I diritti civili e il principio di non contrapposizione

La politica istituzionale e il valore delle cose: nello sguardo di una donna la possibilità di una politica differente. Intervista a Camilla Seibezzi*.

Oggi assistiamo a uno smantellamento progressivo dell’architettura delle istituzioni accompagnato da uno svuotamento dei valori che, all’interno di quelle stesse istituzioni, dovrebbero essere praticati. Difficilmente infatti una riflessione sui diritti civili trova realizzazione in ambito istituzionale. L’esperienza di Camilla Seibezzi, consigliera al Comune di Venezia, diventa, in questa prospettiva, un’occasione di indagine delle possibilità di sopravvivenza e rigenerazione del dispositivo istituzionale e al contempo, motivo principale per cui l’abbiamo incontrata, una possibilità di confronto sull’importanza e la praticabilità di un discorso politico che pratichi la differenza, a partire da una prospettiva di genere, nei modi e nella sostanza

Silvia Jop: L’attività politica come entra e modifica il tuo percorso di vita?

Camilla Seibezzi: I termini con cui ho cominciato a fare politica a un certo punto della mia vita si sono semplicemente formalizzati, non intensificati: ho sempre avuto un rapporto fortemente politico con la vita. D’altra parte quando ti riconosci nel cento per cento dei disagi che vivi, e tutti i tuoi amici, con cui condividevi la maggior parte di quelle difficoltà, sono andati a vivere all’estero per svolgere in condizioni dignitose soprattutto le professioni creative, ti dici: “o parti anche tu oppure resti ma cerchi di cambiare la situazione”. E io ho deciso di restare.
Ho deciso di restare tentando di creare un percorso che mi consentisse di impegnarmi a dare rappresentazione politica in ambito istituzionale a tutte quelle fasce della popolazione che oggi faticano a trovare rappresentanza e che sono le partite IVA, i lavoratori dell’arte e della cultura, che sono gli LGBT, che sono le donne, che sono le donne non subalterne a un sistema valoriale maschile e così via… Così, nel 2010, la sera prima della chiusura delle liste da presentare in comune per le amministrative, ho accettato la proposta che, all’ultimo, mi era stata fatta. Era chiaro che il motivo per cui mi avevano proposto di entrare in lista, così, all’ultimo momento, era segno più di una necessità strumentale che di un’intenzione sostanziale: donna, lesbica, lavoratrice creativa: “ce l’abbiamo”. Insomma, non ho avuto nemmeno il tempo di fare campagna elettorale. Ma ho lavorato sul territorio e ho avuto un sostegno che mi ha portata, inaspettatamente agli occhi dei più, ad essere eletta e a entrare tra i membri del consiglio comunale. E da quel momento, non ho più smesso di fare politica nel modo in cui penso debba essere fatta: con la determinazione di chi persegue le cose in cui crede. Anche a costo di essere scomoda: non cedo a compromessi.

S: È molto forte per me realizzare come, ad oggi, l’elezione di alcune persone – nella fattispecie quelle meno inserite nelle logiche delle istituzioni partitiche e più radicate alle questioni politiche di sostanza declinate nei singoli territori – corrisponda molto spesso più a un errore di sistema, che a una scelta politica di campo. Voglio dire, come nel tuo caso, la sensazione è che ci sia la tendenza a ricorrere a un coinvolgimento di tipo strumentale di una serie di soggettività, molto spesso a conclusione di una campagna elettorale, con la convinzione poi che quegli stessi elementi, distanti dalla logica di partito in cui vengono strumentalmente inglobati, non si trovino a poter esercitare la cifra della propria differenza. Poi però, ogni tanto qualche cosa sfugge di mano, e le persone come te, non solo si trovano ad essere elette, ma anche ad esigere di praticare proprio quella differenza…

C: È esattamente così. Ed è per questo che credo che fare politica, anche su un piano istituzionale, sia fondamentale. Voglio dire: è come se questi “errori di sistema”, come li hai chiamati tu, fossero il segno del fatto che, nonostante la difficoltà del momento storico in cui ci troviamo a vivere – per cui si ha la sensazione che la dimensione politica istituzionale sia consumata da un lato e inaccessibile per chi crede che le cose possano realmente cambiare – esiste comunque uno spazio grazie al quale, alla fine, è possibile cambiare e rigenerare quello stesso contesto. Significa avere fiducia nelle istituzioni come luoghi vivi che devono e possono realmente essere fulcro del cambiamento: in connessione continua con la realtà di chi abita quotidianamente la città, oppure la regione, oppure il paese che poi viene amministrato da chi governa.

S: Nello specifico, questa presenza così estranea alle logiche del partito in cui si viene eletti e così aderente invece a sé e all’idea di una politica che corrisponde a degli ideali su cui non si può transigere, come si gestisce?

