Esausto 

In occasione della pubblicazione de “L’esausto” (Nottetempo, Roma, 2015) di Gilles Deleuze, pubblichiamo la nota introduttiva di Ginevra Bompiani.

 

La parola “esausto” (épuisé), che intitola questo saggio, è di straordinaria pregnanza. A dargliela non è solo il saggio stesso, che indaga tutti i significati della parole, le estensioni lessicali, le famiglie di senso (esauriente, esaustivo, estenuante, esaurito, sfinente, sfinito, estinto, dissipato, dissolto, ecc.), per catturare la cifra delle pièces televisive di Beckett e di tutta l’ultima sua opera, o forse semplicemente una cifra della sua opera. Non è solo l’andamento del saggio, che esaurisce il termine, in un esaurimento al quadrato. È anche, è soprattutto, è più segretamente la cifra dell’esaurimento che Gilles Deleuze prova, nel momento in cui scrive.

Pochi filosofi, forse solo i più grandi, danno ai concetti che creano e che elaborano un’intensità così intima, così pudicamente corporea come il filosofo francese che si interroga su questi brevi testi drammatici.

Questo è un libro sulla vecchiaia, sull’esaurimento della potenza, ed è uno degli ultimi saggi di Gilles Deleuze (pubblicato nel 1992) sugli ultimi scritti di Samuel Beckett (i quattro testi televisivi che il saggio accompagnava nell’edizione francese sono stati pubblicati fra il 1975 e il 1982).

Ma non è un saggio sulla fine (sebbene sia sull’esaurimento), quanto su un altro concetto deleuziano: il penultimo, la penultimità.

Come l’ubriaco aspira al penultimo ultimo bicchiere (quello della sazietà) e non all’ultimo (quello della perdita della coscienza)[1], così i dannati di Beckett sono creature penultime, che la vicenda, teatrale o narrativa, porterà alla fine. Penultimi sono i “giorni felici”,  penultima è la giornata di Estragone e Vladimiro, penultime sono le posture dei personaggi beckettiani, capaci di penultima felicità, penultima attesa, penultima disperazione.

Nei testi televisivi di Beckett, il passo tra penultimo e ultimo è fulmineo e viene ogni volta compiuto nell’arco di una brevissima rappresentazione. A compiere questo passo, a produrre finalmente la fine, è un processo creativo, che Deleuze chiama: fare un’immagine. L’immagine è precisamente ciò che precede, che produce, che scatena la fine.

L’esaurimento è dunque un processo creativo, teso verso il nulla, il silenzio, la fine. Non si tratta di esaurire un qualche compimento, di arrivare al termine di una qualche realizzazione, in altre parole di “stancarsi di qualcosa”: si tratta di esaurire la possibilità stessa (“Eravamo stanchi di qualcosa, siamo esauriti di niente”). Ed è proprio l’immagine a esaurire la possibilità. L’immagine pura, incontaminata, singolare e indeterminata cui aspira ogni artista, ogni pittore, poeta o musicista è la «particella estrema» che scatena la fine: l’immagine di per sé effimera, è una detonazione che «fa esplodere dissipandosi».

È in questo gioco tra penultimo e ultimo (ma anche tra stanchezza ed esaurimento, fra reale e possibile, fra lingua della memoria e dei nomi e lingua delle immagini, fra la postura sdraiata e quella seduta, fra la parola e il silenzio) che si tiene l’esausto, il personaggio concettuale del saggio di Deleuze, forse il suo ultimo personaggio concettuale, la sua estrema immagine: l’esausto ha una postura, è seduto; ha una lingua, la lingua III, lingua delle immagini e degli spazi; ha uno spazio, spazio qualunque e tuttavia perfettamente determinato, che si contrae in una “punta di spillo”; ha un tempo, che è il tempo dell’insonnia; e ha una potenza: quella di fare l’immagine (il segno dell’insonnia).

Ed è proprio questo personaggio dell’esausto, il teatro su cui si incontrano Beckett e Deleuze, pensatori radicali e profondi artisti, capaci non tanto di dar corpo al pensiero, quanto di dare pensiero al corpo, di esporre un corpo che porti impresso nella sua postura il pensiero; un corpo nell’estrema postura dell’umano.[2] Figura dell’esausto, di colui che esaurisce ogni possibilità creando: figura in cui l’estremo nulla si rovescia in un processo creativo.

E questo è un altro punto di incontro fra Beckett e Deleuze: la capacità di oltrepassare tragedia e commedia, di tenersi là dove l’estrema miseria acquista un’appagante leggerezza, la capacità di «rendere il nulla allegro».

Nel 1991, mentre scriveva il saggio su Beckett, Deleuze diceva: «Io, l’idea che ho dell’amicizia è piuttosto quella di Beckett. Due tipi uno accanto all’altro che stanno lì e non hanno niente da dirsi». E ancora: «Quel che conta in Beckett sono le “posture”. Chi si sdraia, sta ancora bene. Sdraiarsi è molto faticoso. Si muore seduti».

Note

[1] Cfr. Gilles Deleuze, Abécedaire, film-intervista per la tv di Claire Parnet realizzato da Pierre-André Boutang e Michel Pamart nel 1988.

[2] «Per finire parliamo dell’altro, parliamo dell’”umano”. È un vocabolo, e forse un concetto, riservato ai tempi dei grandi massacri. Occorrono la pestilenza, Lisbona e un macello religioso di grande portata, perché gli esseri badino ad amarsi, a lasciare in pace il giardiniere che vive accanto, a essere semplicissimi». Samuel Beckett, La pittura dei Van Velde, ovvero il mondo e i pantaloni, in Disiecta, a cura di Aldo Tagliaferri, Egea, Milano 1991, p. 185.

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