprio per questo. Per certo può servire a questo, ed è un tipo di uso che discende dalla radice più classica e filosofica della distopia. La fantascienza, formalmente, era nata per un altro scopo. Il monito o lo straniamento cognitivo ne facevano parte solo in misura molto ridotta: la passione vera, il punto d’innesco era una scienza che pareva promettere enormi vantaggi. Poi, è evidente che persino H.G. Wells aveva dubbi su dove potesse condurre uno sviluppo scientifico senza limiti, e persino uno scrittore come lui, tendenzialmente affascinato dalle materie scientifiche, conclude la sua stagione di Scientific Romances, di fatto, con un testo come When the Sleeper Wakes, che in effetti, nel futuro, non vede una comunità libera ed emancipata, ma piuttosto un luogo in cui la dittatura di pochi eletti controlla folle plaudenti e non raziocinanti. Poi però, negli anni ’70 del 900, è arrivata la rivolta dai margini, una turbolenza utile che dagli Stati Uniti e dalle proteste per la guerra in Vietnam si è allargata, aprendo la scena a discorsi politicamente difficili e a una mobilitazione che coinvolgeva parecchie minoranze (etniche, di genere, economiche, queer e via dicendo). E da quel seme è nata la prodigiosa riflessione – e quella sì che ci può aiutare davvero – di Donna Haraway e di altre studiose, per lo più donne su come sopravvivere su un pianeta infetto. È, quella, una proposta nuovissima e interessante e per la prima volta mette seriamente in discussione che comportarsi, da esseri umani, come si fosse gli unici ad aver diritto alla vita può creare alcuni problemi. In primis, ambientali. E questo lo abbiamo sotto gli occhi.
C.C.: Quali autori o autrici, romanzi o racconti considera letture imprescindibili per riappropriarci di questo genere, in questo particolare frangente?
N.V.: Imprescindibili no: non chiedetemi questo. Non sono per niente brava con gli obblighi. E poi nella lettura ci sono differenze, e si rischia di dare il consiglio giusto alla persona sbagliata. Diciamo così: ho cominciato a leggere fantascienza tardi e con molta spocchia intellettuale. Ero costretta, lo dovevo fare, ma l’idea non mi piaceva. Il primo romanzo che mi è stato consigliato è The Left Hand of Darkness, di U. K. Le Guin. Letto quello, ho amato la fantascienza per sempre, pur nella consapevolezza che oltre alle perle, ci sono parecchie cose illeggibili o non condivisibili, per i presupposti ideologici che coltivano. Per parte mia, sono andata avanti con altre donne (Octavia Butler, Joanna Russ, James Tiptree Jr., Vonda McIntyre… fino a Nnedi Okorafor e la prodigiosa N. K. Jemisin), ma anche scrittori (Dick, Ballard, Sturgeon, Vonnegut e altri). Direi che funziona come in tutti gli ambiti. Si comincia un po’ a tentoni e poi si trova quel che si ama. Se però si tende a preferire la narrativa di speculazione sociale, il mio percorso può fornire qualche suggerimento.
C.C.: Quale prima autrice di genere a vincere il National Book Award, Ursula K. Le Guin, riferendosi con arguzia alla faida che vede la letteratura realista in una storica posizione di vantaggio rispetto a quella di genere riusciva finalmente a risolverla – o almeno a dare grande sollievo per un po’ – affermando che gli autori di fantascienza sono “realisti di una realtà più grande”, necessari dunque per elaborare nuovi linguaggi utili a decifrare e combattere nuove ingiustizie, e nuovi nemici. Mai come nel suo lavoro è stato chiaro quanto la fantascienza sappia promuovere in chi legge un pensiero di cambiamento radicale del proprio presente. Penso in particolare al personaggio di Shevek neI reietti dell’altro pianeta, combattuto tra due modelli politici e sociali opposti, il suo pianeta originario Urras e la sua “casa”, l’anarchico Anarres: Shevek è pronto ad accogliere un pensiero complesso e ibrido che tenga insieme le istanze più giuste rintracciabili nei due mondi, non senza fare propria una forma di ambiguità che però diventa strumento di indagine (il sottotitolo originario del libro è infatti An Ambigous Utopia). Come possiamo recuperare la lezione politica del genere? Che strumenti è in grado di darci?
