Fare antropologia: etnografia di un monastero zen

Il racconto di un’etnografia presso un monastero zen.

In memoria del professor Ugo Fabietti, recentemente scomparso

Da qualche ora sono arrivato in monastero: oggi inizia la parte etnografica del mio progetto di dottorato. Una monaca zen con sguardo interrogativo mi chiede chi io sia. Rispondo che sono un dottorando di antropologia, venuto per fare “ricerca di campo”. Sollecita e gentile, mi domanda in che cosa consista “praticamente” e se ho dei “bisogni particolari”. La schiettezza della domanda mi spiazza e m’invita ad una riflessione.

Quali sono le attività concrete, registrabili dall’occhio di un osservatore esterno, in cui l’antropologo (o aspirante tale) si applica quotidianamente? Come trascorre la giornata? Questo estraneo autoinvitatosi ha dei “bisogni particolari”? Si confonde con i suoi soggetti di ricerca o segnala esplicitamente la sua presenza? Che cosa implica “osservare partecipando”? Insomma, cosa fa l’antropologo?

In termini generali, si tratta di instaurare una relazione – a volte ex novo, altre volte risignificandone una preesistente. Questa intenzione – innocua soltanto in apparenza – comporta una serie di problemi di ordine pratico a cui gli studenti e i giovani ricercatori non riescono a dare risposta immediata.

È importante sottolineare che, in antropologia, “Fare Ricerca” è da intendersi sostanzialmente come “Fare Campo”. Non parliamo di una ricerca in laboratorio o in archivio, ma di una ricerca di carattere etnografico (da ethnos (έθνος) = popolo; graphéin (γράφειν) = scrivere, descrivere)1 quindi in rapporto a persone, genti, comunità, popolazioni, e via dicendo. Una buona parte dei problemi che il ricercatore incontra si riferisce all’instaurazione e all’elaborazione di una rete di rapporti il cui equilibrio dovrà essere curato per tutta la durata della ricerca, e oltre. La gestione di dinamiche relazionali sul campo (all’interno della comunità di riferimento), tra il campo (tra la detta comunità e quella accademica, cui stiamo a rappresentanza e – a volte – ci stipendia) e oltre il campo (con le figure istituzionali che ci garantiscono un finanziamento o una legittimazione ulteriore) richiede un sapere pratico che, spesso, sembra mancare. Famelici di istruzioni e algoritmi, norme e procedure, i giovani ricercatori sentono la mancanza di un indirizzo preciso che sappia guidarli attraverso le diverse fasi della ricerca.

Attualmente sono iscritto al Corso di Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS) dell’Università di Milano-Bicocca. Sto svolgendo una ricerca etnografica presso un tempio e monastero di tradizione buddhista zen nell’Italia settentrionale. Quando ho dovuto declinare, secondo la mia formazione, il tema principale della rubrica (“Fare Ricerca”) ho preferito la formula “Fare antropologia” a “Fare etnografia”. Quest’ultima sarebbe stata la soluzione più immediata, giacché l’etnografia può intendersi sia come ricerca sul campo che come produzione scritta. Tuttavia, parlare di “Fare antropologia” mette in luce l’aspetto artigianale, negoziato, manuale, finanche compromesso, della speculazione teorica maggiore che starebbe per “antropologia”. Per dirla con Francesco Remotti, aiuta a capire «la strana connessione tra l’arrabattarsi penoso e spesso inconcludente in mezzo al fango (reale e metaforico) e il nome della disciplina (antropologia culturale) che dovrebbe legittimare e dare senso al nostro lavoro».2 Secondariamente, la formula fa esplicitamente eco al titolo di un celebre manuale scritto da Mariano Pavanello (Zanichelli, 2010)3 la cui lettura è risultata negli anni molto utile a chi scrive nell’orientarsi nel vasto panorama della metodologia etnografica.

Ma, vien da chiedersi, esistono dei metodi? Quali sono? Come e quando utilizzarli? Fino a che punto possiamo adattarli al nostro contesto di ricerca? Potranno mai dei metodi preconfezionati, delle linee guida già approntate – per quanto sagge, per quanto “qualitative” – aiutarci a cogliere quelle sottili suggestioni che prendono corpo nella banalità della vita quotidiana degli altri? La mia risposta è: “Sì”. Se da una parte è vero che “il lavoro di campo è la vita stessa”, come una volta ebbe a dirmi un noto semiologo italiano, dall’altra è evidente per chiunque abbia studiato antropologia culturale come disciplina accademica che il lavoro dell’etnografo non si basa sull’improvvisazione individuale o sull’aleatorietà del caso. La metodologia etnografica non solo è divenuta la peculiarità che distingue l’antropologia dalle altre discipline sorelle (con tutti i problemi che ciò può comportare) 4 ma costituisce un vero e proprio rito di passaggio per l’antropologo in formazione che deve affrontare per la prima volta l’esperienza etnografica dello spaesamento.5 Andare sul campo è divenuto un sine qua non, senza cui non si viene considerati pienamente antropologi. A partire dall’esperienza trobriandese di Bronisław Malinowski, l’«osservazione partecipante» è generalmente considerata la porta d’accesso al mondo degli altri, sebbene sussistano diverse scuole di pensiero al riguardo.6 

Ma come si svolge l’”osservazione partecipante”? Nelle parole di Ugo Fabietti: «vivendo in mezzo alle persone, mangiando il loro stesso cibo, dormendo nelle loro case, partecipando ai loro lavori e alle loro attività rituali, ludiche o a volte anche religiose». 7 Eppure, non è una contraddizione in termini pensare di osservare e partecipare allo stesso tempo, come se i due sé che compiono queste operazioni distinte possano sovrapporsi e attivarsi contemporaneamente? E questa osservazione che sfocia nella partecipazione non sembra rimandare ad un’arte arrangiata piuttosto che ad una precisa metodologia scientifica adatta alla rilevazione di “dati” utili per una successiva teorizzazione? Non dà ragione all’opinione del sunnominato semiologo che non vedeva distinzione tra “vita” e “campo”?