C: Guarda, nel mio caso si gestisce con fatica, spesso senso di solitudine ma determinazione. E devo anche dire che, il senso di solitudine che in quei casi si ha all’interno dello spazio istituzionale che soggiace a certe logiche, è colmato dalla relazione attiva che ho con la città, con chi vive la città e che non manca di sostenermi ogni volta che decido che su certe cose passi indietro non se ne possono fare.
Voglio dire: io disattendo sistematicamente le logiche di partito per cui su certi temi è meglio non spingere troppo perché altrimenti si rischia di perdere la maggioranza. La prassi dell’esercizio dell’equilibrio strumentale che si mangia quasi sempre il valore delle cose, non mi appartiene.

S: Una delle caratteristiche della politica istituzionale contemporanea italiana è che molto spesso chi parla delle cose non le vive. Tu invece sei entrata in politica indossando dichiaratamente alcune delle cose che caratterizzano la tua vita, come questioni di cui ti saresti fatta rappresentante: l’essere donna, l’essere omosessuale e l’essere lavoratrice culturale, indipendente, una partita IVA. Insomma: pezzi di te che tu hai portato all’interno di un circuito di rappresentanza come portato di una riflessione esistenziale, sulla vita. Incarnare letteralmente le questioni di cui poi ci si trova ad essere in qualche modo rappresentanti pensi quindi che sia un motore in più? Oppure a volte rischia di essere un limite?

C: Secondo me è sempre un motore in più. Io credo che tutte le conquiste politiche e sociali e dei diritti civili passino attraverso le corde dell’empatia. Quindi se le hai vissute in prima persona oppure se sai “sentire con”, rendi più praticabile una politica che se ne faccia carico. Certo non può essere l’unico presupposto questo. Però sicuramente è uno degli ingredienti necessari al radicamento di un sentire che poi si fa motore di cambiamento.

S: Tu sei consigliera comunale in un Comune, quello di Venezia, e, oltre a te, su quarantasei consiglieri in totale, ci sono solamente altre due donne.
Quanto pensi che pesi questo squilibrio lampante tra uomini e donne in uno spazio di decisione come quello? Pensi che le quote rosa possano essere una soluzione?

C: Non è sicuramente il sistema di assertività che privilegio quello delle quote rosa. È vero però anche che tutti i paesi oggi che hanno un riconoscimento diverso delle donne nei sistemi politici ed economici, sono passati attraverso le quote rosa. Detto questo, rischia di costituire un sistema chiuso perché che crea, artificialmente, un equilibrio che nella realtà non esiste. Insomma, rischia di essere un sistema strutturalmente carente perché anziché svilupparsi naturalmente viene in qualche modo calato dall’alto. Nascendo da una sorta di intenzione di protezione che quindi pone di per sé la donna ancora una volta bisognosa di essere tutelata e quindi come se per esistere avesse bisogno di un aiuto esterno a sé. Da questo punto di vista risulta come una sorta di arma a doppio taglio. Io, chiaramente, penso che una donna per poter praticare la differenza e quindi fare la differenza, debba acquisire un proprio sistema di valori: debba insomma riconoscersi donna e impararsi tale.
Ed è evidente che se una donna invece pratica un sistema valoriale maschile, è difficile superare naturalmente questo squilibrio. Detto questo è altrettanto evidente che la questione della differenza, per via delle resistenze interne ancora vive nella cultura contemporanea, continua ad essere fragile. E forse un rischio, in termini di tutela, va corso. Forse creando lo spazio, anche in maniera forzata, si dà la possibilità, in prospettiva, alle donne che verranno, di abitare quella stessa apertura nel modo in cui va abitata: con la consapevolezza della cifra della loro differenza.

S: Parlando di cifre della differenza, la tua si è espressa in due battaglie che hai condotto con determinazione qui a Venezia in due occasioni che sono diventate emblematiche anche per il resto del paese: quella relativa alla questione “genitore”, per cui hai insistito perché i moduli scolastici non prevedessero come unica possibilità di potestà genitoriale quella di una coppia composta solo da padre-madre; e quella relativa all’adozione da parte delle scuole di libri che raccontassero, tra le altre, anche la possibilità di amori non necessariamente eterosessuali. Me ne parli?

