Elogio dello SPOILER

Fregarsene del maggiordomo e amare il racconto.

Elogio dello spoiler

Sarà forse perché in questi giorni è piovuto parecchio se ho iniziato a pensare allo spoiler e all’uso di questo termine per parlare di cinema, letteratura e narrazione seriale. Il problema non è capire com’è che abbiamo importato una parola dall’inglese, ma perché questa nozione si è imposta, nel corso di pochi anni, come imprescindibile punto di riferimento e feticcio.

Partiamo dalla cerchia dei prossimi: quando mio cugino mi dice “non spoilerare” lo fa con una certa soddisfazione, come se dicesse una parolaccia di quelle simpatiche. Fa ricorso al termine inglese to spoil (rovinare) che, a sua volta, deriva dal francese antico espoillier (spogliare, denudare) e, dunque, dal latino spoliare (spogliare). In soldoni, mio cugino vuole farmi capire che non devo dirgli come va a finire la storia, per non rovinare l’effetto a chi, come lui, non ha ancora letto il libro o visto il film in questione.

Ma quello dello spoiler non è un problema che riguarda solo la mia famiglia. Nelle riviste specializzate, sui social, nelle discussioni in classe con gli studenti, nelle tesi di laurea, in bocca a chiunque voglia iniziare un discorso sui libri (non) letti e sui film (non) visti, si trova il termine spoiler. Se fossero ancora vivi, due grandi teorici e filosofi della narrazione come Gerard Genette e Paul Ricoeur sarebbero costretti ad aggiornare i loro libri, affrontando un corpo a corpo con questa nozione fino a riconcettualizzarla come prolessi interdetta. Finirebbero poi per arrovellarsi sulle ragioni psicologiche, sociali e metafisiche di questo principio indiscutibile del tempo presente.

A prima vista, l’utilizzo del termine spoiler sembra assumere una funzione “deittica”: risponde all’esigenza sociale di indicare i diversi livelli di accesso alle informazioni. Nello specifico, marca la soglia oltre la quale è possibile entrare prematuramente in contatto con contenuti “sensibili” dal punto di vista narrativo. Ma a uno sguardo più attento, la fortuna smisurata di questo termine sembra dovuta alla funzione “fatica” della quale si carica nel discorso contemporaneo. Come quando rispondiamo al telefono diciamo “pronto” con il semplice intento di stabilire una connessione con chi sta dall’altra parte – indipendentemente da ciò che abbiamo da dirgli e dal fatto stesso che si abbia qualcosa da dire –, così l’uso abbondante del termine spoiler ha la funzione di stabilire un contatto di base all’interno di un gruppo allargato di lettori e spettatori. In altre parole, l’enfasi assegnata all’idea di spoiler non sembra tanto legata alla pur comprensibile opportunità di tacere i contenuti del film o del libro in questione di fronte a chi non ne è al corrente, quanto al bisogno di trovare una parola chiave capace di stabilire un contatto e produrre aggregazione; un termine x attorno al quale possa esserci il consenso di tutti, anche e soprattutto di chi non ha letto o visto l’oggetto di cui si parla.

Che attorno alla nozione di spoiler si esprima una funzione retorica sembra del resto ben consapevole il collettivo Wu Ming che – tanto negli articoli pubblicati su Giap!, quanto nelle lunghe discussioni proseguite nella sezione commenti della rivista –  fa da anni ricorso alle formule “ATTENZIONE SPOILER” e “SPOILER LIBERO” come strategia per gestire la circolazione dei contenuti, ma anche e soprattutto per richiamare l’attenzione dei lettori, offrire un appiglio visivo e tattile all’interno della pagina, stimolare l’interazione. All’interno di una comunità di lettori attenta e partecipe, interessata a confrontarsi su tematiche sociali e politiche cogenti senza rinunciare al conflitto, il ricorso a tali espressioni finisce per assumere anche una funzione ritmica. È un momento di pausa – riprendo fiato e mi lancio nella pugna – all’interno dell’argomentazione polemica.

Elogio dello spoiler

L’espressione “ATTENZIONE SPOILER” è come una madeleine e mi porta indietro nel tempo, suscita accostamenti con oggetti desueti provenienti da un passato allo stesso tempo pubblico e privato. Penso allo spoiler e, d’improvviso, mi viene in mente il Parental Advisory: l’adesivo posto sui cd per mettere in guardia gli ascoltatori (o i loro genitori) dal contenuto particolarmente esplicito dei testi di Marilyn Manson, Prodigy, Eminem, etc. Come il Parental Advisory, anche l’“allerta spoiler” costituisce una forma di avvertimento, un’etichetta che si incontra prima del contenuto incriminato: se nel Parental Advisory l’obiettivo è quello di preservare una determinata fascia di ascoltatori da contenuti ritenuti diseducativi, nel secondo caso si tratta di preservare temporaneamente un segreto, che coinciderebbe con un determinato snodo narrativo del film, della serie o del romanzo.

