Bestialità del desiderio, desiderio della bestialità.
Like a mushroom on a tree trunk
As the protein transmutates
I knock on your skin, and I am in
[…]
The perfect match, you and me
I adapt, contagious
You open up, say welcome
Björk, Virus
Nel 1978, alla XXXVIII Biennale di Venezia, Antonio Paradiso mise in scena uno spettacolo destinato a entrare fin da subito nella lunga lista di scandali artistici. All’interno di un recinto appositamente costruito, l’artista pugliese espose al pubblico l’accoppiamento tra un toro e una mucca meccanica. Interrogato sul motivo di questa operazione, Paradiso rispose che da anni i tori non vedevano una mucca vera, sottolineando implicitamente che ciò che aveva presentato non era diverso da quello che abitualmente succedeva nelle fattorie più industrializzate. L’idea fintamente romantica della campagna come luogo contrapposto alla città, all’interno della quale sopravvivono relazioni differenti tra umani e non umani, viene visivamente attaccata dallo spettacolo contro natura di un accoppiamento tra organico e macchina, tra animale e tecnica.
Ad emergere, in questo modo, sono due elementi perturbanti che sostengono l’intera scena: la bestialità del desiderio e il desiderio della bestialità. Non ci sarebbe stato stupore se quest’azione artistica non interpellasse quel movimento di antropomorfizzazione dell’animale che ci chiama in causa quando si parla di istinto. La scomoda presenza di un’animalità all’interno dei nostri desideri ci obbliga, nonostante gli infiniti tentativi di creare una separazione ontologica tra umani e non umani, a fare i conti con una congiunzione, una connessione, che ci spossessa. Dall’altra parte, proprio le differenti capacità di reagire, vivere e modulare gli affetti da parte di altre specie, aprono lo spazio per un’attrazione, un desiderio della bestialità. È nel campo problematico che tiene assieme questi due poli che si possono collocare i sette saggi che compongono Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido, antologia di testi curata per Ombrecorte da Massimo Filippi e Enrico Monacelli.
Per un bestiario viscido
Il bestiario che anima questi saggi diviene parte attiva della creazione di nuovi concetti, prospettive e pratiche. Perché questo sia possibile, è fondamentale innanzitutto tracciare delle linee di fuga da quello spazio filosofico che, nel loro saggio Ivvelenismo, uno Scavo, Bogna M. Konior e Yvette Granata descrivono nei termini di un «quartiere a luci rosse, dove la filosofia, avvolta nell’aura dei neon, si bagna nella consumazione di se stessa, nella sua narcisistica orgia visiva». L’incanto narcisistico viene spezzato proprio incontrando, attraverso la scrittura, gli sguardi, le corporeità e i desideri inumani. Tenere traccia di questi incontri significa avvicinarsi a un diverso paradigma di natura, dove quest’ultima smette di essere considerata un’arena nella quale si svolge un gioco a somma zero fra specie differenti, per presentarsi come un processo aperto dove lottare per una comune convivenza.
Riconoscersi come figli della stessa contingenza non è tuttavia sufficiente per smettere di pensarsi, ancora una volta, come i soggetti privilegiati in un campo di lotte condivise. L’insicurezza di inoltrarsi fuori dai territori famigliari di un pensiero e di una scrittura ancora troppo antropocentrica viene spesso esorcizzata mediante concetti e immaginari fagocitanti. Come nell’universo della moda rappresentato in The Neon Demon del regista danese Refn, in questo scenario cannibalistico i corpi inumani sono inclusi solo dopo essere smembrati e ripuliti da tutte quelle asperità che rendono problematica la vicinanza all’umano e, con essa, il suo presunto eccezionalismo. Seguendo Donna Haraway si potrebbe descrivere questo meccanismo come il dramma legato alla semiologia politica della rappresentazione. Nel tentativo di prendere parola per chi comunica attraverso altre semiotiche non linguistiche, si opera un distanziamento nel quale il mondo di relazioni in cui il rappresentato è collocato – e si colloca – viene offuscato dai discorsi e dalle pratiche autorevoli del rappresentante.
Un primo passo per tentare di aprire una prospettiva critica nei confronti di questa logica può essere trovato nel saggio Criptobiologie di Eugene Thacker contenuto nella raccolta. Thacker mette in luce, infatti, la difficoltà di stabilire in modo definitivo i confini che distinguono l’umanità dall’animalità. Proprio nei tempi in cui viviamo questa difficoltà sì aggrava se si prendono come oggetti della propria riflessione virus, funghi e batteri. Ad essere perturbante non è solo l’incertezza delle connessioni interspecifiche che essi possono contribuire a formare, ma ben più radicalmente la loro esistenza «micromostruosa» (Filippi, Monacelli, a cura di, 2020 p. 54). I mostri, infatti, come sottolinea Susan Stryker, occupano sempre una posizione ambigua all’interno dello sguardo normalizzante: troppo vistosi, troppo eccedenti per lasciare indifferenti ma, allo stesso tempo, irriducibili e invisibili nella loro capacità di sfuggire alle tassonomie ufficiali. Le agency inumane in cui siamo catturati nelle infezioni e nelle pandemie nella loro straordinaria capacità di adattarsi e muoversi da una relazione all’altra manifestano il lato mostruoso dei microbi.
