La contraddizione del discorso borghese intorno ai corpi: una riflessione da avviare attorno a tre punti.*
Nella mia stanza da adolescente c’era appesa un’immaginetta, ritagliata da un libro o da un giornale, che raffigurava il dipinto di Gustave Courbet del 1886, “L’origine del mondo”. Si tratta, nello specifico, della raffigurazione iperrealistica dell’inguine, naturalmente nudo e naturalmente non depilato, della modella irlandese Joanna Hiffernan (trivia: il dipinto è stato per lungo tempo proprietà di Jacques Lacan).
Quando ho iniziato a riflettere in maniera più organica e approfondita sul ruolo del corpo e della corporeità nella società contemporanea, ho pensato alla prima volta in cui mio padre ha visto l’immagine di cui sopra appesa nella mia stanza, alla sua espressione, al “Che cos’è questa roba?” a metà strada tra il vagamente perplesso e il francamente scandalizzato. All’epoca, piuttosto ingenuamente, pensai che la pietra dello scandalo, il motivo di quella mutazione espressiva sulla faccia di mio padre alla vista del quadro di Courbet fosse banalmente il terrore borghese relativo all’eventualità di ritrovarsi una figlia perversa o lesbica. All’epoca pensavo anche, come molti adolescenti (e molti non adolescenti), che il problema della società borghese contemporanea fossero i corpi e il troppo valore dato ai corpi rispetto all’interiorità dell’individuo. I classici leitmotiv infantili e qualunquisti “Conta solo l’apparenza”, o “Tutti in palestra e poi tutti stupidi” che abbiamo sentito o letto tutti almeno una volta nella vita, per capirci.
Ho impiegato qualche anno e una malattia per capire che mi sbagliavo totalmente sia riguardo alla reazione di mio padre che riguardo alla questione della centralità dei corpi. A oggi sono convinta, infatti, che il motivo profondo di quella reazione sia da ricercarsi in una generica ritrosia della società borghese riguardo alla visione del corpo nudo e che, in genere, uno dei limiti di certa cultura contemporanea non sia stato dare troppo valore al corpo rispetto alla mente/interiorità, quanto, piuttosto, cancellare la percezione del corpo reale in favore di un corpo/idea.
Quanto al quadro di Courbet, non è tanto la “prospettiva genitale”, a mio avviso, a dare luogo al “senso dello scandalo”: i motivi principali sono, invece, da ricercarsi in primo luogo nella mancanza di un volto e in secondo luogo nelle imperfezioni, nelle cosce grosse e tornite e nel ventre gonfio.
La contraddizione del discorso borghese intorno ai corpi, naturalmente, non si esaurisce nei quadri del 1886 e nei miei trascorsi personali ma attraversa e per certi versi caratterizza la contemporaneità. In questi appunti, che vogliono essere semplicemente uno spunto di riflessione e discussione, proverò ad analizzare e mettere in correlazione alcuni dei casi più lampanti e significativi.
1. Il fappening e il valore del corpo nel web
Sembrerà paradossale, ma di questa vicenda si è parlato troppo e troppo poco contemporaneamente: se ne è parlato poco o niente da un punto di vista femminista e militante e se ne è parlato troppo per quanto riguarda il mero gossip frivolo. Il fatto, riassunto all’osso, è questo: circa un mese fa il web è stato invaso da una serie di foto di celebrità americane più o meno note completamente nude o quasi.
Più che il fatto in sé, comunque, è piuttosto interessante fermarsi ad analizzare le reazioni di gran parte dell’opinione pubblica italiana e internazionale alla vicenda. Oltre agli scontatissimi fappers (da “to fap”, masturbarsi), la maggior parte dei commentatori si è soffermata sul valore della privacy e della sicurezza in rete e ha usato questa vicenda come grimaldello metaforico per aprire l’ennesima guerra a tutto campo contro gli hacker in generale. Spostandoci a destra, poi, troviamo quelli che censurano a prescindere, quelli che “Stronze loro a farsi foto del genere e metterle in rete”. Di contro, la mancanza di un approccio militante al concetto di privacy nell’era del web-capitalism o quantomeno di dibattiti di più ampio respiro riguardo al corpo femminile nudo e alla differenza di percezione tra i corpi nudi reali e quelli estetizzati nel cinema, in relazione a questa questione, è stata, a mio avviso, abbastanza significativa, in quanto ennesimo indice di deficit discorsivi e analitici riguardo a determinate tematiche.
Più in generale, la mancanza degli spunti di riflessione di cui sopra è strettamente correlata ai limiti generali del discorso sul web, incastrato nel frame che vede la contrapposizione tra sostenitori e negazionisti del presunto potere rivoluzionario della dimensione social e del 2.0. Forse una soluzione, o quantomeno una strada alternativa per dare un respiro più ampio al dibattito e per creare una nuova dimensione di lotta veramente transmediale, potrebbe partire dalla comprensione delle dinamiche di relazione tra corpi e rete (inclusa l’analisi di vicende apparentemente banali e da cronaca rosa come il suddetto caso Fappening).