N.V.: Non c’è nulla da recuperare, perché nulla è andato perduto. Nel senso: l’interesse per la lezione politica che poteva e può fornire la narrativa di questo tipo è semplicemente finita sotto l’orizzonte di editori e lettori. L’ordine dei due termini non è casuale: penso che la responsabilità primaria sia degli editori – soprattutto dei grandi editori, che potrebbero permetterselo – per aver lasciato cadere qualunque attività di promozione culturale e per aver trasformato in misura sempre crescente l’editoria in un’impresa pilotata dal marketing. Mi riferisco all’Italia, naturalmente, perché di altri contesti non so. Ma qui davvero ci sono fenomeni inspiegabili (o, per meglio dire, spiegabilissimi solo se si considera, nell’oggetto libro, solo il bene materiale che esso può produrre dal punto di vista dell’editore). Però non è che le autrici e gli autori interessati a un mandato più politico, nel senso etimologico del termine, abbiano smesso di scrivere. Semmai, hanno avuto una quantità inaudita di problemi a pubblicare. E quando pubblicati, non hanno avuto recensioni. Però guardi, c’è una cosa da precisare: chi scrive per passione e talento, continua a farlo. Soffrendo terribilmente per il fatto di essere ignorato, ma è proprio difficile che smetta. E personalmente credo che siano, queste, voci da ascoltare.
C.C.: Lei è stata la prima donna a ricevere il Premio Urania e con un romanzo ambientato in Italia. Era il 1993. Da allora come le sembra cambiato – se è cambiato – il panorama della ricezione del genere, e soprattutto quello scritto da donne?
N.V.: Mi pare che la ricezione non sia cambiata tantissimo. Nel senso: quel che è successo è che la fantascienza non etichettata come tale (per esempio, Anna, di Ammanniti) o di autori stranieri (Annihilation, di Jeff VanderMeer) è arrivata senza problemi in collane einaudiane, per esempio, senza che nessuno facesse una piega, mentre allo stesso tempo il manoscritto di una distopia etichettata come tale e scritta da una autrice di media fama venisse mandato indietro dai medesimi editori, senza essere letto, perché “Non siamo interessati a questo genere di narrativa”. Capisco il problema di mercato, ma che sia dichiarato in modo esplicito, almeno, così da lì ripartiamo. Non facciamo le persone di cultura quando siamo ostaggio dell’ufficio marketing. Da questo punto di vista, donne e uomini credo abbiano subito la stessa sorte, però non saprei: fino a tempi recenti, mi sono mossa in altri territori (quelli del poliziesco) e ho perso continuità. Però, ecco, fino allo scorso anno (quando ha vinto Francesca Cavallero, con Le ombre di Morjegrad), ero ancora l’unica donna ad aver mai vinto il Premio Urania. Direi che la chance di cambiamento di allora è stata persa. Vediamo ora.
C.C.: Come sta la fantascienza in Italia? E come sta la fantascienza scritta da donne in Italia?
N.V.: Ci sono tantissime autrici, molte delle quali superbamente brave. E sono giovani. E io sono una specie di decana. È una bella sensazione. Se restiamo solidali come siamo ora, ne verrà fuori qualcosa di buono.
C.C.: Saprebbe indicarci nel panorama italiano qualche lacuna che dovremmo recuperare, altre autrici poco lette o poco pubblicate?
N.V.: Sono poco reperibili tutte le scrittrici americane di fs degli anni ’70. So che alcuni progetti editoriali di ritraduzione e recupero sono in corso. Ma forse si potrebbe potenziare questo patrimonio. E manca completamente la fantascienza africana, che ha dentro anche nomi di donne.
C.C.: Il suo ultimo romanzo, Avrai i miei occhi (edito da Zona42) è stato pubblicato a gennaio, poco prima dell’esplosione del contagio e una protagonista indiscussa del libro è Milano, una città deserta, la stessa che in pochi mesi voi residenti avete imparato a conoscere. Che effetto le ha fatto, da cittadina milanese e da autrice, questa transizione vertiginosa dal romanzo al reale?
N.V.: Non credo di aver reagito diversamente dagli altri milanesi, quando, uscendo la mattina col cane e con la mascherina, a pochi giorni dalla chiusura totale, mi si è presentata una via di solito trafficata e in quel momento totalmente silenziosa e deserta. Non ho pensato a quel che avevo scritto, e non mi sono stupita. Per qualche strana alchimia, in realtà non è la prima volta che mi capita di intercettare una possibilità finzionale che poi si fa reale. Diciamo questo: mi ha consolato la rinascita della natura, che non è un aspetto previsto nel mio romanzo. L’aria respirabile. Il cielo cobalto. Speriamo che ora il ritorno affannoso a quel che eravamo non cancelli questo non trascurabile vantaggio.
C.C.: Sempre nel suo romanzo, un’epigrafe dedicata alla città inaugura il libro. Sin dalle origini, utopia e distopia hanno avuto un legame speciale con la città e il discorso urbano. Cosa è rimasto oggi del discorso utopico (e distopico) sulla città? Cosa trarne per immaginare un nuovo vivere urbano?
