(Du)champ politique

 Esercizi di fusione tra arte e vita.

duchamp politico

Se Marcel Duchamp occupa una posizione di assoluto rilievo nell’ambito della storia dell’arte e della cultura dell’età contemporanea, vi sono però stati alcuni precisi momenti storici in cui ciò è risultato particolarmente evidente. Oltre che nell’ambito delle Neoavanguardie artistiche del Secondo Novecento, la sua lezione è risultata particolarmente importante tra le culture antagoniste di fine anni Settanta.

L’uscita negli ultimi tempi di alcuni studi importanti sulla figura di Duchamp attesta, almeno in Italia, un rinnovato interesse nei suoi confronti. Tra le recenti pubblicazioni dedicate al francese occorre segnalare, per originalità, il pamphlet di Pablo Echaurren, Duchamp politique (Postmedia, 2019) e il voluminoso libro di Marco Senaldi, La scienza dell’arte (Meltemi, 2019). A questi studi si debbono aggiungere alcuni recenti lavori curati da Raffaella Perna che  hanno messo in luce l’influenza esercitata dal francese all’interno del cosiddetto “movimento del ’77” non solo perché, sottolinea la studiosa, Duchamp ha messo in discussione l’ordine del linguaggio, ma anche per il suo essersi sottratto alle logiche di valorizzazione economica dell’opera e per aver «concepito il “rifiuto del lavoro” (anche artistico) e l’azione oziosa come strade che aprono nuove possibilità di senso, capaci di produrre altre soggettività e modi diversi di “abitare il tempo”».1

Il fenomeno dadaista ha inteso contestare sin dai suoi aspetti ideologici il meccanomorfismo cubo-futurista. Da repertorio formale positivo da cui attingere acriticamente ispirazioni stilistico-concettuali, l’universo delle macchine diviene per i dadaisti un universo da cui derivare componenti utilizzate con finalità irrisorio-contestatarie: all’utilitarismo viene contrapposto il puro divertimento, la liberazione delle forze irreggimentate, il ritorno al principio di piacere che regola i meccanismi inconsci.

Se alcune Avanguardie storiche hanno inteso ricostruire la natura sul modello delle macchine, in Duchamp, invece, a partire dai primi anni Dieci del Novecento, tale volontà di emulazione sembra cadere: le macchine e gli oggetti da esse derivati non sono più modelli a cui rifarsi per costruire qualcosa di nuovo. È soprattutto da tali convinzioni che nasce il ricorso al ready made: oggetti comuni, a volte leggermente modificati, presentati come opere d’arte. Privati della loro funzione pratica originaria, tali oggetti diventano improduttivi: da qui la definizione di “macchine celibi” in quanto l’attività ludica fine a se stessa di questi macchinari rimanderebbe al soddisfacimento sessuale improduttivo per eccellenza, alla masturbazione. 

La questione dell’improduttività teorizzata e praticata dall’artista francese è al centro del pamphlet di Pablo Echaurren, interessato ad approfondire il Duchamp politico (Du champ politique) capace, come pochi, di  comprendere come una volta affrancatosi dalla sudditanza a papi e sovrani, l’artista contemporaneo si ritrovi  ostaggio del sistema economico. Da qua l’intenzione del francese di “entrare in clandestinità”, di evitare di integrarsi al sistema. Il ricorso al ready-made può allora essere inteso come volontà di negarsi in quanto artista e di proporsi come una sorta di “hobbista”: in antitesi alle leggi del mercato, Duchamp preferisce trasmettere un senso di “tranquillità emotiva”, di “abbandono di ogni competitività”, invitando a “operare con lentezza” in modo che inceppare la logica della produzione e del  mercato.

