Recensione a “Suicidi. Studio sulla condizione umana nella crisi”, a cura di Anna Simone, Mimesis, Milano 2014.
Nient’altro più dei suicidi che hanno costellato, e continuano a costellare, la narrazione della crisi economica che dispiega ininterrottamente i suoi effetti dal 2007 ci offre una scomoda contro-narrazione di un’altra crisi – quella cioè in cui versano tanti soggetti nel nostro tempo. La pubblicazione di un libro collettaneo come quello curato da Anna Simone – la quale si arrischia nel difficile compito di disarticolare l’argomento dalle «trame narrative del sociologismo giornalistico» (p. 9) per restituirlo alla ricerca sociale, volgendo più lo sguardo a Durkheim e a Foucault che all’infotainment o alla psicologia spicciola – è allora quanto mai opportuna: Suicidi. Studio sulla condizione umana nella crisi, pubblicato nella collana “Eterotopie” di Mimesis, è un libro articolato in cinque saggi, ciascuno dei quali analizza il fenomeno del suicidio restituendolo ai luoghi, ai processi, alle tensioni costanti tra le forme tipiche di assoggettamento e soggettivazione dell’epoca neoliberale, da cui esso inderogabilmente proviene.
Tre sono i pilastri di questa ricerca: la circoscrizione della tipologia specifica del “suicidio economico”, prodotto dal clima di sfiducia generalizzata a seguito della crisi che ha investito soprattutto i paesi cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna), ossia i paesi europei con un elevato debito pubblico; la decostruzione della narrazione mediatica e della retorica del tasso suicidario in Italia, costruite a partire «dai meccanismi di “notiziabilità” della doxa, della cosiddetta produzione di opinione pubblica» (p. 9) e che, in particolar modo tra il 2011 e il 2012, ha generato vere e proprie «guerre dei numeri tra istituti di rilevazione dati, nonché allarmi e contro-allarmi sociali» (p. 12); il tentativo di esplorare le «matrici antropologiche» che hanno indotto alcuni lavoratori ad optare per la morte volontaria, «a partire da un campione di 40 storie di suicidi avvenuti in Italia tra il 2012 e il 2013 e raccolte attraverso uno screening quotidiano delle testate nazionali e locali» (ibid.).
È a partire da queste domande di ricerca, pertanto, che si dipanano i vari saggi che compongono il volume. Il saggio di Stefania Ferraro (Fabbriche del suicidio. Lavoro, patologie e “produzione” di morte a Taranto, pp. 29-50), nell’analizzare «il rapporto tra morte e lavoro presso l’Ilva, nel famoso quartiere Tamburi di Taranto» (p. 37), tenta di decostruire «i processi attraverso i quali vengono selezionati i luoghi da adibire a laboratorio privilegiato delle sperimentazioni del capitalismo finanziario, al fine di comprendere cosa possa significare il suicidio rispetto alle logiche di estrazione di valore dall’uomo e dall’ambiente» (ibid.), per poi domandarsi: «il suicidio è un banale errore di percorso di queste sperimentazioni o rappresenta – attraverso la produzione di significato sociale – la messa in discussione delle moderne politiche di gestione del lavoro nel loro essere “macchina sociale”?» (p. 38). Altro luogo emblematico, drammaticamente centrale nella narrazione del suicidio – il Nord-Est d’Italia – è quello analizzato da Caterina Peroni (L’impresa del suicidio. Ascesa e crisi del modello di sviluppo “Nord-Est”, pp. 51-76), la quale descrive bene «la sintesi ontologica tra lo sfruttamento bio-economico e il processo di soggettivazione» dei piccoli e medi imprenditori di questa zona che «nella parabola drammatica di questa crisi economica ed esistenziale, costituiscono il picco massimo ed allo stesso tempo il crollo tragico di un dispositivo»: il dispositivo, cioè, dell’«imprenditore di se stesso come simbolo positivo del soggetto neoliberista per eccellenza, e allo stesso tempo vittima designata del suo stesso paradigma» (p. 52 e s.). Di altro tenore è poi il saggio di Pietro Saitta (Pedagogie dell’annientamento. Carcere e suicidio nell’Italia della crisi, pp. 77-96), il quale sposta l’attenzione dai luoghi di produzione al luogo della detenzione, il carcere, presentato come lo spazio esiziale «di una serie di raccordi storici tra società e sistema penale, volto alla costruzione di un ambiente ostile che vede nel suicidio dei detenuti una possibilità ammessa, se non un particolare modo di comminare la pena capitale, in assenza di un articolato di legge che lo consenta» (p. 78). Il sovraffollamento, la gestione del tempo improntata all’assenza di senso e all’impossibilità di pensare, l’organizzazione dello spazio detentivo che impedisce una propria intimità, i rituali pedagogici di sistematico annientamento e di sistematico arbitrio, sono tutti elementi che sembrano imbastire gli elementi del suicidio nel tempo lento della detenzione, investendo l’istituzione penale del ruolo tanatopolitico