2. Repressione/dinamiche di piazza
Qualche giorno fa, spulciando tra mailing list, pagine internet salvate e volantini di carta – tanto per mantenere la dimensione transmediale anche nel personale – mi sono ricordata di una cosa meravigliosa: in primavera, alcuni intellettuali e attivisti europei produssero, firmarono e diffusero un appello per denunciare il clima di repressione italiano ed europeo in seguito all’arresto e all’accusa per terrorismo di quattro attivisti No Tav. Meraviglioso è il titolo “Appello per la liberazione dei corpi e del dissenso politico” e meravigliosi sono alcuni passaggi, come questo:
Noi vediamo nell’esplicarsi di tali durezze fuori misura, il volto di un potere che ha cambiato natura: lontano e dittatoriale, repressivo e dunque “esterno” rispetto alle culture, ai corpi, ai volti, ma contemporaneamente vicino e “intimo”, capace di effettuare un’integrale cattura dell’anima, reclamando di volerla orientare attraverso dispositivi ambientali ed economici che favoriscono l’adesione alla “norma” oppure, viceversa, pronto a espellere, imprigionare, scartare qualsiasi elemento che alla “norma” non voglia adeguarsi.
Dopo anni di analisi che contrapponevano a dispositivi repressivi militarizzati un linguaggio altrettanto militare, dominato da leitmotiv quali scontri, conflitti e rapporti di forza, finalmente si intravedono spiragli di luce e di possibilità, attraverso la riappropriazione discorsivo/analitica della dimensione corpo e del mettersi in gioco. L’autoincasellamento in frame discorsivi di contrapposizione diretta basati su rapporti diretti di forza, quali – per restare all’attualità – “Davide Bifolco doveva fermarsi allo stop” vs “Davide Bifolco non aveva fatto niente di grave” o “Articolo 18 si” vs “Articolo 18 no” è perdente in partenza: contrapporre alle narrazioni mainstream altre narrazioni che si basano sugli stessi leitmotiv e si limitano a declinarli in senso opposto è logorante ed equivale a un’autoschiavizzazione metaforica. La chiave, invece, sta nell’immaginare e inventare un linguaggio nuovo che parta dai corpi, dai bisogni reali e dal mettersi in gioco. L’unica risposta da dare ad “Articolo 18 no”, non è “Articolo 18 sì” ma “Reddito di base per tutt*”. L’unica risposta da dare a chi dice che “Davide Bifolco doveva fermarsi allo stop” non è “Davide Bifolco non aveva fatto niente di grave”: noi non siamo per le vie di mezzo, noi non siamo per la criminalizzazione e repressione solo per quelli che hanno fatto cose gravi. Siamo per la non criminalizzazione tout court, siamo per i corpi e per le esistenze libere.
Traslare questo discorso nel reale non è impossibile, utopico, alieno e difficile e quanto è successo il 2 ottobre scorso a Napoli lo ha ampiamente dimostrato: gli attivisti dei movimenti campani contro la BCE hanno consapevolmente scelto, intelligentemente, di aggirare il solito gioco basato sui rapporti di forza e sullo scontro fine a se stesso e di uscire fuori dall’inevitabile frame mainstream violenti/non violenti che avrebbe finito per egemonizzare qualsiasi narrazione altra della giornata. Hanno scelto un percorso diverso, non solo nella materialità della deviazione del corteo verso i quartieri popolari della città ma anche da un punto di vista strettamente discorsivo: ripartire dai corpi, dai bisogni e dalle esistenze di chi la città la vive, dai quartieri popolari, parlare con la gente, piuttosto che prestare il fianco all’ennesima strumentalizzazione mediatica (che pure hanno tentato di fare, raccontando di scontri inesistenti, ma che ha avuto meno presa rispetto alla norma delle narrazioni post-manifestazione).
3. Dalla sentient meat al corpo vivo
Di cosa parliamo esattamente quando parliamo di corpo? Anche in questo caso l’egemonia lunga più di qualche secolo della contrapposizione tout court tra corpo e anima è stata e per certi versi è tuttora problematica. L’idea del corpo come carne statica, come apparenza ornamentale, propria di certi discorsi infantili/qualunquisti già citati nella premessa, per quanto apparentemente per certi versi possa sembrare una formulazione iper-razionalista (il “corpo macchina” à la Dr. House), in realtà è più che altro un refrain sottotraccia di secoli di morale cristiano/cattolica. Il corpo di cui parliamo e di cui dovremmo parlare, invece, è vivo, è in movimento, è dinamico, si mette in gioco, ed è necessariamente in relazione fisica e materiale con altri corpi. La carne è senziente. Usciamo dal frame “corpo e anima” e con un solo accento inventiamoci un linguaggio nuovo secondo cui “corpo è anima”.