L’ozio di Duchamp è una forma elaborata di rifiuto del lavoro e di rigetto della società capitalistica. L’ozio, il silenzio, l’appartarsi dalla scena, il rifugiarsi negli scacchi, sono le varie facce di una rivolta pacifica contro l’accumulazione (di cose, di denaro, di potere, di opere d’arte) […] Tale strenua difesa dell’inoperosità, proprio come in Paul Lafargue (di cui Duchamp dice di condividere le idee), non è fine a se stessa, coincide in pieno con la critica di un modus operandi, di un amore per il lavoro (che agli occhi di Duchamp è sempre “travaux forcés”) che ha contagiato anche il campo artistico. Per Duchamp l’artista è ormai pienamente compromesso con i processi di ottimizzazione tayloristi, privo di tempi morti, di pause, sottomesso al dio denaro (P. Echaurren, Duchamp politique, p. 25).

Il ricorso al ready-made, secondo Echaurren, esprime al meglio il Duchamp politico: il ready-made sarebbe da intendersi come simbolo e denuncia dello stato di scissione in cui versa una società basata sull’adorazione «del capitale cristallizzato, dei suoi prodotti spossessati di ogni reale funzione e dell’arte che, a sua volta, subisce lo stesso identico trattamento di astrazione» (Ivi, p. 26). La politicità di Duchamp sarebbe allora da ricercare nella condotta intransigente da lui mantenuta nonostante l’affannoso tentativo del sistema dell’arte di disinnescare la portata eversiva del suo operare al fine di recuperarlo museificandolo. Echaurren chiude il suo pamphlet ricordando come all’interno del movimento del 1977 si volesse “usare Duchamp” come uno strumento politico, servirsi di lui per rimodellare il linguaggio al fine di sancire la morte dell’arte realizzandola nella vita quotidiana.

Lo studio proposto da Marco Senaldi è invece incentrato sul legame tra l’opera di Duchamp, l’estetica sperimentale e la ricerca psicofisiologica. Lo studioso è convinto che nel corso del tempo l’enfasi riservata al ready-made come opera fisica (quando si è voluto vedere nel francese un ispiratore delle poetiche concettuali) o mentale (nel momento in cui lo si è voluto apparentare alle poetiche dell’oggetto) ha finito col circoscrivere la portata della produzione artistica duchampiana. I ready-made, sottolinea Senaldi, sono stati spesso diffusi dall’artista attraverso “mezzi mediali”, dunque si può parlare più di “immagini” che non di “oggetti concettualizzati” o “concetti materializzati”. Riprendendo riflessioni di Gilles Deleuze ed Henri Bergson, Senaldi segnala come le “opere” siano “ideo-motrici”, cioè in grado di produrre una reazione nello spettatore. Diverse “opere” duchampiane

Non si incarnano né nella materialità di un oggetto nel senso ordinario della parola (oggetti già esistenti, sculture, ecc.), né si intrattengono in una regione puramente concettuale e smaterializzata (parole, numeri, progetti, ecc.). Questo genere include le interazioni mediali di Duchamp e, in particolare, il suo rapporto con il cinema […] e le sue apparizioni televisive, durante un arco temporale che va dagli anni Quaranta agli anni Sessanta» (M. Senaldi, Duchamp. La scienza dell’arte, pp. 18-19).

E se tale ambito della produzione duchampiana, sostiene lo studioso, è stato sino ad ora decisamente sottovalutato, ciò è probabilmente dovuto alla sovrastima del lato “oggettuale” o “concettuale” del ready-made.

L’obiettivo che si pone Senaldi è dunque quello di passare in rassegna l’intero percorso duchampiano al fine di evidenziarne l’aspetto sia dinamico-cinematico che mediatico. L’intera opera di Duchamp ha, in una certa misura, a che fare con la nozione di “immagine dinamogena”, pertanto lo studioso ricolloca la ricerca artistica duchampiana nel contesto della ricerca psicofisiologica sulla percezione del movimento al fine di evidenziare le fonti da il francese potrebbe aver attinto nell’ambito della fisiologia e della cosiddetta “estetica scientifica o sperimentale” a cavallo Otto e Novecento.

