Don Lorenzo Milani di traverso e per immagini

Il 26 giugno del 1967 si spegneva don Lorenzo Milani, grande regista dell’esperienza pedagogica di Barbiana. Fra tardive apologie delle gerarchie ecclesiastiche e capziose critiche alla sua figura, una riflessione sul senso della sua rivoluzione culturale per il contemporaneo.

C’è chi lo vorrebbe santo, chi lo ritiene ancora pietra dello scandalo, chi gli rimprovera tutti i mali della scuola contemporanea e chi invece gli attribuisce la virtuosa responsabilità di tutti i successi scolastici. Cinquant’anni sono passati dalla sua dipartita eppure don Lorenzo Milani è ancora al centro del dibattito: nelle pagine, nelle discussioni spesso accese, nelle opinioni ma soprattutto nelle parole di chi si occupa di scuola, un po’ meno in quelle di chi la fa, di chi la pratica quotidianamente. Ha senso dunque forse chiedersi, a cinquant’anni di distanza e con l’opera completa fra le mani, qual è il senso per l’oggi dell’insegnamento di don Milani. Val la pena chiedersi cosa significa ritornare a don Milani. Senza feticismi di sorta ma senza sconti per chi, anacronisticamente, è colpito dall’intransigenza evangelica del suo operato e oggi lo rilegge come eresiarca del “donmilanismo”, di un’ideologia lassista e sgangheratamente egalitarista che avrebbe fatto carne da porco della scuola appartenuta ai bei tempi andati.

Don Milani giustificava la centralità del fare scuola nella propria vita pastorale con un’esigenza fondamentale: il bisogno di farsi capire dai propri parrocchiani nella predicazione della parola del Vangelo. Avvertiva cioè nei discorsi lunghi e complessi, fatti dal pulpito, una forma di raggiro, un ostacolo tra sé e i propri parrocchiani, tra i propri parrocchiani e la pienezza di una vita aperta al mondo. E tuttavia non volle per questo abbassare la sintassi dell’esegesi evangelica a quella “lingua che non esiste” che è il discorso meramente funzionale della soddisfazione del bisogno, quello della compravendita dei polli al mercato di Vicchio. Decise allora che avrebbe aiutato i poveri, i figli dei contadini e dei montanari, ad innalzare il proprio modo di comunicare. Che dal superamento di questo ostacolo, dell’ostacolo della lingua, sarebbe cominciata la scuola, sarebbe cominciato il riscatto del mondo. Questo avrebbe significato, per i bambini e i ragazzi di Barbiana, l’inizio di un lavoro di scavo, di miniera, alla ricerca delle parole che vanno più a fondo nelle pieghe delle ingiustizie e delle contraddizioni contemporanee. Avrebbe significato, per quei bambini e quei ragazzi, diventare consapevoli delle locuzioni dantesche che fino a quel momento inconsapevolmente avevano utilizzato. Avrebbe significato mettere in difficoltà dialettica il figlio del farmacista, del notaio, dell’avvocato, del medico e del professore. E infine avrebbe significato muovere scacco ai loro genitori, e ai padroni dei loro genitori. Andarsene e insegnare ad altri la ricerca delle parole operanti, e insieme a questi cercare le contraddizioni del mondo.

Leggo da una forbita critica del “donmilanismo” nelle nostre scuole, che le rivendicazioni della Lettera a una professoressa avrebbero causato la peggiore svendita al ribasso del nostro sistema d’istruzione «dalla sostituzione delle vecchie inutili materiale letterarie (a partire dalla inutilissima storia antica e dalla perfida poesia dei classici) con l’educazione civica e la storia di oggi; dalla cacciata della grammatica intesa come strumento d’oppressione all’abolizione di ogni forma di giudizio che distingua fra i più bravi e i meno bravi; dalla soppressione de iure o de facto della bocciatura – di ogni bocciatura – all’adeguamento del sistema educativo al passo dei più lenti» (L. Tomasin, Io sto con la professoressa, da «Domenica» de «Il Sole 24 Ore», n. 56 del 26 febbraio 2017).

