Per un’ecologia decoloniale

Un’intervista a Malcom Ferdinand, autore di Une écologie décoloniale (Seuil 2019)

“Environmental justice”, Ricardo Levins Morales.

Per Malcom Ferdinand, il degrado ambientale non può essere dissociato dai rapporti di dominio razziale, giacché deriva dal nostro modo di abitare la Terra, da un sentimento di legittimità nell’appropriarsene. E visti i tempi passati, lo dovremo reinventare.

Spesso si accusano le attività umane dell’era industriale di essere responsabili delle distruzioni ambientali in corso. Lei però sottolinea che tale visione nasconde i rapporti di dominio in corso da secoli. L’immaginario occidentale della crisi ecologica ha per caso cancellato la realtà coloniale?

Lungi da me voler essere il primo a porre in evidenza il legame tra diseguaglianze sociali e distruzione dell’ambiente visto che questo è obiettivo dell’ecologia sociale, dell’ecologia politica, dell’ecofemminismo… Tuttavia, il punto di vista che propongo, ossia connettere queste tematiche all’eredità razzista, è poco indagato, ad eccezione dei movimenti per la giustizia ambientale. Distruzione della natura ed oppressione sociale sono da sempre stati legati. Eppure, negli appelli ad affrontare l’urgenza climatica si continuano a vedere slogan privi di un pensiero sociale. Ciò permette ad altri di appropriarsi della causa ambientale e di assegnare alla stessa una soluzione tecnocratica che vorrebbe risolvere il problema dell’inquinamento e della scarsità di risorse attraverso la geo-ingegneria o i mercati di carbonio. 

Lei fa risalire l’origine della crisi ambientale al 15esimo secolo, all’epoca della colonizzazione…

Esistono varie accelerazioni del degrado ambientale (in particolare nel 19esimo e nel 20esimo secolo), ma la crisi ecologica inizia ben prima. La sua origine risale ad una certa maniera di abitare la Terra, di pensarsi sulla Terra come se avessimo la legittimità di appropriarcene per il profitto di alcuni. A partire dai Caraibi faccio risalire questo “abitare coloniale” alla fine del 15esimo secolo quando Cristoforo Colombo arriva in America (sapendo che il modello della piantagione esisteva ben prima di allora, ad esempio a Madeira). Mi sembra che i Caraibi occupino un posto importante nella modernità, poiché l’incontro violento degli Europei con i cosiddetti Amerindi coincide con il momento nel quale il globo viene definito nei suoi “contorni”, ed è quindi possibile quantificare le risorse disponibili sul pianeta. Per molti autori, è il momento che segna l’inizio della globalizzazione.

All’Antropocene lei contrappone il “Negrocene”, che si sostiene sull’“abitare coloniale”: si riferisce a qualcosa di diverso rispetto allo sfruttamento capitalista?

Chi è stato sfruttato durante la colonizzazione è una popolazione ben precisa: se gli abitanti dell’Esagono [la Francia continentale, n.d.t.] subivano anch’essi violenze sociali, potevano però sempre sentirsi superiori ai Neri. Il razzismo è una tematica quasi del tutto assente nell’ecologia politica francese. A tal riguardo, mi oppongo a taluni ecomarxisti secondo i quali il capitalismo permette di spiegare tutto, o che sostengono che le diseguaglianze sociali ed il razzismo strutturale siano una sola cosa. Anche se  colonizzazione e schiavitù si alimentarono delle logiche capitaliste, restarono ancorate soprattutto ad una visione coloniale del mondo che inventa una gerarchia tra le cosiddette razze, e tra differenti “terre” del globo.

Così, nell’epoca coloniale le terre delle Americhe vennero subordinate alle terre d’Europa, considerate com’erano nella loro capacità  di soddisfare i desideri dei loro azionisti, desideri che legittimavano qualsiasi pratica. E così le stesse misure di protezione della fertilità della terra avevano come fine ultimo quello di assicurarne la continuità dello sfruttamento. Terre pensate come ben diverse da quelle dell’Esagono, in un processo violento e misogino. Una terribile maniera di abitare la Terra, portata dai colonizzatori, e secondo la quale gli altri umani vengono disumanizzati, le terre vengono colonizzate mentre i non-umani che le abitano valgono meno dei suoi desideri. Questo è ciò che ho deciso di chiamare “l’abitare coloniale”, modalità violenta di abitare la Terra, asservendo le terre, gli umani ed i non-umani ai desideri del colonizzatore.

