Elogio del margine

Torna oggi in libreria “Elogio del margine” di bell hooks, nella nuova edizione di Tamu Edizioni. Eccone un brano.

A volte, casa è in nessun luogo. A volte si conoscono soltanto alienazione ed estraniazione. Allora casa non è più un solo luogo. È tante posizioni. Casa è quello spazio che rende possibili e favorisce prospettive diverse e in continuo cambiamento, uno spazio in cui si scoprono nuovi modi di vedere la realtà, le frontiere della differenza. Sperimentare e accettare dispersione e frammentazione come fasi della costruzione di un nuovo ordine mondiale che riveli appieno dove siamo e chi possiamo diventare, e che non costringa a dimenticare. «La nostra lotta è anche una lotta della memoria contro l’oblio». Tra i neri, chi è sempre vissuto nel privilegio o nel desiderio di lasciarsi alle spalle una condizione di estrema povertà per raggiungerne una di privilegio, o ancora chi, come me, ha origini modeste e si è dovuto costantemente impegnare in una lotta politica all’interno e all’esterno della comunità nera per affermare una presenza estetica e critica, ha un’esperienza radicalmente diversa dello spazio e della posizione. I neri di estrazione povera e sottoproletaria che riescono ad arrivare all’università e a frequentare ambiti culturali privilegiati, e che però non intendono dimenticare chi sono rinunciando alla propria storia e ai segni della propria diversità di classe e di cultura e trasformandosi nell’«Altro esotico», se vogliono sopravvivere con animo integro, devono creare spazi all’interno della cultura dominante. In fondo, la nostra presenza è un atto di rottura.

Noi siamo talmente «Altro» da essere una minaccia, oltre che per i bianchi che pensano di essere i soli in pericolo, anche per i neri di origine borghese che non capiscono e non condividono le nostre prospettive. Ovunque andiamo subiamo pressioni da parte di chi vorrebbe ridurci al silenzio, cooptarci o toglierci la terra sotto i piedi. Non « arriviamo» mai e, se arriviamo, non ci è consentito «restare». Una volta tornati agli spazi da cui veniamo, ci facciamo fuori con le nostre stesse mani per la disperazione, annegando nel nichilismo, preda della povertà, della dipendenza e di tutti i postmoderni modi di morire che si possono immaginare. Inoltre, quei pochi di noi che ce la fanno a rimanere in quello spazio «altro», sono spesso troppo isolati, troppo soli. Ci si può addirittura morire. Quelli di noi che restano in vita, che «ce la fanno», conservando con passione i valori della vita «in famiglia», la vita «di un tempo» che non intendiamo perdere, continuando a cercare un sapere ed esperienze nuovi, inventano spazi di apertura radicale. Privi di tali spazi non sopravvivremmo. Le nostre vite dipendono dalla nostra capacità di concettualizzare alternative, spesso improvvisando. È compito di una pratica culturale radicale teorizzare su questa esperienza in una prospettiva estetica e critica.

Per me questo spazio di apertura radicale è il margine, il bordo, là dove la profondità è assoluta. Trovare casa in questo spazio è difficile, ma necessario. Non è un luogo «sicuro». Si è costantemente in pericolo. Si ha bisogno di una comunità capace di fare resistenza. Ecco cosa ho scritto a proposito di marginalità nell’introduzione a Feminist Theory: From Margin To Center:

Essere nel margine significa appartenere, pur essendo esterni, al corpo principale. Per noi, americani neri, abitanti di una piccola città del Kentucky, i binari della ferrovia sono stati il segno tangibile e quotidiano della nostra marginalità. Al di là di quei binari c’erano strade asfaltate, negozi in cui non potevamo entrare, ristoranti in cui non potevamo mangiare e persone che non potevamo guardare dritto in faccia. Al di là di quei binari c’era un mondo in cui potevamo lavorare come domestiche, custodi, prostitute, fintanto che eravamo in grado di servire. Ci era concesso di accedere a quel mondo, ma non di viverci. Ogni sera dovevamo fare ritorno al margine, attraversare la ferrovia per raggiungere baracche e case abbandonate al limite estremo della città. C’erano leggi a governare i nostri movimenti sul territorio. Non tornare significava correre il rischio di essere puniti. Vivendo in questo modo – all’estremità –, abbiamo sviluppato uno sguardo particolare sul mondo. Guardando dall’esterno verso l’interno e viceversa, abbiamo concentrato la nostra attenzione tanto sul centro quanto sul margine. Li capivamo entrambi. Questo modo di osservare ci impediva di dimenticare che l’universo è una cosa sola, un corpo unico fatto di margine e centro. La nostra sopravvivenza dipendeva da una crescente consapevolezza pubblica della separazione tra i due luoghi e da un sempre più diffuso riconoscersi degli individui come parte necessaria e vitale di un insieme. Questo senso di appartenenza, impresso nelle nostre coscienze dalla struttura della vita quotidiana, ci ha dato una visione oppositiva del mondo – un modo di vedere sconosciuto a gran parte dei nostri oppressori. Esso ci ha sostenuti e aiutati nella lotta contro la povertà e la disperazione, rafforzando il nostro senso di identità e di solidarietà.

Anche se incomplete, queste affermazioni individuano la marginalità come qualcosa di più di un semplice luogo di privazione. Ciò che intendevo sostenere è, infatti, l’esatto contrario, ossia che la marginalità è un luogo di radicale possibilità, uno spazio di resistenza. Questa marginalità, che ho definito spazialmente strategica per la produzione di un discorso controegemonico, è presente non solo nelle parole, ma anche nei modi di essere e di vivere. Non mi riferivo, quindi, a una marginalità che si spera di perdere – lasciare o abbandonare – via via che ci si avvicina al centro, ma piuttosto a un luogo in cui abitare, a cui restare attaccati e fedeli, perché di esso si nutre la nostra capacità di resistenza. Un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi.

