Estetica e politica della vita povera

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul numero 19 di Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni, dedicato al concetto di “credito”.

I conflitti bellici, le catastrofi ambientali e le situazioni di estrema povertà nelle quali si trova a vivere una parte del pianeta hanno suscitato, nel corso dei secoli, il costante interesse da parte degli storici e dei romanzieri, dei giornalisti e dei cineasti e, più in generale, di tutti i soggetti investiti e auto-investiti della funzione etica, sociale e politica di testimone[1]. Quanto di traumatico interviene ad alterare un equilibrio, quanto di sconvolgente colpisce una comunità o una parte di essa, è qualcosa che chiede di essere raccontato, messo in immagine.

Una possibile interpretazione teoretica di tale “chiamata” può essere elaborata ricorrendo al concetto di debito di testimonianza, proposto da Paul Ricœur per comprendere il legame etico ed estetico che intercorre tra il soggetto del racconto storico, come di qualsiasi altro genere discorsivo, e l’evento, passato o presente, al quale si lega:

Attraverso il documento e la prova documentaria, lo storico è sottoposto a ciò che un giorno fu. Ha un debito nei confronti del passato, un debito di riconoscenza nei confronti dei morti, che fa di lui un debitore insolvente […]. E la dura legge della creazione, che è quella di “rendere” nel modo più perfetto la visione del mondo che anima la voce narrativa, non simula forse, fino all’indistinzione il debito della storia nei confronti degli uomini del passato, nei confronti dei morti? Debito per debito, chi è più solvente, lo storico o il romanziere?[2].

Com’è stato efficacemente sostenuto nelle più interessanti ricerche riguardanti la funzione delle immagini nel circuito dell’informazione contemporanea, la semplice risposta alla chiamata di testimonianza non costituisce condizione sufficiente ad onorare il debito contratto[3]. Ciò che si domanda al fotografo e al cineasta non è tanto l’attestazione tempestiva di un evento dato in sé, quanto la capacità di elaborare forme della rappresentazione capaci di restituire dignità ai soggetti inquadrati: garantire il rispetto dei loro diritti civili, ma soprattutto salvaguardare lo spazio di azione e autodeterminazione politica delle persone che si trovano minacciate dalla condizione di crisi. Si tratta di una sfida estetica molto complessa – esplicitamente raccolta da un maestro del cinema come Abbas Kiarostami con il suo ABC Africa (2001) –, che ha come conseguenza diretta quella di liberare il discorso testimoniale dalle retoriche mediatiche della “sofferenza a distanza” e dal sistema politico ed economico ad esse connesso, dove le immagini sono prodotte con il fine di trasformarsi in compassione e aiuti umanitari[4].

Già Gilles Deleuze aveva notato come l’immagine – nel suo caso l’immagine in movimento del film di finzione – fosse strettamente legata al problema del credito e del capitale economico: «il denaro è il rovescio di tutte le immagini che il cinema mostra e monta al dritto, cosicché i film sul denaro sono già, benché implicitamente, dei film nel film o sul film»[5]. Il problema diventa dunque particolarmente serio e perde interamente il suo aspetto metaforico se si prendono in considerazione le immagini fotografiche e cinematografiche della comunicazione umanitaria. Non soltanto, infatti, le rappresentazioni elaborate dai reporter costituiscono il medium di qualsiasi campagna di supporto umanitario, ma assumono anche un ruolo fondamentale nell’assegnazione dei ruoli ai diversi attori sociali coinvolti nella gestione della crisi e, spesso, nella riproduzione di questi ruoli. È attraverso la messa in immagine che la vittima è costruita e cristallizzata in quanto tale: relegata ad un ruolo passivo, esautorata dalla facoltà di elaborare autonomamente una risposta politica alla propria condizione e sottoposta all’assistenza di ONG che dispensano servizi di assistenza per conto di quegli stessi stati e di quelle stesse organizzazioni internazionali che, in alcuni casi, hanno costruito i presupposti della crisi o che coltivano interessi economici e politici nel mantenimento e nella gestione della stessa.
Come scrive Giorgio Agamben, inquadrando il problema in termini giuridici e articolando il concetto di “nuda vita” che caratterizza la sua riflessione archeologica sui paradigmi governamentali contemporanei:

La separazione fra umanitario e politico, che stiamo oggi vivendo, è la fase estrema dello scollamento fra i diritti dell’uomo e i diritti del cittadino. Le organizzazioni umanitarie, che si sono oggi affiancate in misura crescente agli organismi sovranazionali, non possono, però, in ultima analisi, che comprendere la vita umana nella figura della nuda vita o della vita sacra e intrattengono perciò stesso loro malgrado una segreta solidarietà con le forze che dovrebbero combattere […]. È sufficiente uno sguardo alle recenti campagne pubblicitarie per raccogliere fondi per i rifugiati del Rwanda per rendersi conto che la vita umana è qui considerata […] esclusivamente in quanto vita sacra, cioè uccidibile e in sacrificabile, e solo come tale fatta oggetto di aiuto e protezione. Gli “occhi imploranti” del bambino rwandese, la cui fotografia si vorrebbe esibire per ottenere denaro, ma che “sta diventando difficile trovare vivo”, sono la cifra più pregnante della nuda vita nel nostro tempo, di cui le organizzazioni umanitarie hanno bisogno in misura esattamente simmetrica al potere statuale. L’umanitario separato dal politico non può che riprodurre l’isolamento della vita sacra su cui si fonda la sovranità e il campo, cioè lo spazio puro dell’eccezione, è il paradigma biopolitico di cui esso non riesce a venire a capo[6].

Tralasciando le molte aperture del discorso di Agamben che meriterebbero uno sviluppo puntuale e dettagliato, si considera qui il ruolo paradossale assunto dall’immagine all’interno del sistema umanitario. Com’è possibile che un fotoreporter, chiamato in Rwanda dal desiderio di rendere giustizia ai “dannati della terra”, si trovi ad assumere, con il proprio lavoro, un ruolo connivente o quantomeno implicato nella meccanica dello sfruttamento? Che relazione si può innescare tra la macchina da presa e la macchina umanitaria?

Se è un’attività sempre più diffusa quella di spingersi in buona fede verso luoghi colpiti da una crisi, seguendo la chiamata alla testimonianza, occorre notare come la configurazione assunta dal campo umanitario contemporaneo implichi insidie sempre più strettamente legate agli spostamenti del testimone.

Al di là delle buone intenzioni, tanto i fotografi quanto i videomaker rischiano infatti di esaurire il proprio ruolo ed elidere completamente il debito etico ed estetico contratto, in quanto produttori di immagini che hanno come unico fine quello di oliare ed alimentare il complesso sistema descritto dal filosofo romano e da altri studiosi.

La crisi e l’immagine della crisi costituiscono dunque un binomio capace di marginalizzare e annichilire gli sguardi votati a onorare il debito di testimonianza. Tuttavia questo binomio costituisce anche un possibile spazio di indagine – da condurre con strumenti di vario genere: con la macchina fotografica, con la cinepresa o con le metodologie della filosofia e delle scienze sociali –, o meglio un prisma dentro il quale riconoscere le configurazioni assunte dalle forme politiche e dai dispositivi del potere contemporaneo.

Come riconoscere allora le implicazioni che legano a doppio filo immagine e umanitarismo e trasformare l’analisi degli apparati di amministrazione delle crisi umanitarie in una riflessione sui regimi estetici connessi? Quali pratiche, quali estetiche, possono eludere le coordinate culturali e politiche dell’umanitarismo per aprire uno spazio di riconoscimento di quelle traiettorie di autodeterminazione che le vittime – al di là della “nuda vita” e del suo “mantenersi in vita” all’interno dei meccanismi di indebitamento economico che costituiscono le fondamenta dell’intervento umanitario contemporaneo – potrebbero intraprendere? Esistono dunque percorsi possibili, strategie alternative o magari opere cinematografiche esemplari alle quali guardare per onorare il debito di testimonianza e comprendere, rovesciare, il sistema del credito economico e morale sul quale si basa l’economia umanitaria?

La riflessività dello sguardo come strumento d’inchiesta e diagnosi

In un campo di rifugiati della Repubblica Democratica del Congo, alcuni operatori dell’IFAD – agenzia delle Nazioni Unite per la crescita del settore agricolo dei paesi in via di sviluppo – si divertono a scattare fotografie durante la consegna di beni di prima di necessità alle popolazioni locali, sotto lo sguardo dei caschi blu. Da un’imbarcazione di pescatori scende un uomo bianco con un grande cappello di paglia. Una guardia lo ferma per un controllo, lui si presenta: Renzo Martens, “giornalista”. La camera a mano segue in un primissimo piano il suo volto, per restituire in controcampo la soggettività di uno sguardo che penetra lo spazio fissando i rifugiati negli occhi. Una volta all’interno del campo profughi, l’inquadratura si abbassa e si pone alle spalle di un fotoreporter impegnato a ritrarre un uomo a petto nudo, immobile, dentro la sua baracca. «Fantastic!», dice il fotografo mentre controlla l’immagine sul display e verifica la sua efficacia, la conformità agli standard. La camera segue ancora il suo movimento, alla ricerca di un nuovo oggetto, e poi ridiscende sull’uomo precedentemente inquadrato e sulla smorfia del suo viso, quasi fosse stanco di interpretare quel ruolo. «Nkómbó nayó?», chiede la voce dell’operatore video. «Richard», con un filo di voce.