In questo senso, attribuire un ruolo attivo ai microbi, mettere in luce le agency inumane, non significa spostarli di posizione, ossia trasformarli in soggetti, mantenendo inalterata la logica della rappresentazione, ma porre attenzione alle reti di connessioni e concatenamenti all’interno delle quali coesistono prospettive eterogenee.
![Divenire invertebrato recensione](https://www.lavoroculturale.org/wp-content/uploads/2020/10/invertebrati_4.jpg)
Performare la natura, il linguaggio, il corpo
Nel dialogo che si sviluppa tra i differenti saggi è possibile scorgere una comune performatività dell’invertebrato, che si articola in tre direzioni come performatività della natura (Kulesko, Thacker, Barad), del linguaggio (Miéville, Hayward, Weinstein, Konior, Granata) e del corpo (Barad, Hayward, Weinstein, Van Engen).
Il confronto con ciò che distingue l’animalità dall’umanità porta, nei saggi di Kulesko e Thacker, a una riflessione sul dinamismo della natura e il sul suo porsi come spazio aperto, un luogo di soglie, fatto di frammenti e relazioni tra frammenti (p. 34). Queste caratteristiche descrivono ciò che per Karen Barad è il carattere queer della natura, dove il termine queer indica le potenzialità mutanti della natura, il suo generare costanti differenziazioni, ma anche la decisione di abbracciare uno sguardo che metta in crisi i binarismi e la presunta stabilità delle identità (pp. 70-71).
Collocarsi all’interno di questo mondo sempre colto nel mezzo di processi e relazioni spinge la descrizione linguista a una revisione interna. Scrivere con e per i mostri, con e per gli invertebrati, significa in questo caso farsi trascinare fuori da una scrittura soffocante nella quale trovano riparo abitudini discorsive maschiliste e coloniali. L’impiego del * non si riduce dunque a una volontà di includere tutt* le posizioni che non ricadono negli standard cisgender ma, rinviando simbolicamente e graficamente a una stella marina, viene pensato come un elemento linguistico che denota una continua variazione, una deformazione performativa del linguaggio.
È tra le pieghe di queste sperimentazioni che è possibile mettere in luce e testimoniare le potenzialità degli incontri con altre e differenti corporeità sensuali. È il caso del concetto di tranimalità impiegato da Eva Hayward e Jami Weinstein. Mentre il termine animalità rinvia ai corpi animali come individuazioni connotate da altre proprietà fisiche, percettive e affettive, il prefisso trans indica, invece, l’emersione di scambi sensuali provocati da tali incontri (p. 115).
Un differente modo di incarnare la vicinanza desiderante con altri corpi sensienti può essere vista confrontando le pratiche artistiche di Arca e Simone Forti. Come spiega in Oh, Tongue (2003), l’analisi da parte di Simone Forti dei movimenti di animali relegati all’interno di recinzioni era fondamentale per potere ripulire i propri movimenti dai valori sociali e stilistici che connotavano il corpo nella pratica artistica. Si trattava, in altre parole, di una raschiatura della propria gestualità al fine di giungere a un minimalismo corporeo. Il lavoro dell’artista era spinto dal desiderio di divenire «un vertebrato tra gli altri» (p. 135). Nella pratica performativa del musicista argentino Arca, al contrario, l’incontro con l’inumano, con l’informe, si concretizza in una trasfigurazione radicale della propria fisicità. In video come Reverie, e nei più recenti Mequetrefe e Nonbinary, il corpo di Arca viene posseduto dagli altri esseri animati e inanimati che occupano l’ambiente, divenendo la superficie su cui si iscrive e si ostenta la presenza inquietante di un desiderio non umano che ci abita. Come scrive Gianluca Didino in Essere senza casa. Sulla condizione di vivere in tempi strani (2020), ciò che tiene assieme i differenti opposti che animano la produzione artistica di Arca è «il desiderio» e, contemporaneamente, «la sua sublimazione nella sofferenza» (p. 65). Non si tratta più di essere un vertebrato tra i vertebrati, ma di farsi trascinare dalle forze disumane dell’informe, del mostruoso e dell’inorganico.
![Divenire invertebrato recensione](https://www.lavoroculturale.org/wp-content/uploads/2020/10/invertebrati_2.jpg)
Evocare l’inumano
Di fronte a un pianeta al collasso, in una quotidianità marcata dalla trinità simbolica composta dei termini spillover-contagio-epidemia, ricercare delle prospettive teoriche e pratiche che permettano di stabilire un diverso equilibrio interspecifico è un compito tanto fragile, quanto fondamentale. Come scrive China Miéville nelle tesi sui mostri contenute nel saggio, «la storia di tutte le società esistite fino a oggi è una storia di mostri. Homo sapiens è un produttore di mostri come sogni della ragione. I mostri non sono patologie, ma sintomi, diagnosi, meraviglie, giochi e terrori» (Filippi, Monacelli, a cura di, 2020 p. 48).
Quali forme prendono i mostri sintomi dei nostri tempi? Con quali creature viscide, con quali demoni possiamo entrare in complicità per resistere a una ragione teoretica e pratica che continua a pensarci come l’elemento centrale attorno a cui tutto ruota? Rispondere a questo domande significa tentare un’ultima invocazione, un ultimo oscolum infame in grado di risvegliare l’inumano che dunque siamo.