Come poter elaborare un racconto della presa del potere di Silvio Berlusconi e delle sue immagini che non sia legittimante o, in ogni caso, connivente con il sistema rappresentativo che lo identifica in quanto leader acclamato dal popolo?
[in concomitanza con i recenti fatti di cronaca politica e giudiziaria – nel tentativo di leggere in profondità le immagini e le notizie che provengono dal tribunale di Milano – pubblichiamo alcuni passi dedicati al Caimano di Nanni Moretti dal libro di Francesco Zucconi, Sopravvivenza delle immagini nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità, in stampa per Mimesis].
Come poter elaborare un racconto della presa del potere di Silvio Berlusconi e delle sue immagini che non sia legittimante o, in ogni caso, connivente con il sistema rappresentativo che lo identifica in quanto leader acclamato dal popolo?
[…] Moretti sceglie di rimettere in scena, con gli attori e con i mezzi a disposizione, alcuni momenti importanti della vita mediatica di Berlusconi: sequenze televisive e dichiarazioni pubbliche fortemente presenti nell’immaginario e tuttavia incapaci di trasformarsi in memoria, in esperienza. L’iconografia della discesa in campo, il testo degli interventi parlamentari e le deposizioni processuali costituiscono i riferimenti di partenza per un lavoro di riconfigurazione interamente a carico della drammaturgia e della composizione filmica.
[…] Le strategie di montaggio intermediale già rilevabili nei precedenti film di Moretti non bastano più: «D’Alema, dì una cosa di sinistra, dì una cosa anche non di sinistra, di civiltà. D’Alema, dì una cosa, dì qualcosa, reagisci!»; oppure l’attacco a Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow e al cinema splatter. La reazione esplicita e frontale, come il siparietto polemico nei confronti dei contenuti di cinema e televisione presente in Aprile (1998) e Caro diario (1993) non sono sufficienti a rielaborare dall’interno, a rigenerare criticamente una massa di immagini compromesse nell’edificazione di un orizzonte di senso livellato sul cliché.
All’interno di un regime mediatico composito e allo stesso tempo fruito in modo indifferenziato come quello mappato all’interno del Caimano, la funzione di verità esercitata dalle arti non può risolversi nei termini di un’inchiesta per tramite delle immagini – un’attività che tenti di decretare la falsità o l’autenticità delle asserzioni – ma deve, quantomeno preliminarmente, attivarsi nei termini di una ricognizione critica delle forme di credenza [1].
Senza cadere nella sterile opposizione binaria tra berlusconismo e antiberlusconismo che ha annichilito per anni il confronto politico italiano, Moretti comprende la necessità di operare una diagnosi delle strategie comunicative che hanno instaurato una duratura egemonia politica, mediatica e culturale.
[…] A differenza del documentario d’inchiesta Citizen Berlusconi (2003) di Andrea Cairola e Susan Gray, dove semplicemente si ripropone la “verità” dei documenti d’archivio e l’“evidenza” delle prove di colpevolezza dell’uomo politico, Il Caimano mette in scena il continuo tentativo di porre le basi per la leggibilità stessa di tali documenti: occorre elaborare un’immagine del Presidente e del sistema di connivenze che lo legittimano capace di sottrarsi al flusso mediatico che costituisce il loro fondamento. È nella continua contaminazione tra le immagini d’archivio e la loro ricostruzione scenica che si profila, dunque, la strategia emancipativa del Caimano: un film da fare, dove lo spazio del set è inteso come spazio di resistenza. Al di delle ideologie, come delle dietrologie di certa controinformazione, il film di Moretti trova nel momento di messa in forma della rappresentazione la propria occasione di impegno, in linea con la migliore tradizione del cinema politico italiano [2].
Così, nella sequenza finale del film, l’organizzazione della troupe di Teresa è una chiamata a raccolta della comunità cinematografica, affinché la tensione etica e l’impegno civile possano incontrare le competenze artistiche e artigianali. Si tratta allora di costruire e coordinare scenografie e costumi, ma anche di elaborare strategie attoriali adeguate al difficile compito di rappresentare il Caimano.
[…] La necessità di sottrarre progressivamente i tratti di identificazione iconica correlati al meccanismo di assuefazione alle immagini dell’uomo di potere si esprime al livello della finzione filmica attraverso una serie di “deleghe”, mediante un’attorializzazione plurima della funzione di potere.