Fin dalla prima sequenza di Enjoy Poverty (2008), l’artista e documentarista olandese Renzo Martens sceglie di raccontare il campo di tensioni politiche, economiche e militari, nonché la pratica umanitaria che costituisce la principale forma di governo della fase di ricostruzione post-conflitto congolese, seguendo il lavoro dei reporter impegnati in quell’area: dal momento dello scatto alla vendita. La forza straordinaria che caratterizza l’intero film di Martens consiste nella comprensione del fatto che per condurre un’inchiesta sul funzionamento del sistema umanitario contemporaneo occorre mettere a lavoro la riflessività dello sguardo cinematografico: la sua capacità di intercettare, “ri-mediare”, altri discorsi, e di condurre una diagnosi critica delle retoriche che li rendono credibili, fino ad identificare le logiche strumentali del loro utilizzo[7].

Nella sequenza centrale del film, alcuni reporter sono inquadrati di spalle mentre scattano fotografie, in campo lungo, in un villaggio che reca evidenti i segni del conflitto militare tra il governo centrale e i ribelli. Al passaggio di un battaglione, la macchina da presa si pone sul lato sinistro dei fotografi, in modo da condividere e comprendere il loro punto di osservazione.

«Posso sapere quanto prendi per una foto?», chiede Martens al fotografo italiano di Agence France Presse. «Certo: cinquanta dollari». Attraversando un’area profondamente segnata dal conflitto, alla vista di numerosi cadaveri a terra, il regista inizia a parlare con il gruppo di reporter, chiedendo informazioni sul loro lavoro: «le sole storie che sono valutate interessanti sono quelle che presentano aspetti negativi – spiega un cameraman –, deve esserci un disastro, una crisi umanitaria o gente morta… Ma non dipende da me, è il mercato». Poco dopo, dentro lo spazio buio di una caverna, la camera torna a inquadrare di spalle il fotoreporter italiano, impegnato nella correzione colore con Photoshop, mentre Martens gli chiede informazioni sul diritto di proprietà di quelle immagini. «Sono io il proprietario, posso usarle per un’esposizione o un libro». «E le persone presenti nelle fotografie – insiste il regista –, sono anche loro proprietarie delle foto?». «No, perché io ho fatto le foto. Io sono il fotografo. Sono io ad aver trasformato quella situazione in una fotografia».
Come emerge dalle dichiarazioni dell’italiano che rivendica la proprietà e l’autorialità dello scatto – senza rendersi conto che l’una tende a scalzare l’altra[8] –, e da quelle del cameraman che giustifica la propria impotenza dietro le logiche del mercato, la composizione delle inquadrature trasforma i reporter in personaggi inconsapevoli del film. La logica che orienta il loro sguardo sul Congo è catturata ed esibita in quanto tale da quello cinematografico.

“Bolingo studio”: decostruire le retoriche e le politiche della sofferenza

Durante la visita a un villaggio, Martens incappa in una strana insegna posta su un’abitazione di legno: Bolingo studio. Express tout Parisien. Un gruppo di ragazzi spiega che si tratta del nome della loro società. Effettuano servizi fotografici durante i matrimoni e ogni scatto frutta loro settantacinque centesimi di dollaro.
È soprattutto a partire da quest’incontro che Martens decide di assumere, sulla scena del film, un ruolo didattico nei confronti dei ragazzi congolesi – nient’affatto dissimile, nelle forme esteriori, da quello assunto dagli operatori delle organizzazioni internazionali – per attuare una strategia di rovesciamento del sistema di valori che struttura le regole di produzione e circolazione delle immagini e dell’immaginario umanitario. A chi appartiene la povertà? A chi appartiene l’immagine della povertà? Perché continuare a scattare fotografie alle feste di famiglia se la rappresentazione della sofferenza – della quale il popolo congolese è “proprietario” – frutta dieci volte tanto?