Tutto si giustifica attivando un insieme di discorsi e pratiche, facendo appello alla religione, alla metafisica, alla legge, alla cultura. Nel 1848 ad esempio, la seconda abolizione della schiavitù fu indubbiamente un grande risultato politico e giuridico. Tuttavia, sussistevano vari artifici volti a mantenere gli schiavi nelle piantagioni, e per limitare lo sviluppo della classe contadina. Così i proprietari terrieri, le cui terre dovevano – secondo il modello coloniale – essere monoculture, hanno perpetuato un habitat coloniale dopo il 1848. La mentalità di appropriazione e gerarchizzazione restava integra. L’applicazione pratica di questo modo di abitare – che si era ormai imposto a prescindere dalla schiavitù – si è poi estesa altrove. In questo contesto, nell’impero francese si sviluppano la cultura della banana, quella del baco da seta, quella di alcuni settori minerari. Attraverso tali modalità, grazie alle quali alcuni videro crescere il loro conto in banca, in soli venti anni si riuscì a contaminare terre per più secoli ed avvelenare migliaia di persone.

Il mio lavoro mi ha dimostrato che ci si può affidare ad una lettura tecnicista del problema ambientale. Una molecola è tossica? La si toglie dal mercato. Troppo inquinamento? Si adotta una regolamentazione, o una soluzione tecnica. Ma i “subalterni” non vogliono solo essere decontaminati, né ricevere solo giustizia per un crimine di tale gravità. Cinque secoli più tardi non è stata formulata ancora alcuna condanna. Si tratta invece di cambiare il modo in cui si abitano le terre.

Quando lei parla di “subalterni”, a cosa si riferisce? A persone oppresse in generale (classi popolari, donne, minoranze sessuali, ecc.)?

Uso assai liberamente il termine “negro”, (in Negrocene ad esempio). I subalterni sono quei negri delle “piantagioni” d’oggi, quale che sia il loro sesso o il colore della loro pelle. L’essenzializzazione scaturita dalla sovrapposizione di “negro” e “nero” è stata resa possibile dalla lingua spagnola dove i due termini sono identici. Non si può però dire che solo i Neri abbiano sofferto e soffrono ancora nelle piantagioni. Gli scrittori sono stati i primi a de-essenzializzare questo termine (il “negro” è chi svolge il lavoro di qualcuno senza essere riconosciuto tale).

Il Negrocene porta l’attenzione su tutti questi esseri la cui energia vitale è utilizzata a beneficio di velleità personali. La storia della schiavitù dei Neri è stata per lungo tempo ignorata in Francia ed è tuttora pensata principalmente in riferimento ai rapporti sociali o di genere. È però difficile intendere in che modo è anche legata alla storia ambientale. Eppure, la vera sfida è quella di connettere lo sfruttamento del corpo a quello della terra. Se si parte dal principio non moderno secondo il quale esistono elementi di continuità tra corpi ed ecosistemi, si può comprendere bene che il danno all’uno è danno all’altro. Questa sfaccettatura ci permette di comprendere le rivolte come opposizione a questa modalità di “abitare coloniale”. Se il “marronage” – ossia la fuga degli schiavi dalla piantagione – occupa un posto centrale nel mio lavoro, è perché rappresenta un’altra maniera di “abitare”. I “marron” fecero di più che semplicemente opporsi alla schiavitù: misero in pratica un altro rapporto con la Terra e con i non-umani.

Quali sono le conseguenze di questo “silenzio coloniale” oggi?

Vedo due ordini di difficoltà. Da una parte non si è riuscita a cogliere l’occasione del 150esimo anniversario dell’abolizione della schiavitù per riconoscere quanto accadde. La schiavitù non è un tema facile in Francia.  Dopo alcune lezioni su razzismo e schiavitù che tenni nei licei, alcuni professori non volevano che parlassi dei Neri.  François Fillon rappresenta perfettamente questa mentalità, quando nel 2017 disse, riguardo all’insegnamento della storia coloniale che la Francia “non era colpevole per aver voluto condividere la sua cultura con i popoli africani”. D’altro canto, la questione ecologica si è affermata in maniera distinta dal razzismo. È pur vero che la maggior parte dei militanti ecologisti, (a quanto dicono loro stessi) sono bianchi.

Direi quindi che il silenzio coloniale contribuisce alla “doppia frattura” (quella ambientale e quella coloniale) ed esclude così una parte di coloro che abitano la Terra.

Invece anche coloro che sono usciti dalla colonizzazione possono contribuire a pensare l’ecologia. Mantenendo la convinzione secondo la quale le persone razzializzate non sono interessate all’ecologia, si continua ad escludere –  volenti o nolenti – persone razzializzate e le loro concezioni dalle sfere e dagli ambiti propri del pensiero ecologico.

Una tale esclusione, per contro, alimenta la diffidenza da parte dei razzializzati. Su queste premesse, l’immaginario costruito intorno all’ecologia cancella il luogo e la parola degli “altri”.

