Do You Remember What You Are Burning?

La geopolitica dal basso di Hiwa K

Su uno schermo, un prete benedice la campana con parole di pace, mentre sull’altro, ci sono le immagini di aerei da bombardamento, The Bell Project (2014-2015) (foto dell’autrice)

Le opere della mostra Do You Remember What You Are Burning? dell’artista curdo-iracheno Hiwa K sono collegate tra di loro attraverso la ricorrenza di alcuni temi – la migrazione, la guerra e una disanima dal basso, insieme impietosa e piena di humour, della globalizzazione – presentati attraverso l’uso di varie tecniche multimediali, da video a installazioni di opere fatte con cucchiai, mestoli, legno, ferro e metalli vari. L’artista offre alcune griglie di lettura per orientarci nella comprensione della sua opera: la questione della prospettiva (l’alto, il basso, il periferico, ciò che è centrale, e perché) e la presenza, costante, di metalli che non solo l’artista usa per lavorare, ma anche per dirci come la globalizzazione appare se vista da prospettive inusuali, tra le quali la sua.

Ad esempio, nell’opera The Bell Project (2014-2015), realizzata tra Suleymanyeh, nel Kurdistan iracheno, e l’Italia ed esposta per la prima volta alla Biennale di Venezia nel 2015, seguiamo Nazhad, che commercia in metallo e che fu menomato da una mina italiana, mentre raccoglie e smista i resti di armi, aerei da guerra, carrarmati. Nazhad riconosce ogni pezzo, sa a quale esercito apparteneva, sa da dove proviene il metallo, sa dove l’arma è stata assemblata e infine, sa in quale guerra è stata usata (la guerra Iraq-Iran del 1980-1988, l’attacco statunitense del 1991, varie incursioni militari governative nel Kurdistan iracheno, l’attacco statunitense del 2003 o i successivi conflitti, fino ad arrivare all’offensiva contro lo stato islamico). Ascoltando Nazhad, l’artista traccia il corso della vita e l’afterlife di questi metalli che, dopo essere stati lavorati e usati nei conflitti, ora sono rimessi in circolo in un mercato parallelo a quegli stessi conflitti. Ogni metallo ha infatti un prezzo e una sua commerciabilità, a seconda della reperibilità, di quale gas era in grado di contenere e a seconda della letalità di quei gas, e infine, a seconda della facilità con cui si può smaltire o riutilizzare. Gli interessi nazionali, gli eserciti, le decisioni prese a Ginevra dall’ONU passano da qui, dal capannone di Nazhad. Si tratta di una geopolitica dal basso e totalmente materiale, radicata in questi metalli e nella loro circolazione; ed è proprio seguendo i metalli usati da Hiwa K per il suo progetto The Bell che approdiamo in Italia, dove la campana è stata prodotta. Recuperato da Nazhad e poi fuso in un’officina in Iraq, in Italia quel materiale di guerra diventa uno strumento la cui funzione è legata alla vita comunitaria, di cui scandisce tempi e rituali. Le contraddizioni però continuano ad accompagnare il progetto: se il metallo fa il ‘giro completo’ (da metallo inerte convertito in armi, viene poi riconvertito in un oggetto ad uso civile, persino benedetto da un prete con invocazioni di pace e armonia), lo fa in un laboratorio artigianale in Italia dove si sono prodotte anche armi e bombe usate nelle guerre dei secoli scorsi.

