Enigma Torino. Il voto cittadino e i riti di passaggio

Di Torino, ormai, si parla quasi soltanto per dire che la città sta attraversando una trasformazione. Alle ultime elezioni amministrative a questa trasformazione sembra aver creduto la maggior parte degli elettori torinesi. Ancora in attesa dell’agognato passaggio, la città ne ha celebrato il rito.

Torino è stata a lungo una certezza per l’analisi sociale: un sistema economico e politico chiaro, lineare, facile da leggere come la sua topografia ortogonale. E, nonostante non sia più da tempo quella città-fabbrica che fu terreno di prova delle teorie sociologiche sistemiche, rappresentava fino a pochi mesi fa quasi un idealtipo per la politologia e la sociologia politica: un preciso raggruppamento ellittico (per dirla con Colin Crouch) che univa politici, amministratori e grandi forze finanziarie ha infatti governato la città per vent’anni, cercando di canalizzare le sue dinamiche di mutamento in una precisa direzione.[1]

Il recente risultato elettorale, che ha consegnato la guida del Comune alla sindaca Appendino e la maggioranza ai rappresentanti del Movimento 5Stelle, presentandosi soprattutto come la sconfitta del PD e dell’amministrazione uscente, ha trasformato Torino in un enigma politico. Ben pochi, credo, si aspettavano un tale risultato, nonostante i numerosi dibattiti e analisi dedicati alla sfida torinese, segno di un’attenzione mediatica e politica cui Torino, sonnecchiosa da molti anni, non era più abituata. Le ultime amministrative non erano, tuttavia, elezioni normali, presentandosi al contrario come un test della tenuta del governo nazionale, oltre che dell’amministrazione locale, così legata al primo. Alle molte analisi di taglio politico, giornalistico e sociologico prodotte nel frattempo per comprendere quanto successo, vorrei affiancare a distanza di qualche mese, a freddo, una breve interpretazione antropologica, perché ritengo che, grazie alla pratica dell’ascolto e all’originalità dei suoi concetti, l’antropologia culturale possa fornire letture alternative e complementari anche di fenomeni come le elezioni.

Devo ammettere, innanzitutto, che io per primo, non mi aspettavo una così netta affermazione di Appendino e dei 5Stelle contro Fassino. Eppure, se fossi stato più attento alle testimonianze raccolte sul campo, se avessi dato maggior peso a quanto mi dicevano i soggetti delle mie attuali ricerche etnografiche, per lo più persone di classe media e bassa delle periferie torinesi, avrei previsto con largo anticipo il risultato del voto. Da alcuni anni sto infatti conducendo una ricerca sul campo estensiva sugli effetti della crisi tra gli abitanti delle periferie, concentrandomi soprattutto sulle condizioni di vita, le difficoltà e la soggettività delle persone che hanno perso il lavoro in seguito alla depressione economica e alla deindustrializzazione della città. Nel corso dell’indagine ho cercato di raccogliere anche le opinioni politiche e le scelte elettorali di queste persone che, in larga maggioranza, hanno espresso in primo luogo un rifiuto della politica, dei partiti e delle élite politiche nazionali e locali. Un rifiuto che in buona parte dei casi corrisponde all’appoggio più o meno convinto al M5S o, in altri casi, a dichiarazioni di non voto. Altrettanto diffusa, tra i miei interlocutori, è inoltre una certa xenofobia che a volte si traduce in simpatie per forze politiche di destra, come la Lega Nord.

Le testimonianze erano piuttosto chiare; eppure, come dicevo, non mi aspettavo una tale crescita del voto di protesta, né la sconfitta di Fassino. Se ho sottovalutato quanto mi dicevano le persone incontrate sul campo è perché consideravo le loro opinioni politiche come una semplice espressione di disagio, reale, certo, ma tutto sommato minoritaria e marginale. Tuttavia, l’antropologia ci insegna che è proprio dal basso, dai margini, dalle periferie che si può comprendere più pienamente una città, anche rispetto al panorama ideologico e politico. Questo è il motivo per cui il mio discorso si svolgerà a partire dalla situazione dei disoccupati: non solo perché su di loro si è concentrata la mia indagine di terreno, ma perché ritengo che abbiano un ruolo emblematico all’interno della realtà torinese attuale.

La prima cosa da evidenziare è che i disoccupati sono figure marginali, ma non nel senso che si attribuisce normalmente al termine. A Torino, dove è ancora forte la correlazione tra soggettività e occupazione, le persone prive di lavoro sono marginali nel senso che si ritrovano non solo senza fonti di reddito e in difficoltà economica, ma insieme prive di status e di un’identità. La loro soggettività è costruita solo in negativo, per privazione, in quanto “non lavoratori”.