A pensarci bene, però, il Parental Advisory e l’“allerta spoiler” costituiscono tanto degli avvertimenti, mirati a mantenere una distanza o creare delle soglie di accesso ai contenuti, quanto degli attrattori: per un adolescente degli anni Novanta, l’etichetta bianca e nera con l’espressione in inglese “PARENTAL ADVISORY EXPLICIT CONTENT”, a caratteri cubitali, faceva parte a pieno titolo della copertina del disco. Di fatto, costituiva un invito all’infrazione, una porta di accesso alle forme contemporanee di quella “Scapigliatura” della quale si leggeva sul manuale di letteratura. Allo stesso modo, quando trovo la scritta ATTENZIONE SPOILER (sempre maiuscolo), il mio occhio cade e ripiomba, viene attratto come da una calamita verso quanto di più torbido e recondito si nasconde sotto questo muretto di parole. Come si diceva prima, questa espressione testa la funzionalità del canale di comunicazione che aggrega chiunque abbia interesse nei confronti di quell’oggetto narrativo e indica, addita, una zona discorsiva pericolosa, porta d’accesso a segreti non ancora rivelabili.

Ma rispetto al Parental Advisory, che costituiva una forma del politically correct e metteva in guardia gli educandi dal turpiloquio, il termine spoiler sembra essere una parolaccia esso stesso. Provare per credere: quando dico questa parola, quando dico “Attenzione, spoiler”, gli studenti si divertono, come se dicessi “culo”. Non una parola grossa, non una grande provocazione, ma una volgarità a bassa intensità che genera risolini. In questo caso, l’allerta non è più ciò che distanzia o invita a frequentare i “contenuti espliciti”.

La parola spoiler si finge per un contenuto esplicito essa stessa. Basta pronunciarla per provare quel sentimento di trasgressione ed euforia associato al suo oltrepassamento, al contatto diretto con ciò che teoricamente protegge. Il fatto stesso che io dica “No spoiler” o “Non spoilerare” fa di me un culture/custode delle verità più profonde e più torbide della narrazione, tanto da esonerarmi dal loro attraversamento, dalla lettura e dalla visione dell’opera in questione. In tal senso, la parola spoiler è lo spoiler stesso.

Elogio dello spoiler

Che io ricordi, nel secolo scorso nessuno parlava di spoiler. Forse era mia nonna o la nonna di un mio amico a dire frasi del tipo “così gli rovini la sorpresa”. Ma uscite di questo tipo sapevano di patetico e nessuno le prendeva veramente sul serio. Forse era perché quella concezione puzzava di telenovela. Noi adolescenti negli anni della “fine della storia” e della “fine delle grandi narrazioni” non le capivamo certe cose e, in un certo senso, ce ne fregavamo: il riferimento era Super Mario Bros, dove il problema non era salvaguardare la sorpresa del mostro finale, ma la nostra capacità di annientarlo. Oppure guardavamo, a ripetizione, Karate Kid (1984) e Il ragazzo dal kimono d’oro (1987) e all’effetto-sorpresa della prima visione si sostituiva una paradossale forma di suspense: il timore/speranza che il film che avevamo visto il giorno prima e il giorno prima ancora si ribadisse tale, che non ci fossero novità incorse nel frattempo, che Kim Rossi Stuart sconfiggesse nuovamente il cattivo e Ralph Macchio battesse il terribile biondo al torneo. Così mi pare di ricordare che fossero le cose e forse mi sbaglio. Ma di sicuro non utilizzavamo il termine spoiler.

