«Ecomafia» è un neologismo che ha conosciuto buona fortuna. Se negli ultimi anni in questo paese è cresciuta l’attenzione per la gestione illecita dei rifiuti il merito è anche dell’efficacia di questa definizione, coniata a metà degli anni novanta da Enrico Fontana e Antonio Cianciullo[1].
Mettere in risalto il ruolo – per altro documentato e comprovato – delle mafie nel settore dei rifiuti si è rivelato decisivo affinché il faro dei media si accendesse su questa parte nascosta dell’economia (la cosiddetta «dark economy»[2]).
Per una parte importante dell’imprenditoria italiana la gestione illecita dei rifiuti ha rappresentato un dispositivo essenziale per la competizione economica, garantendo consistenti risparmi. La presa di consapevolezza rispetto all’importanza economica e criminale di questo settore imprenditoriale non era scontata, ma in qualche modo, in Italia, c’è stata.
Ma sappiamo come il fascio di luce possa mettere in risalto alcuni elementi e, allo stesso tempo, creare delle zone d’ombra. E se la fortuna mediatica della definizione è stata meritoria e, tutto sommato, utile, non ci sembra del tutto superfluo tentare di proporre qualche indicazione analitica riguardo la nuvola di significati che il termine ecomafia porta con sé. Il pericolo infatti è di addossare alle mafie la responsabilità esclusiva dei principali crimini ambientali. In realtà, dietro l’etichetta «ecomafie» è all’opera uno spettro variegato di figure che il termine, proprio per il suo portato suggestivo, rischia di lasciare sullo sfondo. Il rischio è di esentare dalle proprie responsabilità i soggetti legali – quelli che Vincenzo Ruggiero definisce con una certa efficacia «colletti sporchi» – che del saccheggio ambientale nutrono il loro business. Cerchiamo così – proprio con l’intento di affinare lo sguardo – di proporre quelle che ci sembrano alcune caratteristiche distintive dell’operatività criminale nell’ambito della gestione dei rifiuti.
Legalità: la sottile linea d’ombra
Nel campo ambientale risulta evidente come il terreno della legalità sia, di fatto – più che un confine netto e profondamente demarcato – un terreno di scontro tra diverse forze. L’orientamento neoliberista richiede un ambiente giuridico lasco, aperto alle innovazioni, a seconda delle necessità della produzione. Esemplare, da questo punto di vista, la querelle sulla teoria del «codice prevalente». Negli anni novanta affermati giuristi cercarono di accreditare la tesi per cui una miscela di rifiuti poteva essere definita, e smaltita, secondo il rifiuto quantitativamente più presente: secondo questo criterio, un quintale di rifiuti solidi urbani misti a dieci grammi di arsenico vengono definiti rifiuti solidi urbani. E l’arsenico, voilà!, scompare.
Per altro, l’indeterminatezza del confine tra lecito e illecito non coinvolge solo l’ambito giuridico, ma anche le scienze più direttamente coinvolte nella verifica e quantificazione del danno provocato. Luminari, illustri accademici ed esperti ambientali (chimici, biologi, ingegneri) mettono frequentemente (ma non gratuitamente) a disposizione la loro competenza nelle aule dei tribunali per addomesticare ed edulcorare le responsabilità dei loro committenti.
Gli attori meticci del business
E se è lasco e flessibile il confine tra lecito e illecito, così è variegata la composizione dei soggetti impegnati in questo business. Un «affollamento ben orchestrato di personaggi legati alle mafie in combutta con quel sottobosco di cosiddette “persone per bene” […] dove non è più possibile distinguere gli uni dagli altri, i mafiosi dagli imprenditori, gli amministratori dai professionisti o dai banchieri»[3]. Sovrapposizioni e simbiosi tra soggetti diversi e apprendimento reciproco di pratiche: tecniche di evasione fiscale, movimentazione del denaro, corruzione di pubblici funzionari, movimentazione di merci, uso della violenza… Nonostante l’esistenza di reti composite sia stata analizzata anche in altri business illegali, nel traffico di rifiuti questo tratto è in qualche modo più marcato ed evidente. Ad esempio, in diversi paesi europei è stato registrato il fenomeno per cui la medesima azienda è in grado di fornire, nel campo dello smaltimento dei rifiuti, sia servizi leciti che illeciti, graduando il costo del servizio[4]. Come ha avuto modo di segnalare il magistrato Annamaria Ribeira, le «regole del mercato» sono sufficienti – spesso non serve un sovrappiù di comportamenti criminali come gli atti intimidatori – per garantire il successo di imprese senza particolari problemi di liquidità e con grandi capacità di tessere reti criminali. Soltanto attraverso minuziose indagini a ritroso all’interno di trust finanziari e di complicate scatole cinesi societarie è possibile individuare collegamenti con la criminalità organizzata.