Hiwa K ci racconta la geopolitica attraverso storie vernacolari, legate personaggi che si sono trovati ‘nel mezzo’ di conflitti e con un senso dell’umorismo molto peculiare. Qatees (2009, parte di un’opera più ampia, Montadar, che racconta la guerra Iran-Iraq attraverso la storia di quattro uomini) ci parla di Abbas, curdo iracheno disertore della guerra Iran-Iraq ed esperto costruttore di antenne, attraverso fotografie, video e installazioni. Lo scopo di Abbas era quello di ricevere notizie circa l’andamento del conflitto sia da parte iraniana che irachena. Gli iraniani infatti parlavano solo delle proprie vittorie e lo stesso facevano gli iracheni. Abbas era così ‘nel mezzo’ del conflitto, posizione da cui non aveva accesso a un’informazione completa, cosa possibile solo con un ricettore indipendente. Costretto dalle circostanze, Abbas divenne abile nel costruire antenne con materiale di fortuna (cucchiai, utensili da cucina, nichel, fili di rame) per captare le notizie da entrambe le parti. Nell’opera My Father’s Colour Period (2013), Hiwa K ci racconta dei conflitti interni ed esterni dell’Iraq attraverso un aneddoto familiare. Con il prolungarsi della guerra tra Iraq e Iran, il governo iracheno introdusse la televisione a colori per permettere alle famiglie irachene di seguire meglio la guerra e, con questa, la propaganda di regime circa l’imminente sconfitta degli iraniani. L’artista racconta che, tuttavia, nelle aree curde del paese, tale tecnologia non era disponibile. Il padre di Hiwa K allora, offeso ma allo stesso tempo determinato a godere della TV a colori, applicava delle veline colorate allo schermo che cambiava con cadenza settimanale. Era come se la TV prendesse vita, scrive l’autore[1], creando nuovi personaggi che vivevano tra le veline colorate e le immagini trasmesse sullo schermo. L’artista segue le tracce degli sconvolgimenti politici e geopolitici vissuti (la rivoluzione in Iran, la guerra, il sistematico esproprio di risorse e dell’accesso ad esse riservato alla popolazione curda) attraverso storie familiari e particolari che ci fanno riflettere su storie molto più grandi.

My Father’s Colour Period (foto dell’autrice)