di «discarica sociale e di deposito di manodopera in eccesso» (p. 79). Il saggio di Sara Fariello (Quando il futuro fa più paura della morte. Precarietà e suicidio nel mezzogiorno d’Italia, pp. 97-110), infine, mette in relazione «il fenomeno suicidario con l’inasprimento delle condizioni di vita prodotte dalla crisi occupazionale ed economica e, nello specifico, la condizione dei lavoratori immateriali nel mezzogiorno» (p. 97), soffermandosi, tra le altre storie, su quella di Norman Zarcone, dottorando ventisettenne in Filosofia del linguaggio che decise di suicidarsi lanciandosi dal settimo piano della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, nel novembre del 2010. Norman aveva intuito che per lui non ci sarebbe stata alcuna carriera accademica: si sentiva «ostracizzato, isolato e marginalizzato: il padre e gli amici raccontano che spesso venivano smarriti i capitoli della sua tesi di dottorato, che non veniva convocato alle consuete riunioni di coordinamento, che percepiva sempre più forte un clima di tensione e sospetto nei suoi confronti» (p. 103). L’annotazione di una riflessione filosofica sul suo diario, poco prima di compiere il salto: «Esistono due libertà incondizionate: la libertà di pensiero e la libertà di morire, che è la stessa di vivere» (p. 104).
Appare evidente, pertanto, che l’oggetto di indagine di questo libro sia il suicidio come «fatto sociale», per usare la celebre definizione durkheimiana, e che le autrici e gli autori del volume lo analizzino in termini radicali, a partire da «ciò che può indurre gli attori sociali a scegliere la morte volontaria, ovvero quell’insieme di contingenze politiche, economiche, giuridiche e sociali che ci portano a considerare il suicidio come un fatto sociale e non come un mero fatto individuale» (p. 11). È allo stesso modo evidente, di conseguenza, che da questa prospettiva di analisi appaiano fuori squadra quelle chiavi interpretative di matrice psicologica e psichiatrica che, dall’opera pionieristica di Durkheim (Le suicide: étude de sociologie, 1897) e nel silenzio assordante di larghi strati delle scienze sociali, hanno pressoché monopolizzato l’argomento, in modo, va detto, del tutto funzionale alle politiche postfordiste, prima, e a quelle neoliberali, poi. Se infatti il suicidio è l’atto esiziale di un problema “psichico”, ciò significa che le sue cause devono essere ricercate nei recessi dell’interiorità individuale; ma ciò che significa, soprattutto, è che queste cause resteranno per larga parte insondabili e indecidibili. In altri termini, significa che la colpa non è di nessuno, che la responsabilità sia da imputare esclusivamente a chi “sceglie” “liberamente” di farla finita.
Come osserva bene Ferraro in conclusione del suo saggio, «quando l’ordine discorsivo rinvia il suicidio alla patologia mentale e lo investe di significati prodotti attraverso la tecnica della psichiatria, persegue il preciso scopo di combatterne la produzione di significato, occultando la trascendenza che la riflessione sul suicidio inevitabilmente comporta» (p. 50). Ma, d’altronde, non era stata proprio Margaret Thatcher a veicolare a mo’ di slogan ciò che in modo decisamente più concreto ispirava le politiche economiche e industriali ascrivibili all’epoca di cui è stata indiscussa protagonista e di cui nel libro curato da Simone si restituiscono gli effetti di lungo periodo? «Non esiste una cosa chiamata società; esistono solo gli individui», sosteneva Thatcher. Al manicheismo di questa sempreverde filosofia politica (ammesso che una filosofia intrisa a questo punto di cristianesimo possa anche essere “politica”), la cui slealtà attiene più i suoi incalcolabili effetti performativi che non la sua discutibilità in termini puramente descrittivi o teorici, Simone (che firma il denso saggio iniziale, Il negativo della crisi. Suicidio, anomia, dismisura e désaffiliation, pp. 11-28) contrappone invece l’idea secondo cui la società esista eccome, benché ciò non significhi affatto negare l’esistenza degli individui, o, per dirla più precisamente, di quella dimensione individuale che è la psiche: ciò che la sociologa difende e ribadisce, piuttosto, è quella tesi secondo cui «la violenza della regolamentazione sociale non risiede tanto nella sua azione unilaterale, quanto nel contorto percorso seguito dalla psiche nell’auto-accusarsi di poco valore», se volessimo usare le efficaci parole di Judith Butler ne La vita psichica del potere; è, in altre parole, ma in fondo le stesse, «la tesi secondo cui le nevrosi, le ansie, le paure, le colpe, il senso di fallimento, la disperazione, siano esse stesse intrinsecamente legate alle condizioni di salute di un sistema economico, giuridico e sociale, ovvero alla stessa condizione materiale che una crisi di sistema riflette sugli attori sociali» (p. 12).