Territorialità e sovranità
I crimini ambientali avvengono al livello del suolo. Gli scavi, il traffico di camion, l’odore dei rifiuti: sono tutti segnali percepibili al livello del terreno[5]. Su questo piano si conduce una battaglia che non vede fronti contrapposti perfettamente delineati e che si alimenta dello sfrangiamento della sovranità territoriale nazionale. È nei porti commerciali – delicati e decisivi snodi del traffico globale – che questa dinamica risulta particolarmente evidente. È qui che le procedure di controllo del traffico di rifiuti diventano oggetto di conflitto tra diversi soggetti ed interessi: tra chi persegue la logica del controllo delle frontiere nazionali (l’agenzia delle dogane) e chi propugna la liberalizzazione del traffico e degli scambi su scala globale (le autorità portuali)[6].
Per quanto riguarda il mercato via terra, l’allungamento dei traffici dei rifiuti verso l’est Europa segue le dinamiche dei cicli lunghi delle economie locali e approfitta della liberalizzazione della circolazione delle merci così come dei minori costi dei trasporti. Settore, quest’ultimo, drammaticamente travolto dalla deregolamentazione e da una competizione globale feroce.
Venendo alla famosa «terra dei fuochi», dobbiamo a Isaia Sales la descrizione delle dinamiche economiche e sociali (dalla crisi dell’agricoltura al controllo del ciclo del cemento) che hanno permesso alle camorre di controllare intere porzioni del territorio campano[7]. Una contesa drammatica quella sul controllo del territorio dell’agro aversano che va ricondotta alle politiche economiche – anche europee, come nel caso dell’agricoltura – piuttosto che chiamare in causa, come troppo spesso si è fatto, l’omertà o il disinteresse degli abitanti del sud per le sorti del loro territorio.
L’analisi di Sales mostra anche come lo sfrangiamento delle sovranità territoriali – e la perdita collettiva del controllo del territorio a favore di poteri privati e privatizzanti – avvenga anche per approssimazioni successive di politiche miopi e collusive, di puntuali scelte scellerate, di quotidiane condotte vigliacche.
Politiche
Le politiche c’entrano, c’entrano eccome. In particolare riguardo all’impiantistica, alle modalità di smaltimento e all’assetto gestionale dei soggetti chiamati a gestire i rifiuti. Utilizzare discariche (modalità a bassissimo contenuto tecnologico che vede le reti criminali avvantaggiate nel controllo del territorio e del ciclo del cemento) o scegliere reti lunghe di gestione (all’interno delle quali possono trovare spazio organizzazioni criminali che mantengono una buona capacità condizionante del settore dei trasporti), o ancora assetti societari più opachi (come le società miste, dove le imprese private possono agire in regime di protezione dai rischi della concorrenza e del libero mercato), sono tutte scelte che in qualche modo possiamo definire criminogene.
Se fosse l’onnipotente Mafia a far deragliare una gestione dei rifiuti di per sé onesta, pulita e sostenibile sarebbe tutto maledettamente più facile (da raccontare e da combattere). Ma non è così: in realtà le reti criminali rispondono alle sollecitazioni dei contesti politici, sociali ed organizzativi dati. Non sono le mafie che determinano i business e le strategie delle reti. Non sono le mafie ad aver creato la domanda di smaltimento illegale dei rifiuti o la gestione folle dei rifiuti urbani. Sono piuttosto i contesti e le politiche che possono, o meno, ospitare e alimentare (ed intrecciarsi con) pratiche criminali.
Note
[1] A. Cianciullo e E. Fontana, Ecomafia. I predoni dell’ambiente, Editori Riuniti, Roma 1995.
[2] Definizione che dà il titolo a un libro successivo degli stessi autori: A. Cianciullo e E.Fontana, Dark economy. La mafia dei veleni, Einaudi, Torino 2012.
[3] Così Antonio Pergolizzi ha nitidamente descritto queste reti in Toxicitaly. Ecomafie e capitalismo: gli affari sporchi all’ombra del progresso, Castelvecchi, Roma 2012.
[4] V. Ruggiero, I crimini dell’economia.Una lettura criminologica del pensiero economico, Feltrinelli, Milano 2013.
[5] G. Muti, Le ecomafie nel Nord, in «Limes. Rivista italiana di Geopolitica», n. 2, 2005.
[6] M. Ariniello, Giochi Pericolosi, Osservatorio ambiente e legalità di Venezia. Si veda www.osservatorioambientelegalitavenezia.it
[7] Isaia Sales, La questione rifiuti e la camorra, in «Merdiana», n. 73/74, 2013.