Da un certo punto di vista, le obiezioni colgono nel segno. La partecipazione ad un rito religioso, ad esempio, implica un livello di coinvolgimento, anche solo fisico, che non permette certo un’adeguata “osservazione” oggettivante. Ugualmente, le giornate passate sul “campo” non sono altro che il più o meno concitato dipanarsi della vita quotidiana delle persone. Al di là delle diverse tecniche e metodi che possono applicarsi (fare interviste formali e informali, consultare fonti orali e scritte, stabilire rapporti duraturi con particolari “informatori”, sottoporre questionari, consultare statistiche, registrare materiale audio-visivo, ecc.), l’idea del lavoro di campo inteso come raffinato e profondo hanging out 8 non smette di essere valido.

Tutto ciò testimonia il carattere paradossale in cui viene a trovarsi l’antropologo, colui che vive con gli altri ma non è come gli altri (ammesso che l’altro sia fino in fondo come se stesso…). Inutile, dunque, rimarcare come la paradossalità dell’etnografia sia piombata addosso anche a chi scrive all’ora di accedere al suo campo di ricerca, un monastero buddhista zen.

Un monastero zen è un luogo di non facile accesso. Non mi riferisco all’ospitalità e alla disponibilità dei monaci, i quali mi hanno accolto con molto favore, ben conoscendo la figura dell’antropologo. Piuttosto, mi riferisco alla qualità coercitiva dello spazio monastico. Non si può entrare in monastero senza prima scalzarsi; né è possibile muoversi con personale arbitrio, incurante delle norme che regolano i movimenti e lo spazio. Nessuna bolla dell’“osservatore” sussiste a garanzia, se non del proprio distacco accademico, del proprio corpo immerso, e, in quel tempo e in quello spazio, affidato all’altro. Dunque, in monastero chi nutre fisime da osservatore si troverà, suo buon o mal grado, a partecipare. Ma l’osservazione non implica già una partecipazione?

Poiché la mia ricerca nasce come indagine sul corpo, col corpo (elevato a strumento metodologico), essa si sviluppa attraverso la partecipazione alla vita quotidiana del monastero. Si tratta di un tempo ritualmente scandito e fortemente ritmato che non lascia spazio alla persona, al suo tempo privato. Anche prendere le necessarie note di campo diventa arduo per mancanza di tempo, di spazio e – una volta possibile – di voglia e di forza. Sebbene la vita quotidiana non consista che in mangiare, dormire, lavorare e partecipare alle attività rituali – come scritto da Fabietti – il campo si presenta totalizzante, dove l’esclusione dal mondo esterno è totale.

L’intensità e la lunghezza dei giorni (la sveglia è puntata alle quattro del mattino), il muoversi insieme, come un unico corpo appunto, lo sforzo a cui il ricercatore è chiamato ad unirsi tesse quei forti legami emozionali che, come molti studiosi hanno mostrato, incidono sulla ricerca e sulla persona stessa dell’antropologo che si espone in maniera diretta ad un modo di vita altro.

Insomma, il rapido esempio della mia ricerca mostra come l’indagine etnografica proceda secondo dei tempi lenti, per un contesto sociale improntato alla produttività e alla resa immediata. Il ricercatore espone se stesso per cogliere una forma di vita che, per il senso comune, rappresenta uno scarto, un intoppo. Allo stesso tempo, si impegna nel garantire uno standard di oggettività e di verificabilità attraverso il distacco metodologico e il riferimento ad un linguaggio condiviso con la comunità accademica. L’incertezza di questo mestiere risiede forse nell’impossibile riconducibilità dell’idea di “mestiere” alla sua pratica concreta e, al tempo stesso, al giusto sforzo di rivendicare riconoscimento sociale.

 

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Note

  1. Ugo Fabietti, Roberto Malighetti, Vincenzo Matera, Dal tribale al globale: introduzione all’antropologia, Bruno Mondadori, Milano 2002, p.45.
  2. Francesco Remotti, Antropologia: un miraggio o un impegno?, in «L’Uomo», 1-2, 2012, p.58
  3. Mariano Pavanello, Fare antropologia: metodi di ricerca etnografica, Zanichelli, Bologna 2010.
  4. Francesco Remotti, Per un’antropologia inattuale, Elèuthera, Milano 2014.
  5. Stefano Allovio, Riti di iniziazione. Antropologi, stoici e finti immortali, Raffello Cortina, Milano 2015; U. Fabietti, R. Malighetti, V. Matera, op. cit., cap. 1.
  6. Roberto Malighetti, Angela Molinari, Il metodo e l’antropologia. Il contributo di una scienza inquieta, Raffaello Cortina, Milano 2016, cap.3.
  7. Ugo Fabietti, Elementi di antropologia culturale, Mondadori, Milano 2015, p.36.
  8. Clifford Geertz, Deep hanging out, «New York Review of Books», 45 (16), 1998, pp.69–72.
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