Non si tratta di una nozione mistica di marginalità. È frutto di esperienze vissute. Voglio chiarire, tuttavia, che cosa significhi lottare per mantenere questo tipo di marginalità quando si lavora, si produce, si scrive «dal centro». È da tempo che non vivo più in quel mondo segregato al di là dei binari della ferrovia. Per vivere in quel mondo era fondamentale una consapevolezza sempre maggiore del bisogno di opposizione. Quando Bob Marley canta «We refuse to be what you want us to be, we are what we are, and that’s the way it’s going to be» (rifiutiamo di essere ciò che voi volete farci essere, siamo quel che siamo e voi non ci potete fare proprio niente), lo spazio del rifiuto da cui si può dire no al colonizzatore, a chi ti opprime, sta sui margini. E si può solo dire no, far parlare la voce della resistenza, perché è lì che esiste un contro-linguaggio. Anche se può essere paragonata a quella del colonizzatore, la nostra lingua ha subito una trasformazione: essa è stata irrimediabilmente cambiata. Abbandonando fisicamente quello spazio concreto ai margini, al di là della ferrovia, ho mantenuto vivo nel cuore un modo di conoscere la realtà che afferma incessantemente non solo il primato della resistenza, ma anche un bisogno di resistere sostenuto dal ricordo di un passato dove è la memoria di tante voci spezzate a far trovare a ognuno di noi la propria vera voce. È un bisogno di resistere che ci rende liberi, che decolonizza le nostre menti e tutto il nostro essere.

Una volta, mentre stavo per tornare a un’università frequentata quasi esclusivamente da bianchi, mia madre mi disse: «Puoi prendere ciò che i bianchi hanno da offrirti, ma non devi amarli». Adesso, conoscendo i suoi codici culturali, so che non mi stava dicendo di non amare persone di altre razze. Parlava di colonizzazione e di cosa significa venire educati e istruiti in una cultura del dominio, per mano di chi quel dominio detiene. Diceva che ero in grado, che avevo la forza di separare i saperi utili che avrei potuto acquisire dal gruppo dominante dalla partecipazione a forme di conoscenza che mi avrebbero portata all’estraniazione, all’alienazione e, ancor peggio, all’assimilazione e alla cooptazione. Sosteneva che, per imparare, non era necessario consegnarsi a loro. Pur non essendo mai stata all’università, mia madre sapeva che più di una volta mi sarebbe capitato di affrontare situazioni in cui sarei stata «messa alla prova», «testata». Sapeva che, per farmi accettare, sarei stata costretta a diventare parte di un sistema di scambio capace di garantire il mio successo, il mio «farcela». Mi stava ricordando che era necessario non smettere di opporsi e allo stesso tempo mi incoraggiava a non perdere quella prospettiva radicale costruita e modellata dalla marginalità.

Capire la marginalità come posizione e luogo di resistenza è cruciale per chi è oppresso, sfruttato e colonizzato. Se consideriamo il margine solo come un segno che esprime disperazione, veniamo penetrati distruttivamente da uno scetticismo assoluto. Ed è proprio lì, in quello spazio di disperazione collettiva, che la nostra creatività e la nostra immaginazione sono in pericolo, che la nostra mente viene colonizzata, che si desidera la libertà come fosse un bene perduto. Le menti che resistono alla colonizzazione lottano, in fondo, per la libertà e a essa aspirano come a un bene perduto. Esse lottano per la libertà d’espressione. Da principio la lotta potrebbe addirittura non avere come bersaglio il colonizzatore, ma prendere il via all’interno della nostra stessa comunità o della nostra famiglia, a loro volta colonizzate e segregate. Ci tengo quindi a sottolineare che non sto cercando di riabilitare e romantizzare il concetto di marginalità spaziale, secondo cui gli oppressi vivono «in purezza», separati dagli oppressori. Voglio affermare che questi margini sono stati luoghi di repressione, ma anche di resistenza. Poiché siamo capaci di definire la natura di quella repressione, è evidente che sappiamo che il margine è un luogo di privazione. Quando, però, si tratta di parlare del margine come di un luogo di resistenza, ci facciamo più silenziosi. Quando si tratta di parlare del margine come di un luogo di resistenza, veniamo spesso ridotti al silenzio. Costretti al silenzio.

Durante gli anni dell’università, più di una volta mi sono accorta che parlavo con la voce della resistenza. Non posso certo dire che i miei discorsi fossero accettati e seguiti con intensità tale da riuscire ad alterare la relazione tra colonizzatore e colonizzato, ma ho constatato che gli studiosi che in genere si definiscono pensatori critici e radicali e le teoriche del femminismo hanno ora un ruolo fondamentale nella costruzione di un discorso sull’«Altro». Fui resa «Altro» lì, in quello spazio, in mezzo a loro. Spazio ai margini, mondo abitato e segregato del mio passato e presente. Non mi hanno incontrata in quello spazio, bensì al centro. Mi hanno accolta da colonizzatori. Aspetto che siano loro a svelarmi la natura e l’intensità della loro resistenza e a spiegarmi come siano riusciti a rinunciare al potere di agire come colonizzatori. Aspetto che diventino testimoni, capaci di raccontare. Affermano che il discorso sulla marginalità, sulla differenza, è andato oltre la discussione sul «noi e loro». Ma non dicono come ciò sia accaduto. Questo scritto è una risposta dallo spazio radicale della mia marginalità. Uno spazio di resistenza. Uno spazio che ho scelto.

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