Ad un primo livello, la figura di Berlusconi coincide con l’immagine mediatica in quanto tale, capace di produrre indifferentemente consenso o dissenso, ma in ogni caso di definire per anni i limiti del discorso politico. Ad un secondo livello troviamo il sosia, nell’interpretazione di De Capitani, come espressione dei tentativi di porre le basi per rendere altrimenti raccontabile una “storia italiana”, conosciuta da tutti e tuttavia inelaborata. Il complice, nell’interpretazione di Michele Placido, è la figura del grande attore di un cinema italiano che si compiace della propria militanza – i continui riferimenti a un’intimità con Gian Maria (Volonté) –, ma incapace di una reale emancipazione da modelli di vita e lavoro tacitamente consenzienti; le sue prove di recitazione costituiscono un primo filtraggio, una prima virtualizzazione dei tratti di riconoscibilità dell’immagine di Berlusconi.
Nel corpo straniante di Moretti ogni tratto di somiglianza con il modello scompare; qui, la piena riconoscibilità del regista tende a opacizzare completamente i tratti di referenza iconica, per condurre lo spettatore a riconfigurare cognitivamente le coordinate della situazione rappresentata.
[…] L’autoritratto di Moretti nella figura del Caimano provoca una netta incrinatura all’interno dell’immagine audiovisiva del leader: prese in carico dall’attore-cittadino Moretti, le dichiarazioni di Berlusconi al processo Sme sono ricondotte a una sfera di giudizio. Laddove non c’è più sincretismo audiovisivo tra l’immagine di Berlusconi e le sue dichiarazioni, laddove il Presidente è sottratto al regime di visibilità che ne garantisce l’autorità, la sua celebre dichiarazione «questo cittadino è un po’ più uguale degli altri» suona, come una rivelazione, in tutta la sua macabra verità: l’iscrizione al di fuori della legge si è definisce ben prima di qualsiasi emendamento legislativo per l’ottenimento dell’impunità, all’interno del meccanismo di acclamazione e glorificazione del leader in quanto misura dell’“uguaglianza” extragiuridica.
Allo stesso modo, la presa e la conservazione del potere del Caimano, non si esaurisce nel monopolio dell’informazione – inteso come semplice controllo di contenuti –, ma trova la sua massima garanzia nell’instaurazione di un monopolio culturale: la compromissione della “verità” non si lega, dunque, alle forme della censura ma alla messa in discussione delle condizioni necessarie affinché la verità possa essere prodotta e assunta responsabilmente all’interno della società.
A chi si occupa di immagini e di immagini provenienti dal circuito dei media, spetta dunque il compito di rielaborarle dall’interno, solcarne gli strati e metterne in rilievo le strategie, produrre effetti di straniamento, affinché la prestazione documentale possa rigenerarsi. È al massimo di finzionalizzazione, talvolta, il merito di produrre la più alta prestazione testimoniale. È nel mostrarsi mostrare che – per riprendere Brecht – il film di Moretti si rende capace di restituire allo spettatore la consapevolezza che quelle immagini lo ri-guardano, che la loro assunzione ultima avviene al di fuori dello schermo, laddove si verifica l’incrocio tra l’efficacia simbolica e le forme di vita.
Lavorando sulla politicità delle rappresentazioni e non limitandosi alla denuncia del malcostume e del malgoverno, il film e l’interpretazione attoriale di Moretti sopravvivono all’esaurimento politico e mediatico del proprio modello. Il Caimano resta una delle più efficaci testimonianze critiche del rapporto aberrante instauratosi in Italia tra il sistema mediatico e il sistema politico durante la Seconda Repubblica, ma non si limita a descrivere tale esperienza concreta. Al di là della maschera politica Berlusconi e della sua parabola, Moretti esibisce i rischi per la democrazia rappresentati dalla continua necessità di identificare la funzione di governo nell’immagine gloriosa o ingloriosa di un uomo forte, al di sopra delle istituzioni.
Di nuovo, infatti, dopo il lavoro di sarti e architetti presso la corte del re Sole, ad ogni occasione di incertezza politica, qualcuno concorre per indossarne gli abiti e rimpiazzarne il fulgore. Così, ancora una volta, in un paradigma del potere che trova nei media un illimitato rilancio, l’immagine di un nuovo leader potrà resistere all’impatto della storia finché saranno in molti a sostenerla, a riprodurla in proprio, a fare corpo con le sue immagini, implementandone l’efficacia.
Ancora, dopo Rossellini, non si dà presa di posizione politica da parte del cinema senza l’elaborazione di un progetto didattico sulle immagini e sul loro funzionamento.
Note
[1] Sull’analisi delle forme di credenza e delle strategie di efficacia delle comunicazioni, in quanto operazioni propedeutiche a qualsiasi inchiesta sul potere, Cfr. A.J. Greimas, Del senso 2. Narrativa, modalità, passioni, tr. it., Bompiani, Milano 1985, soprattutto pp. 101-129.
[2] Per un inquadramento del politico come progetto estetico del film, Cfr. M. Grande, Eros e politica. Sul cinema di Bellocchio Ferreri, Petri Bertolucci, P. e V. Taviani, Protagon, Siena 1995, p. 23-25.