La crisi di sistema, chiaramente, è quella che si protrae lentamente da circa quarant’anni e che si è acuita drammaticamente negli ultimi cinque – la crisi cioè dello stato sociale, autentico e controverso Panopticon di inclusione e di controllo centrato sul lavoro salariato, sull’esigibilità dei diritti sociali e sul tempo libero dal lavoro. Crisi che ha prodotto a sua volta una soggettività irretita tra forme di assoggettamento che derivano tanto dal debito pubblico (l’«antropologia dell’uomo indebitato» di cui ci parla già Maurizio Lazzarato), quanto dalla messa in produzione intensiva (il già citato «imprenditore di se stesso»), dallo sfaldamento del «nesso lavoro/dignità/identità» e dal dispiegarsi del «nesso micidiale che intercorre tra debito, colpa e fallimento» (p. 24). Elementi, questi, in stretta connessione tra loro, che di fatto hanno annullato qualunque distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero (oltre che tra lavoro e reddito): come nota Simone, infatti, «1) chi ha rischiato mettendosi in proprio fa coincidere il fallimento della sua azienda con quello della sua stessa vita; 2) chi fa lavori precari mette a disposizione la propria vita 24 ore su 24 nel cercare continuamente altri lavori e vivendo nel ricatto permanente; 3) molte forme di lavoro immateriale richiedono attenzione, cognitività, coinvolgimenti affettivi e psichici tali per cui si è sempre al lavoro (si pensi alla comunicazione permanente dei dispositivi digitali che pervade le nostre vite); 4) la cura stessa è divenuta lavoro e progetto di vita (si pensi soprattutto alle esperienze di donne migranti che rimettono in gioco le loro biografie muovendosi da un luogo all’altro per fare le colf e le badanti)» (p. 22).
La vita stessa, in altri termini, è attualmente nella fase della sussunzione totale. Alcuni ce la fanno, resistono a questo incubo totalitario sfruttando le tante possibilità di soggettivazione offerte dai modelli egemonici di soggettività improntati alla «dismisura compulsiva, alienata, fondata sull’accumulazione e sul godimento perverso, su una forma di libertà illimitata a sua volta incapace di de-mercificare la relazione sociale, così come il proprio stile di vita» (p. 23). Altri no, non ce la fanno, per tanti motivi. Che la libertà di morire costituisca allora uno dei pochi modi di sottrarsi all’incubo, «una drammatica possibilità extragiuridica, ma non extrapolitica, di autoproduzione di significato» (p. 50) è un assunto filosofico che esibisce elementi di drammatica attendibilità; che la libertà di morire sia anche «incondizionata», come annotò Norman Zarcone, è invece un assunto filosofico intriso di quella retorica che permea e incoraggia le forme di dominio contemporanee, la cui riproduzione può contare proprio sulla cooperazione dei suoi dominati, dei suoi subalterni. È pertanto un assunto che dobbiamo decostruire – e questo lavoro non può più farlo Zarcone, ma è consegnato ai tanti e alle tante che già lo fanno, ai tanti e alle tante che da prospettive molteplici e dai molteplici punti dello spazio sociale questionano radicalmente la propria crisi mettendo di volta in volta in crisi i vari dispositivi di assoggettamento, dicendo, foucaultianamente, la verità sul potere, e in questo senso il libro curato – e voluto – da Anna Simone costituisce un ottimo esempio.