Quella dei disoccupati, privi di status e dotati di un’identità negativa, è una condizione che gli antropologi riconoscono facilmente, perché è la situazione propria delle fasi centrali, di margine, dei riti di passaggio. Nella fase rituale liminale i soggetti sono esclusi dal resto della società, indefiniti e invisibili.[2] Il soggetto privo di lavoro si trova in un’analoga condizione di liminalità, come se fosse bloccato nella fase marginale di un rito di iniziazione che, spesso, non sembra mai giungere a compimento.[3] In questo senso i disoccupati sono “marginali”, perché bloccati sulla soglia, nel margine, non perché rappresentino una categoria residuale o minoritaria all’interno del contesto sociale. Non più.

Potevano, forse, essere considerati una componente secondaria della realtà torinese quando la città-fabbrica girava a pieno ritmo; e ancora minoritaria fino al 2010, nonostante la flessione dei posti di lavoro nell’industria sia stato costante negli ultimi trent’anni, generando tassi crescenti di disoccupazione. Ma oggi, in seguito alla crisi economica, i disoccupati sono un elemento strutturale dell’economia torinese, rappresentando ormai il 12% della forza-lavoro, il tasso più alto di tutto il Nord Italia. Le persone senza lavoro sono ormai la cifra, il simbolo del mondo del lavoro contemporaneo torinese: la loro condizione non è che la versione più estrema e difficile di una situazione più generale, fatta di precarizzazione del lavoro e di crescente disagio economico e sociale.

La realtà dei disoccupati ci dice dunque qualcosa riguardo alla situazione di Torino, ci parla della città stessa. Esattamente come le persone che sono rimaste senza lavoro, Torino si trova oggi in una situazione liminale, bloccata nella fase di margine di un passaggio storico di cui non si vede l’approdo. La città sta vivendo da decenni una transizione, piena di rischi e di difficoltà, di cui non vediamo il punto di arrivo. La condizione liminale di Torino – una condizione che genera di per sé ansia – è espressione della lenta mutazione dal fordismo industriale su cui si fondava l’intera economia locale a un’economia post-industriale più immaginata e idealizzata che reale. L’iniziazione, il passaggio alla nuova realtà, al tempo nuovo post-fordista non si è ancora compiuto, e nessuna sa se e quando si realizzerà. Se l’incertezza e l’insicurezza segnano questa liminalità prolungata ed estenuante, inoltre, è perché la transizione è stata gestita dalle élite locali per mezzo di un’agenda politica scritta con un inchiostro neoliberale. Le politiche locali sono state improntate a un neoliberalismo moderato ma non per questo meno escludente, come dimostrano le migliaia di persone rimaste senza lavoro con la progressiva rottamazione del mondo industriale.

L’attesa estenuante di un passaggio che non sembra compiersi non è sostenibile a lungo, soprattutto se l’ansia è accentuata dalle concrete difficoltà economiche. Tutti attendono col fiato sospeso il rito di riaggregazione che celebri l’avvenuta transizione. In molti, influenzati dalla retorica ufficiale, avevano visto nelle Olimpiadi Invernali del 2006 la tanto attesa celebrazione del nuovo status della città. Ma per quanto da allora Torino sia effettivamente cambiata dal punto di vista estetico e urbanistico, il passaggio non è realmente avvenuto e la depressione economica ha fatto il resto, rigettando la città in una condizione liminoide.

Il voto amministrativo è stato certamente un voto di protesta, un’espressione del disagio verso scelte politiche che nel guidare il cambiamento di Torino hanno dimenticato colpevolmente le periferie. Tuttavia, per un antropologo, è difficile sottrarsi alla tentazione di vedervi all’opera una dimensione rituale, un tentativo di chiudere simbolicamente il passaggio. Le recenti elezioni sono state, allora, una vera cerimonia post-liminale? Non credo. L’antropologia stessa ci ricorda che, per quanto utili sul piano espressivo, i rituali si risolvono in semplici formule se non si accompagnano a un cambiamento reale. E Torino è ancora in attesa.

 

Note

[1] S. Belligni e S. Ravazzi, La politica e la città. Regime urbano e classe dirigente a Torino, Il Mulino, Bologna, 2012.

[2] A. Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 1981; V. Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986.

[3] Come ben mostra, tra gli altri, K. Newman, Falling from Grace, University of California Press, Berkeley/Los Angeles, 1996.

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