Un viaggio fotografico e teatrale dentro i set cinematografici dei film romani di Pasolini.
Lo scorso 4 marzo il chiostro del palazzo di San Galgano dell’Università degli Studi di Siena ha ospitato la mostra fotografica Fuori Contesto-Pasolini e le borgate (qui alcune delle foto in mostra), dedicata a Pier Paolo Pasolini. La mostra è stata ideata e curata dall’associazione culturale Alche Mia e inaugurata dallo spettacolo teatrale È troppo tardi per restare calmi di Paola Bolelli (musiche di Marco Piaggesi, con Paola Bolelli Valentina Bischi, Mariagrazia Bertino, Francesca Sardella e Donatella Trimboli).
Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci
gli uomini imparano bambini
le piccole cose in cui la grandezza
della vita, in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa […]
[…] Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare
esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognuno, era il mondo.
(P. Pasolini, da Pianto di una scavatrice)
La mostra e la performance teatrale sono pensate all’interno di un percorso che, in una suggestiva commistione di linguaggi diversi – fotografia, teatro, danza – guidi il pubblico attraverso alcune delle tappe maggiormente significative dell’opera, soprattutto cinematografica, pasoliniana: il percorso visivo è infatti un vero e proprio viaggio dentro i set cinematografici dei film romani di Pasolini (Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Uccellacci e uccellini), in cui l’orizzonte urbano è quello marginale e degradato delle periferie e i cui volti, rubati alla strada, sono gli unici depositari di quell’innocenza ancestrale e immaginifica che l’uomo contemporaneo, fascistizzato dalla nuova società dei consumi, ha irrimediabilmente perso.
La pièce, tratta da L’ospite sconosciuto di Baudouin de Beudinat, modula invece il disagio esistenziale e la ricerca d’identità in un lungo e intenso monologo a più voci che, riprendendo gli stilemi della lirica monodica greca, è accompagnato dal ritmo sincopato di passi di danza che riproducono l’andamento robotizzato e rigido degli autonomi e dei fantocci. La specularità dei due percorsi, quello visivo-fotografico e quello performativo-teatrale, permette di delineare la duplice modalità in cui si declina uno dei nodi cruciali del pensiero pasoliniano: l’asincronia fra uomo e mondo che, se da una parte trova il proprio orizzonte materiale nella frattura fra periferia e centro, dall’altra fissa il proprio limite esistenziale nella contrapposizione tra vita naturale e vita artificiale.
Innanzitutto, messo in luce dalle immagini d’archivio esposte, è il rapporto con la città di Roma, con le sue borgate, con le sue periferie. Bolognese di nascita ed emiliano di formazione, dopo il ritorno a Casarsa, il paese della madre, Pasolini si trasferisce a Roma (siamo nel ’49), dove vivrà per più di vent’anni alternando fasi di entusiasmo e innamoramento per la città a fasi di progressiva disaffezione. In una celebre intervista rilasciata al «Messaggero» il 9 giugno 1973, così l’intellettuale spiegava il suo rifiuto per la città che tanto aveva celebrato:
Da cinque o sei anni tutto questo [il debito nei confronti della città, ndr] è finito. È finito non tanto per una rottura del rapporto con Roma, quanto per una rottura di rapporti con l’intera società italiana. Se Roma è cambiata, estremamente in peggio, non è colpa della città. La cosa non è nata nella città, ma appartiene ad un fenomeno degenerativo che riguarda tutta la società italiana. […] Finché il protagonista della vita romana era il popolo, Roma è rimasta una metropoli, una metropoli scomposta, disordinata, divisa, frazionata, ma comunque una grande confusa, magmatica metropoli. Nel momento, invece, in cui s’è compiuta l’acculturazione, attraverso soprattutto i mass media, il modello del popolo romano non è più nato da se stesso, dalla propria cultura ma è stato un modello fornito dal centro: e da quel momento Roma è diventata una delle tante piccole città italiane. Piccolo-borghesi, meschine, cattoliche, impastate di inautenticità e nevrosi.
Roma è dunque emblema e prefigurazione dello scontro epocale in atto: il conflitto fra la borghesia “tradizionale”, clerico-fascista e una nuova borghesia edonista che crede nell’immanenza del consumismo che si impone come forma di vita totale, cioè il processo inarrestabile che Pasolini chiama Mutazione antropologica. Un cambiamento di paradigma sociologico prima che politico, culturale prima che economico e che, secondo l’intellettuale, si riflette anche nel tessuto urbano: la vera Roma, quella autentica delle borgate di periferia sta lentamente scomparendo per lasciare il posto a un paesaggio urbano e sociale privo di identità propria; all’allentamento del diaframma fra periferia e centro, che si fa meno evidente all’apparenza, corrisponde il più sottile e infinitamente più drammatico, avanzamento del processo di acculturazione che trasforma «le culture particolari e marginali in una forma di cultura centrale che omologa tutto».
Il diaframma tra centro e periferia diventa così correlativo oggettivo di una precisa soglia esistenziale in una riflessione che, procedendo oltre i confini dello spazio urbano, scava nelle esistenze, indagando le possibilità di esistenza della nostra coscienza, le possibilità di una vita autentica a dispetto dell’inautenticità predicata dal nuovo tipo di umanità, quella della cultura dello spettacolo della metafisica del marketing, di debordiana memoria.
Il nucleo centrale di È troppo tardi per restare calmi (e anche la trovata più originale in termini scenici), che da queste tematiche prende spunto, è consegnato all’intermittenza dei movimenti delle danzatrici-robot-manichini, che ricorda forse la meccanicità dei movimenti di Charlot in Tempi moderni, salvo il fatto che mentre questi ultimi trovavano la propria ragion d’essere nello spazio alienante della catena di montaggio, nello spettacolo di Paola Bolelli i movimenti sono scatti irrelati, il corpo appare soltanto un ingranaggio privo di vitalità e sciolto da qualsiasi fine.
L’inconciliabilità fra due sistemi di forze contrapposte ha sempre rappresentato l’orizzonte di scrittura di Pasolini, l’angolo visuale privilegiato da cui analizzare la società, la politica, la letteratura e si pone come problema cruciale e attuale, oggi come non mai. E tuttavia, pur partendo da una base teorica comune, il testo tratto dall’opera di Baudoin, si discosta sensibilmente da quella pasoliniana: oltre all’evidente scarto temporale che separa i due autori (il francese Baudouin de Bodinat scrive negli anni Novanta del Novecento) la differenza risiede nella postura critica adottata, quella di Pasolini, pur essendo continuamente interrogativa e interrogante, si pone sempre al di fuori della mutazione antropologica, al di fuori dell’incollocabilità esistenziale che ne deriva; la prospettiva che il testo teatrale ci offre è quella del nostro tempo, quella di chi è nato in piena mutazione e che, nella seconda metà degli anni Novanta, ha assistito a un altro cambiamento epocale, ben più radicale di quello che analizzava Pasolini: l’avvento di internet.
Nel turbinio della società contemporanea in cui la vita psichica è veloce, frammentata, discontinua, esplosa, osservare la mutazione dall’interno, nella sua pluralità di prospettive e di possibilità, sembra l’unico modo per raccontarla. Infondo anche noi, direbbe Walter Siti, siamo dei “contagiati”.