La determinazione di Hiwa K nel raccontarci di guerre, geopolitica e globalizzazione attraverso metalli, aneddoti, corsi e ricorsi storici è fondata sull’onnipresenza nella sua opera di una riflessione su cosa sia il ‘basso’ e cosa sia ‘l’alto’. La questione della prospettiva è, infatti, centrale in tutto suo lavoro e struttura non solo la percezione del mondo di fuori, ma anche l’auto-percezione dell’artista stesso.Nell’installazione video Pre-Image (Blind as the Mother Tongue) del 2017, l’artista ripercorre il tragitto che completò a piedi 25 anni prima, dal Kurdistan iracheno all’ Italia. Hiwa K cammina per migliaia di chilometri con, in equilibrio sul naso, un tubo a cui sono saldati alcuni specchietti retrovisori ricavati da una motocicletta. Gli specchi riflettono il basso. A volte riprendendo l’asfalto della strada, altre volte pezzi del viso dell’artista. Lo sguardo dell’artista è però rivolto verso l’alto, verso il cielo; ma anche Hiwa K guardasse il cielo, forse nel tentativo di elevare lo sguardo dal grigio dell’asfalto o dal proprio viso, gli specchi lo ancorerebbero al basso, riportando di lui e di quello che lo circonda un’immagine frammentata, mai completa, proprio come lo è la materia finita degli specchi in quanto oggetti che restituiscono una visione necessariamente parziale della realtà. L’opera è pervasa da un senso di disorientamento, mentre vediamo Hiwa K attraversare confini, ponti, campi agricoli e zone industriali. Il suo viaggio e lo spaesamento restituito dall’opera ricordano gli stessi sentimenti provati dagli schiavi rapiti nel continente africano e portati in America attraverso l’Atlantico. Stephanie E. Smallwood, nel suo Saltwater Slavery, ci restituisce tale, profondissimo senso di smarrimento raccontandoci di come fossero i sensi primordiali quali il gusto – l’acqua salata dell’oceano Atlantico – i soli a poter restituire loro un qualche radicamento nella realtà. Imbarcatosi clandestinamente sulla nave che lo porterà dalla Grecia in Italia, dopo essere stato nascosto in un camion parcheggiato al porto per diversi giorni, l’artista vive nel buio e ci parla del terrore di non sapere più dove ci si trovi, di che giorno o che ora del giorno sia, di dove si sia diretti, e di come persino il suo stomaco abbia smesso di restituirgli un qualche senso di normalità – la normalità della fame. Il viaggio di Hiwa K, come il Middle Passage, ci ricordano che lo sradicamento, la confusione, lo smarrimento sono stati di animo fortemente politici e che sono cruciali per la produzione, materiale oltre che geografica, degli stati nazione. Il basso e l’alto sono assi di lettura centrali anche per un’altra opera video, View From Above (2017). In essa, si completa la sovrapposizione tra la dimensione politica e geografica dell’alto e del basso. Nel video, si racconta la storia di M, un uomo residente in un paese europeo che presto dovrà incontrare il commissario che deciderà sulla sua richiesta di asilo. M è preoccupato perché la città da dove proviene è stata dichiarata safe zone dall’ONU. ‘La safe zone è fittizia’, ci avverte Hiwa K, ‘essa esiste solo nella mente dei burocrati europei’[2]. Dovendosi adeguare, M decide di dire che la sua provenienza è un’altra città, J, posta al di fuori della safe zone, che lui conosce perché era la città di sua madre. Di J, M ora deve imparare la geografia dall’alto. M infatti conosce J dal basso, avendoci passato molto tempo durante le visite di famiglia, ma dovrà dimostrare al commissario per l’asilo di conoscerla come questo si aspetta che M la conosca, ovvero dall’alto, fornendo dettagli e informazioni che il commissario può verificare su una mappa geografica. ‘Dimentica di conoscere i negozi, gli incroci, le strade di J perché hai interagito con conoscenti e parenti in quei luoghi’, dice l’artista a M nel dialogo che accompagna il video; ‘devi disimparare (unlearn) quello che sai di J dal basso per ri-impararla dall’alto, come la conoscono i commissari’. La sfida di M è quella di imparare la prospettiva dei commissari e dar loro la risposta ‘giusta’, ovvero quella che ci si aspetta da lui. Il continuo ribaltamento di alto e basso – come di verità e fittizio – è reso ancora più potente dalle immagini che accompagnano il dialogo con M, dove modellini di città unsafe dal basso, rappresentate con edifici distrutti e barcollanti, sono messi in contrasto con la safety delle mappe geografiche, che rappresentano la conoscenza delle città dall’alto.

Città dall’alto e dal basso, View From Above (foto dell’autrice)

‘Nel frattempo’, scrive l’autore, ‘migliaia di persone provenienti davvero da J e da altre città nella unsafe zone hanno dovuto aspettare fino a 10-15 anni per ottenere asilo, perché le loro risposte dimostravano la conoscenza delle loro città solo dal basso’[3] e non soddisfacevano la commissione. La radicale materialità dell’opera di Hiwa K consiste anche nel continuo svelamento delle ricadute reali, spesso sulla vita delle persone, delle questioni che l’artista affronta nel suo lavoro, che potrebbero apparire astratte – una geografia umana ed economica disegnata seguendo le rotte dei migranti e quelle dei metalli usati per costruire le armi; coordinate prospettiche come ‘alto’ o ‘basso’ ripensate in base a rapporti di potere drammaticamente ineguali, come quello tra chi fa domanda di asilo e chi decide su quella domanda – ma che sono invece presenti nella nostra vita quotidiana.

 

[1] Pannello di presentazione dell’opera, Hugh Lane, Dublino.

[2] Audio dell’opera, Hugh Lane, Dublino.

[3] Don’t Shrink Me to The Size of A Bullet: The Works of Hiwa K, a cura di Anthony Downey, Koenig Books, 2017, p. 72.

 

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