Fare un elogio dello spoiler pare oggi il modo migliore per destituire questa nozione sulla bocca di tutti e liberarci dell’idea del racconto che non esprime ma nasconde: un pacchetto di contenuti da snocciolare; un oggetto del quale si può parlare solo in riferimento agli eventi che racconta e se non si sa cosa dire, allora, si dice “non spoilerare”, come in una telefonata fatta soltanto di “pronto”, “non ti sento”, “pronto”, “pronto”… Tutto questo, credendo tra l’altro di dire una parolaccia e di essere, per questo, trasgressivamente vicini al nocciolo di verità dell’opera in questione. Elogiare lo spoiler non è negare l’importanza della trama a vantaggio di ripiegamenti formalistici da radical chic, ma esprime il tentativo di tenere insieme i diversi pezzi che ci fanno amare un racconto: il fatto che tanto la meccanica narrativa quanto le soluzioni espressive e poetiche danno luogo al “piacere del testo”. Elogiare lo spoiler non è neppure negare la necessità di marcare in qualche modo, all’interno del discorso pubblico, la presenza di contenuti che prevedono un tasso di competenza narrativa avanzato. Quanto si esprime con tale espressione provocatoria – l’elogio dello sciupare – è la necessità di ridimensionare l’uso spropositato di questa parola e dunque la volontà di spingere il discorso oltre il feticcio della svolta narrativa, oltre le “dicerie sul maggiordomo”, delle quali fattualmente nessuno si interessa, ma che persistono come un tic verbale, come una forma di “premediazione” del discorso sul cinema, la serialità e la letteratura.

A chi importa davvero di sapere come vanno a finire Lost e Breaking bad, la seconda stagione di Suburra? E cosa fare – come impiegare la nozione di spoiler – con opere “seriali” come La ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, Berlin Alexanderplatz (1980) di Rainer Werner Fassbinder o Twin Peaks (1990-2017) di David Lynch e Mark Frost, che sfidano le idee stesse di azione, narrazione, evento? Che cosa succede, poi, quando un film o un libro sono usciti da tempo e più o meno tutti sanno che cosa succede ai presonaggi? Perdiamo forse interesse nei confronti dell’Odissea sapendo che Ulisse non muore? E quella dedicata al Nome della rosa (2018) era forse una serie dimezzata per via che in molti conoscono già la faccenda del libro avvelenato e dell’abbazia in fiamme, a causa dell’enorme successo pubblico del libro di Umberto Eco?

Certo, per quanto riguarda le serie tv, la tendenza ad accompagnare lo streaming di ogni episodio con commenti sui social network apre uno spazio di divulgazione delle vicende narrate a chi ancora non ha avuto la possibilità di vederlo. Ma la ridondanza dell’espressione ATTENZIONE SPOILER e dell’imperativo NON SPOILERARE nel discorso contemporaneo sembrano del tutto in eccesso rispetto alle esigenze di salvaguardia della fabula per chi non ha ancora attraversato l’intreccio.

Elogio dello spoiler

Se ostinatamente, ancora, guardiamo film e leggiamo libri è perché crediamo nella forza del raccontare, nella capacità delle immagini e delle parole di costruire mondi che non sono il nostro ma che non si oppongono al nostro. Al contrario, lo aumentano, lo integrano, lo potenziano, e vice versa. Oggi che è finito il tempo della “fine della storia” e che, con i nostri abbonamenti a Sky, Amazon Prime, Netflix, etc. abbiamo ammesso pubblicamente il desiderio di narrazioni che concorrono nella costruzione di, quantomeno piccoli, orizzonti di senso condiviso, possiamo forse ammettere che siamo tutti immersi in un mare di correnti narrative – al contempo reali e finzionali – e che involontariamente, inevitabilmente, con le nostre parole, con i nostri corpi, parliamo continuamente dei libri e dei film che abbiamo visto o che, magari, i nostri amici non hanno visto. Li continuiamo nel quotidiano.

Siamo tutti performer di un archivio di visioni e di ascolti più o meno condivisi. Proprio per questo, se davvero volessimo essere radicalmente coerenti all’ideologia dello spoiler dovremmo andare in giro per strada, quotidianamente, con un cartello con la scritta “ATTENZIONE SPOILER”: sandwich-men del “narrativamente corretto”. Così come si viene al mondo in medias res, siamo sempre e comunque nel bel mezzo di immaginari e racconti che ci precedono e di fronte ai quali non basta chiudere gli occhi o farli chiudere agli altri per non vedere o non sapere. Molto meglio accettare questa condizione di immersione. Convivere con le trame intrecciate e i finali intuiti, cercando di intercettarli con i nostri percorsi, cercando di rilanciarne il potenziale, dare luogo a forme di sperimentazione critica e performativa degli stessi. Senza dimenticarci ma, anzi, valorizzando, come facevamo da bambini – davanti a Karate Kid e Il ragazzo dal kimono d’oro – che, quantomeno a partire dalla seconda visione, quella che era una “sorpresa” diventa “suspense” e lo scorrere del film, della serie o del rotolo di papiro è una performance dal vivo, alla quale prendere parte.

Progetti per il futuro da proporre per un finanziamento alla Commissione Europea: un sito – chiamiamolo database, che aumentano le chance di finanziamento – con dentro tutti gli spoiler della cultura occidentale.

elogio dello spoiler

 

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