Checché se ne dica o scriva oggi, la ricerca della parola che va più a fondo significò invece per i ragazzi di Barbiana un lavoro più duro e motivato dei loro coetanei delle scuole di città. Non di certo un abbandono della grammatica e delle sue auree regole, non un abbassamento della lingua alle loro basse e materiali esigenze, ma una fatica doppia, tripla, vibrante verso l’alto. Significò sforzo e anche bocciature. Come scriveva lo stesso don Milani in una lettera ad un insegnante, negli Istituti Magistrali dove i suoi amati Gianni erano andati a farsi bocciare, forse anche deridere, dalle professoresse: «Il modo di scrivere che gli ho insegnato io là è considerato scarno e poi col tipo di temi che ricevono non sono capaci di scrivere perché considerano il tema una farsa, una cosa convenzionale. Qui erano abituati solo quando occorreva scrivere e mai come esercitazione» (Lettera ad Adriano Andruetto e ai ragazzi della III C del 7 dicembre 1965, in Tutte le opere, tomo II, p. 1210). Una scuola dura, dell’impegno e del desiderio di impegnarsi, fatta per soddisfare chi ha ansia di uscire dall’inferiorità sociale cui l’assenza di istruzione condanna, come chi oggi figura numero nelle statistiche sulla dispersione scolastica e domani sarà sfruttato, indifeso, ricattabile. Una scuola dunque, quella della parola operante e concreta, in cui non esiste nessuna ricreazione, in cui non si ha rispetto del divertimento, della distrazione. Una scuola a noi vicina e lontana.

Vicina, perché le stesse disuguaglianze ritornano e mentre la classe docente si lambicca il cervello e scribacchia schermi con il vuoto pneumatico delle idee senza parole della vulgata pedagogica dominante – imparare ad imparare, quadro delle competenze, lifelong learning – la selezione classista dei destini individuali rialza la cresta, si fa sistematica, si insinua con strumenti nuovi in meccanismi vecchi come le ripetizioni, opera a monte sulle scelte dei percorsi d’istruzione e della presenza sul territorio degli istituti scolastici. Una scuola di classe ritorna, una scuola che insegna il valore della cultura come impresa di promozione individuale. Don Lorenzo Milani contestò strenuamente un’idea di scuola pubblica come somma algebrica dei figli dei privilegiati e dei benestanti, più i figli dei diseredati, più il doposcuola (per chi se lo poteva permettere): una scuola che recepiva passivamente le differenze di classe mascherandole con l’ipocrita veste dell’uguaglianza delle condizioni di partenza, dei diritti e dei doveri.

Ma forse il pergolato di Barbiana è troppo lontano da noi, dalla pasta di cui son fatti oggi bambini e bambine, ragazze e ragazzi, giovani adulti in un mondo che ha perso l’uso di ripartire la vita in età e in cui tutte le vacche sono nere. Primo, perché quel desiderio di scuola, che poi era desiderio di riscatto appartenuto ai ragazzi delle innumerevoli Barbiane d’Italia, è oggi perso nel caleidoscopio di ricreazioni che bambini e bambine respirano da subito, con il luccicante richiamo degli schermi colorati dei loro popolari device. Secondo, perché la scuola che don Milani contestava e trasformava era una scuola logocentrica, appassionata di etimologie e di genealogie d’eroi classici, di manuali fitti d’istruzioni, di forme retoriche e belle figurine patriottiche. E logocentrici erano gli alunni e le alunne che la frequentavano, convinti tutti come il sofista Trasimaco che il discorso del più forte, il discorso del vincitore, fosse il discorso migliore. Oggi, che siamo tutti livellati sul consumo coatto delle stesse immagini, dagli orrori della cronaca alle serie TV, bisognerebbe forse ripensare quello scavo a fondo, quell’impresa collettiva che è la cultura, nella miniera delle immagini. Per permettere loro di appropriarsi della rappresentazione più forte, bisogna ritornarsi a porsi le domande di don Milani e a riorientarle sul contemporaneo:

Io ho queste persone davanti: cos’è il loro bene e cosa posso fare per loro? Il massimo d’istruzione, il massimo di capacità umana, di linguaggi, di possedimento ed il mezzo di espressione da poter intendere il più possibile, da poter spiegare il più possibile. («Incontro con i direttori didattici» a Palazzo Vecchio del 3 gennaio 1962, in Tutte le opere, tomo I, p. 1181).

Un don Lorenzo Milani di traverso e per immagini ci vorrebbe oggi. Non meno serio e intransigente di come i suoi detrattori, passati e contemporanei, lo dipingevano e lo dipingono. Un don Milani che ci faccia di nuovo vibrare di passione missionaria, di rispetto per tutte le periferie, per chi le abita e per «la montagna con i suoi secoli di oppressione e sofferenza, lo scrivere scarno e senza fantasia».  

 

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