A partire dall’impatto provocatorio di queste domande, si sviluppa la sequenza del film nella quale i giovani fotografi di matrimoni si improvvisano reporter e vanno alla ricerca delle manifestazioni più estreme della sofferenza che sconvolge il loro paese: dalla miseria delle abitazioni alla condizione di fine vita dei bambini malnutriti. Il regista interviene costantemente, suggerendo l’iconografia di riferimento e le scelte compositive più adatte a suscitare una presa morale sui fruitori di quelle immagini e garantire la visibilità alle organizzazioni che operano sul territorio: «se non inserite i loghi dentro l’immagine, non serve a niente», spiega ai ragazzi mentre uno di loro muove un cartoncino con la scritta Unicef come fosse un ciak.

Si tratta di un passaggio del film profondamente cinico. Ben lontana da configurarsi come una reale esperienza di formazione di un’agenzia autoctona, la parodia del fotoreportage nella sequenza della “scuola di fotografia” costituisce la strategia adottata per condurre al punto terminale il processo di decostruzione dell’iconografia della sofferenza dei media internazionali e per mostrare l’inevitabile scacco nel quale ricade qualsiasi tentativo da parte della “vittima” di modificare il proprio statuto.

Alla fine della sequenza, del resto, il rappresentante di Médecins Sans Frontières al quale Martens e i reporter africani proporranno, con un’ingenuità provocatoria, di acquistare le loro foto sosterrà di essere scandalizzato di fronte all’immoralità di chi intende trarre profitto dalla rappresentazione della sofferenza dei suoi pazienti. Nella stessa scena, ammetterà poi di concedere ai reporter occidentali di effettuare fotografie nei suoi ospedali. Quelle stesse foto che saranno utilizzate per reperire i fondi economici e per riaffermare il credito morale che costituisce la condizione fondamentale di esistenza della sua organizzazione.

Onorare il debito, ricostruire uno spazio di autodeterminazione

Le pesanti casse di metallo che per tutta la durata del film vengono trasportate da un villaggio all’altro contengono un messaggio. Nella seconda parte del viaggio, l’artista Renzo Martens scoperchia la cassa ed estrae le singole lettere che compongono l’installazione a neon ENJOY POVERTY. La collega a un generatore di corrente e illumina una festa notturna alla quale prendono parte gli abitanti di un villaggio.

Che cosa significa “godere la povertà”? In che senso e a quale scopo si può asserire qualcosa di simile? Come talvolta avviene nelle arti contemporanee, la natura sintetica del messaggio rischia di assegnare all’intera installazione lo statuto di una semplice provocazione, fine a se stessa; ma lo spettatore è ormai in grado di leggere e comprendere la sfida morale di quel neon – la sua portata etica, civile e politica –, alla luce del processo di investigazione e diagnosi critica del discorso umanitario condotta da Martens attraverso lo sguardo cinematografico.
Che cosa rimane, infatti, della credenza nelle immagini mediatiche provenienti dalle aree povere del mondo una volta ammessa la logica strumentale alla quale alcune agenzie e alcuni reporter uniformano la loro pratica e la loro concezione etica? Cosa rimane del credito morale di cui godono le organizzazioni internazionali una volta che è stato messo in evidenza il loro legame con le società che coltivano interessi economici nel mantenimento e nella gestione della crisi e della povertà? E, dunque, cosa resta della legittimazione dell’imprenditore europeo impegnato nel settore agricolo – mostrato mentre acquista fiero le fotografie dei propri operai, definiti «lavoratori per la pace» – a trarre profitto dalle risorse del Congo?
In nome di tali scacchi, ciò che rimane è soltanto la necessità di invertire lo stato di dipendenza economica e morale nella quale numerosi dei cittadini congolesi intervistati da Martens si trovano imprigionati: se le risorse del territorio sono gestite da parte di società straniere con la partecipazione di imprenditori e intermediari locali, che almeno la povertà sia rivendicata come una “risorsa”, non accontentandosi delle provvigioni umanitarie e non assumendo un atteggiamento di gratitudine verso le organizzazioni internazionali che le erogano, trasformando la povertà in una stigmate.
Valorizzando la differenza del proprio sguardo, facendo avvertire continuamente allo spettatore lo scarto tra la propria ricerca – libera di provocare la morale – e la ricerca – moralizzata in partenza – dei reporter incontrati sul suo cammino, Martens riesce dunque a percorrere in contropelo il flusso delle immagini e ricostruire la filiera dell’umanitarismo, o quantomeno una sua parte.