N.V.: È rimasta una cura architettonica intermittente per un principio fondativo: le città sono fatte per essere abitate, e non solo da umani. Una città deserta, costrittiva, frenetica, senza spazi verdi, senza dimensioni di incontro (ed è triste vedere come tutto questo coincida con le caratteristiche della città che amo, Milano) nega le caratteristiche stesse della polis. Non è quello che dovrebbe essere. Credo che di questa riflessioni ci siano ancora tracce importanti, nell’urbanistica come nella narrativa.
C.C.: Le condizioni di vita che fino a qualche mese fa abbiamo dato per scontato, stanno attraversando una profonda trasformazione. Abbiamo compreso che dovremo reinventarci, soprattutto come comunità, ma non sarà facile né immediato. Le distopie hanno il compito di avvisarci che, a partire da premesse non troppo distanti dal nostro mondo, le cose potrebbero andare male: come possiamo recuperare oggi un pensiero utopico quando uno slogan come “andrà tutto bene” è insufficiente a rassicurarci di fronte a nuove e più spietate disuguaglianze, quali l’accesso ai dispositivi di protezione e alle cure, o ai femminicidi, aumentati durante il lockdown, tema che tra l’altro lei affronta nel suo ultimo romanzo. Come rieducarci alla speranza senza rischiare di perdere lungo la strada questioni sociali cruciali?
N.V.: Penso che siamo creature raziocinanti e sensibili che si studiano tutte le possibili strategie per dimenticare di esserlo. L’inizio del lockdown ha risvegliato una solidarietà inconsueta e innescato grandi progetti di cambiamento. Ero molto speranzosa, lo confesso. E in realtà credo ancora che una possibilità la abbiamo. Però devo ammettere che la pervicacia con la quale si sta tornando a modelli di comportamento deteriori mi sta facendo venire qualche dubbio. Buttarsi a capofitto nella vita di prima, consolandosi con un aperitivo rubato ai consigli di distanziamento ma per il resto conservando il medesimo atteggiamento incurante di persone e ambiente che ci ha portato a tutto questo, non è il modo migliore per prepararsi al cambiamento, no? E non aiuta il fatto che la cultura – scuole comprese – sia cancellata dagli interessi primari: continuiamo a non renderci conto del fatto che ragazzi ignoranti e inconsapevoli diventano adulti ingovernabili e buzzurri e poi governanti rissosi e incompetenti. E tutto questo è molto pericoloso. Ci vuole il tempo per fare le cose: educare le persone non è solo una faccenda di legge, ma di formazione. La violenza contro le donne è un po’ un problema analogo. Certamente silenziato durante il lockdown (e non voglio pensare a che cosa possa essere accadute alle donne “a rischio” di violenza in una situazione di clausura domestica), il femminicidio è un problema che trasciniamo e sul quale, secondo me, spendiamo poche risorse, di cultura e di denaro. Un uomo che picchia sistematicamente una donna, o che lo fa episodicamente, è, oltre a tutto il resto, anche persona non in grado di articolare un pensiero consapevole su che cosa voglia dire stare al mondo, in compagnia di altri esseri, che non si possono violare a piacimento in preda a raptus di gelosia. Questa cosa si può vietare e può essere soggetta a sanzione giuridica (e questo va bene, ci mancherebbe), ma con la costrizione non si risolve il problema. Lavorando su una cultura del rispetto e della condivisione, in questo come in altri ambiti, sì. Che poi è proprio per promuovere questa consapevolezza che ho scritto Avrai i miei occhi.
Il titolo della serie, Sopravvivere non è sufficiente, è stato ispirato da Stazione Undici di Emily St. John Mandel: la frase è una citazione da Star Trek e campeggia sui carri dell’Orchestra Sinfonica Itinerante, un gruppo di artisti nomadi che nel romanzo allieta i superstiti di una pandemia globale mettendo in scena le opere di Shakespeare. Tra le opere preferite del gruppo c’è Sogno di una notte di mezza estate, l’opera con la quale Shakespeare inaugurò nel 1594 una nuova stagione teatrale dopo la chiusura dei teatri per la peste del 1592.
Gli autori e le autrici delle dieci puntate della serie: la prima con Mary Shelley, Guido Morselli e Emily St. John Mandel; la seconda, con Camille Flammarion, Joanna Russ e Jack London; la terza con Kurt Vonnegut, Colson Whitehead e Naomi Alderman; la quarta con Matthew P. Shiel e H.G.Wells; la quinta con Margaret Atwood; la sesta con Pat Murphy e Octavia E. Butler; la settima con Fredrich Brown, Fritz Leiber e Italo Calvino; l’ottava con Richard Matheson e Howard Fast; la nona con J.G. Ballard e Phyllis Dorothy James; la decima con Otavia E. Butler, Ursula K. Le Guin, Philip K. Dick.