Allo stesso tempo, la frattura coloniale minimizza la sfida ecologista. Il mio libro Une écologie décoloniale cerca di lanciare un ponte tra le due, ed evitare che si accentui lo scarto. Contrariamente a quanto affermano i “collassologi” tento di dimostrare che dopo il 1492 si sono già verificati vari collassi e che molte collettività già hanno proposto altre modalità di relazione con il mondo. La loro parola è stata invisibilizzata, almeno nel campo ecologista.  Continuare a scrivere testi ecologisti nei quali non c’è neanche un Nero tramanda il mito di una ecologia agìta solo dai Bianchi dei paesi del Nord ed il mito di una assenza di pensiero ecologista degli allora colonizzati e schiavizzati.

Come pensare assieme giustizia sociale, antirazzismo e tutela degli ecosistemi? Ridefinire il concetto di natura può aiutare a creare questi nessi?

L’eurocentrismo e l’“occidentalocentrismo” ci hanno impedito di vedere altre cosmogonie. Oppure quando vengono citate lo si fa in maniera romantica: “Ah se tutti potessero fare come i Guaranì!”. Ora non si può celebrare il loro modo di vivere senza riconoscere la loro storia e la loro marginalizzazione sociale e politica. Tra i popoli indigeni il tasso di suicidi è talvolta dieci volte superiore alla media.

Dobbiamo pertanto farci mettere in crisi dalla loro cosmologia senza dimenticare la storia di quei popoli e le loro rivendicazioni. Quali sono i termini usati da quei popoli per rivendicare il loro rapporto con il mondo? Così si potrà far uscire la giustizia ecologica dalla sua doppia frattura. Parlare di ecocidio, crea un legame intergenerazionale (parametriamo le nostre azioni alle vite dei nostri figli, assumiamo una responsabilità per il dopo, negoziamo quella dei nostri genitori), ma solo dal punto di vista ambientale, non sociale o politico. Comprendere che le distruzioni sono state rese possibili dallo sfruttamento dei popoli indigeni vuol dire riconoscere la necessità di giustizia per quei popoli, esattamente come si fa chiedendo il risarcimento per la schiavitù.  

Gli attuali decisori politici ed economici hanno tutto l’interesse ad occultare questa dimensione coloniale…

In effetti si deve fare – con una certa urgenza – dell’ecologia una questione relativa al mondo: in che mondo vogliamo vivere? Dobbiamo riconoscere culture e colori, piuttosto che affrontare la questione come gestione ambientale e tecnica. In questo senso parlo di “ecologia decoloniale”.

Questo cambiamento di paradigma somiglia assai ad un cambiamento dell’immaginario. Lei scrive il suo libro con uno stile quasi letterario.

Se mi sono preso delle licenze letterarie è per far sentire le cose, non solo dimostrarle. Gli storici, per essere scientifici, danno cifre che non necessariamente predispongono a elaborare e sentire gli eventi passati. Anteporre nomi ai numeri, ripercorrere le rotte, permette di fare della schiavitù una storia del mondo e della Terra.

“Toccare il mondo” è possibile attraverso valori; l’amore, la giustizia… in particolare se ci si interroga su come “fare mondo” dopo la colonizzazione e la schiavitù, la risposta non possiamo trovarla ognuno nel nostro angoletto. Nel mio libro metto in scena personaggi “in fuga” (nell’impossibilità di incontrare l’altro), personaggi che negano il mondo all’altro, ma parlo anche di chi decide di rimanere a bordo della nave comune, assieme ad altri esseri. Perché siamo nella stessa barca!

Tra gli ecologisti però questa immagine è distorta dalla narrazione dell’Arca di Noè. Michel Serres ad esempio, usa dipinti ed immagini dell’Arca di Noè per proporre una teoria politica dell’ambiente. “Ci chiamiamo tutti Noè”.  È un mito fondativo della società che permette una teorizzazione del rapporto con il mondo.

Ma l’Arca parla di un processo di selezione che io considero violento. Si pone l’enfasi sul processo di imbarco, ma non si sa nulla di ciò che accade a bordo. L’uso politico che se ne fa quindi mi pare problematico.

Per mio conto, scelgo piuttosto di mettere in evidenza la nave negriera, perché se siamo davvero tutti sulla stessa barca, non siamo nelle stesse condizioni. Storicamente, la questione di chi si sarebbe salvato tra le popolazioni nere delle Americhe è dolorosa: si sa benissimo chi sarà salvato e chi abbandonato. Basta guardare al Mediterraneo per capirlo. Ed oggi la tempesta climatica può diventare pretesto per non vivere più assieme agli altri e erigere muri.

Detto ciò, nelle due navi (che siano l’Arca di Noè o la nave negriera) non c’è possibilità di “fare mondo”. Io propongo di immaginare una “nave-mondo” popolata di umani e non-umani, tenendo in conto la storia di ognuno e ognuna. In questa nave non c’è nessuno nelle stive, sono tutti sul ponte. 

*Traduzione a cura di Francesco Martone, si ringrazia Silvia Guzzi per la supervisione. La versione originale dell’intervista è stata pubblicata su Revue Project.

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