Certo, per fare ciò – per sostenere sul piano figurativo la tensione superomistica che lo spinge al confronto con i diversi attori sociali e soprattutto con “le vittime” –, la sua postura attoriale e le scelte compositive sembrano trovare un modello e un appoggio nel personaggio di Aguirre, il furore di Dio messo in scena da Werner Herzog nel 1972. Ma il tentativo radicale di una “trasvalutazione dei valori” dell’umanitarismo intrapreso nel film costituisce, in ultima istanza, la modalità specifica attraverso la quale onorare il proprio debito di testimonianza.

Sdebitarsi con la realtà degli eventi significa, nel lavoro del regista olandese, operare propedeuticamente una ri-mediazione critica dei discorsi umanitari e, di conseguenza, mettere in luce che non può esserci funzione testimoniale laddove le immagini di una situazione traumatica finiscono per alimentare e riprodurre le condizioni di partenza dalle quali scaturisce la “chiamata” stessa. Il testimone, nel film di Martens, è colui che produce un’immagine della crisi che non può essere acquistata – e a sua volta “rivenduta” per ottenere credibilità o credito – da nessuno degli attori della filiera umanitaria. È colui che smaschera il sistema di dipendenze politiche, economiche e morali basato sulla continua produzione di immagini della sofferenza, e che cerca di rivendicare l’urgenza di uno spazio di autodeterminazione nel quale le vittime possano maturare un differente statuto.
Credere ad Enjoy Poverty significa seguire il ragionamento di chi è disposto a elaborare qualsiasi provocazione artistica, pur di intraprendere un percorso di liberazione dalle diverse forme di naturalizzazione e sfruttamento della povertà, per arrivare a dischiudere l’orizzonte estetico e politico di una vita attiva.

Note

[1] Tra i numerosi lavori critici sulle genealogie politiche e morali dell’umanitarismo contemporaneo, dei suoi immaginari di riferimento e delle sue modalità operative, si segnalano i lavori di D. Fassin, La raison humanitaire: une histoire morale du temps present, Gallimard, Paris 2010; E. Weizman, Il minore dei mali possibili, tr. it., Nottetempo, Roma 2013. Questi contributi sono particolarmente preziosi ai fini di un ripensamento della traiettoria storica assunta dalla funzione testimoniale nel campo umanitario e delle trasformazioni che la sofisticazione di questo campo ha comportato per il rapporto triadico evento catastrofico/violento – vittima – testimone/testimonianza.

[2] Si accostano qui due passi esemplificativi dell’ampia riflessione sui rapporti tra le diverse forme di configurazione narrativa della testimonianza che il filosofo articola in più paragrafi. Cfr. P. Ricœur, Tempo e racconto: volume 3. Il tempo raccontato, tr. it., Jaca Book, Milano 1988, p. 214 e 294.

[3] Per l’articolazione del problema a partire da un’esplicita ripresa del concetto di “debito” in Ricœur, cfr. P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010. Sulla funzione testimoniale dell’immagine in relazione a eventi traumatici, come per una ripresa della riflessione ricoeuriana, cfr. M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008; C. Demaria, Il trauma, l’archivio e il testimone, Bononia University Press, Bologna, 2012.

[4] Su questo tema, come per la comprensione del sistema di “ruoli” e delle retoriche che strutturano il discorso umanitario, cfr. L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2000.

[5] G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, tr. it., Ubulibri, Milano 1989, p. 92.

[6] G. Agamben, Homo sacer I. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 147-148.

[7] Per la formulazione originaria del concetto di “rimediazione”, perlopiù privo delle potenzialità etiche, estetiche e politiche che in seguito gli sono state attribuite, cfr. J.D. Bolter – R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, tr. it., Guerini, Milano 2003. Espressamente sul lavoro di Martens, come per una riflessione generale sulla capacità del lavoro artistico di rigenerare la funzione testimoniale delle immagini, cfr. A. Cramerotti, Aesthetic Journalism: How to Inform Without Informing, Intellect, Bristol and Chicago 2009; T.J. Demos – H. Van Gelder, In and Out of Brussels: Figuring Postcolonial Africa and Europe in the Films of Herman Asselberghs, Sven Augustijnen, Renzo Martens, and Els Opsomer, Leuven University Press 2012.

[8] Per un’articolazione del rapporto tra autorialità artistica, proprietà delle immagini e restituzione delle stesse allo spazio comune, cfr. G. Didi-Huberman, Rendere un’immagine, in «aut aut», 2010, 348, pp. 6-27.

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