Sebbene non manchino studi sul rapporto tra arte d’avanguardia e psicofisiologia del XIX secolo, il rapporto tra Duchamp e fisiologia, psicologia sperimentale ed estetica scientifica è di tipo particolare:

Duchamp non usa le scoperte della psicologia della percezione per produrre dipinti con tecniche tratte dalla psicofisiologia, ma ancorati al valore della rappresentazione tradizionale; egli usa i dispositivi o le pratiche di laboratorio direttamente come un’opera d’arte e, di conseguenza, trasforma la nozione di opera d’arte da oggetto contemplativo immobile a test dinamico e ideo-motorio. Questo gesto radicale sovverte anche il senso generale dell’Arte, trasformandola da un’attività individualista dedita alla ricerca della bella forma, a un esperimento psicologico intersoggettivo il cui scopo è la liberazione da ogni stereotipo visuale, e anche esistenziale» (Ivi, p. 23).

Nel corso della trattazione, dopo essersi soffermato sull’immagine in movimento nell’arte duchampiana rileggendo in senso dinamogeno alcune sue proposte come Ruota di bicicletta (1913), Senaldi riflettere sulla questione della ideomotricità delle immagini nelle sue opere motorizzate (le sculture rotative), per poi affrontare il rapporto dell’artista con diverse opere filmiche, più o meno portate a compimento. Secondo lo studioso un ruolo fondamentale in tale direzione spetta all’incontro di Duchamp con il linguaggio televisivo che, oltre a permettergli di documentare retrospettivamente l’intera sua opera, riesce a perseguire una fusione mediale del “piano estetico” con il “livello esistenziale”. Quella del francese è pertanto, secondo lo studioso, la prima vera estetica radicalmente intersoggettiva e inter-esistenziale capace di trasformare l’“opera” da “oggetto d’arte” in “condotta di vita”.  

Pur diversi nell’impostazione e nel tipo di ricerca, tanto Echaurren, quanto Senaldi, insistono sulla coerenza radicale del progetto duchampiano di fondere arte e vita e se il primo si sofferma soprattutto sulla volontà del francese di sottrarsi alla deriva alienante e mercantile intrapresa dall’arte contemporanea, il secondo approfondisce il suo riconsiderare la questione dell’arte contemporanea come “impresa diffusa di psicotecnica sociale”. Leggendo i lavori di Echaurren e di Senaldi, tornano alla mente le lontane riflessioni di Maurizio Calvesi2 quando, in una serie scritti stesi a ridosso dell’esplosione del ’77, riflettendo sul recupero e sul riutilizzo dei linguaggi delle Prime e delle Seconde avanguardie novecentesche da parte dei gruppi giovanili contestatari, notava come collage, détournement ed happening fossero diventati pratiche di sovversione del linguaggio egemonico e strumenti dell’azione politica con cui una parte importante del movimento del ’77 sferrava il suo attacco all’immaginario dominante.

Si diceva in apertura come in alcuni momenti storici il pensiero e la prassi di Duchamp abbiano influito in maniera rilevante sui tempi. Ebbene, in quel roboante scorcio di anni Settanta la sperimentazione artistica ha saputo realmente fuoriuscire dagli atelier di un’avanguardia ristretta per divenire patrimonio condiviso da quella moltitudine di studenti, giovani lavoratori precari e proletari scolarizzati che componevano l’eterogeneo movimento del ’77 determinando la nascita di una reale “avanguardia di massa”. La recente ripresa d’interesse nei confronti di Duchamp ha sicuramente anche il merito di rivedere quegli anni al di là dei luoghi comuni che li vorrebbero esclusivamente di piombo.  

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Pablo Echaurren (Fonte: il Giornale Off)

 

 

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Note

  1. R. Perna, Pablo Echaurren. Il movimento del ’77 e gli indiani metropolitani, Postmedia Books, Milano, 2016, p. 78. Si vedano inoltre la postfazione scritta da Raffaella Perna al volume M. Calvesi, Avanguardia di massa. Compaiono gli indiani metropolitani, Postmedia Books, Milano, 2018, riproposto a distanza di quarant’anni dalla sua uscita nel 1978 all’interno della collana diretta dalla stessa Perna Quaderni della Fondazione Echaurren Salaris.
  2. M. Calvesi, Avanguardia di massa, Feltrinelli, Milano, 1978. Opera rieditata recentemente a cura di R. Perna: M. Calvesi, Avanguardia di massa. Compaiono gli indiani metropolitani, op. cit
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