C: Una delle intenzioni che avevo dichiarato sin da principio era quella di cambiare e adeguare tutta la modulistica del comune di Venezia in direzione di un linguaggio anti-discriminatorio. Un esempio era quello della modifica di tutti i moduli d’iscrizione alla scuola d’infanzia di Venezia sostituendo alla parola “madre” e “padre”, la parola “genitore”. Perché? Perché io credo che nel 2014 quando noi esercitiamo il principio dell’uguaglianza dobbiamo usare un termine che sia inclusivo di tutte le formazioni familiari possibili e non ne adotti una dominante sulle altre.
Cioè, una priorità culturale da adottare è questa: dire che una coppia di genitori che sono sposati (uomo e donna), una coppia di genitori adottivi, una famiglia ricostituita, una famiglia composta da una sola donna (con dei figli), o da un solo uomo (con dei figli), o coppie di genitori, due donne o due uomini, abbiano la stessa dignità e la stessa esigenza e tutela giuridica. E non siano costrette costantemente a dichiarare di essere mancanti di qualche cosa o monche sulla base di un’origine più giusta imposta da una rigidità culturale che, alla luce dei fatti, diventa invalidante. Quindi io descrivo la famiglia per quello che è, non per quello che dovrebbe essere: una donna sola non è una donna senza marito.

S: Pur condividendo pienamente lo sguardo critico con cui si sviluppa questa battaglia e condividendone anche la prospettiva, muovo però delle perplessità verso il tipo di scelta in cui, come dici tu, si realizza la sintesi tra le possibilità genitoriali. Non ti pare che ricorrere a “genitore” anziché trovare un modo per nominare ogni possibilità, rischi in realtà di cancellare nuovamente la differenza incastrandola nell’ennesima astrazione? Voglio dire: abbiamo ormai imparato a riconoscere come la differenza venga negata, furbescamente, attraverso l’uso e l’esercizio del neutro che finisce per sott’intendere, eliminandolo alla luce dei fatti, il femminile nell’universalizzazione del maschile (banalmente: “gli uomini” per dire “uomini e donne” e da questo, ogni altro riferimento che, nel generalizzarsi, smette di nominare le femmine e quindi di considerarle).
Non pensi quindi che sia contraddittorio muovere dall’intenzione di dare diritto di cittadinanza a ogni differenza e finire, però, con il negare quella primaria? Voglio dire: “genitore” è nuovamente una generalizzazione che schiaccia il femminile sotto una percezione maschile perché si tratta di un termine neutro, quindi di origine maschile.

C: Il punto però in questo caso è un altro: io uso genitore in una modalità di sintesi che si stacca dall’intento filologico. Quindi, se è per questo, genitore è anche una parola che arriva dal verbo “generare” e in questo caso invece diventa sintesi anche le famiglie adottive, le famiglie affidatarie. Cioè: faccio quello che ha fatto anni fa il diritto minorile che nella tutela dell’infanzia non usa più la “patria potestà” ma la “potestà genitoriale”. E anche lì è usata come parola di sintesi. Non perché priva l’uomo e la donna della propria soggettività. Nel senso: tutti gli studi dicono che la capacità genitoriale è relativa alla capacità di cura e affetto per questo, ad esempio, due uomini o due donne che crescono un figlio e una figlia possono essere buoni o cattivi genitori al pari di una coppia eterosessuale. Allora il principio di base è che non è né l’orientamento sessuale, né l’appartenenza a un genere, né il legame di sangue a sancire la legittimità alla genitorialità. Insomma io credo che con il termine genitore effettui una sintesi strumentale al superamento di un preconcetto che, ad oggi, è fortemente discriminante. Certamente poter nominare ogni declinazione possibile delle forme contemporanee di genitorialità sarebbe meglio ma, al momento, per agire in modo tempestivo e incisivo, dobbiamo servirci di una sintesi e “genitore” è sembrata la cosa più efficace per realizzare queste intenzioni perché intanto sposta l’asse dalla funzione riproduttiva alla capacità genitoriale.

 

S: Tornando al piano della gestione istituzionale della pratica politica, come si è svolto questo passaggio in Comune?

C: Ho fatto la proposta “genitore”, si è sollevato un vespaio: sono addirittura arrivate le minacce di morte. Ho contattato la rete RE.A.DY di cui fanno parte sessanta comuni italiani  per avere un sostegno.
Intanto qui a Venezia il Sindaco non ha preso posizione, la maggioranza non ha preso posizione e hanno cercando di congelare la questione e mi hanno accusata di fare della propaganda. Nel frattempo diversi comuni italiani hanno cominciato a chiedere di esaminare il documento con cui è stata avanzata questa richiesta e l’hanno portata al municipio VIII di Roma dove hanno realizzato la stessa cosa. Poi l’hanno proposta a Bologna, a Milano, insomma in una serie di comuni. A partire da Torino dove la cosa era già stata realizzata.
Io alla fine ne ho fatto una linea di mandato minacciando le dimissioni se la cosa non fosse proseguita. Alla fine è passata come dato amministrativo che ha imposto la modifica dei moduli. Quindi: se il Comune non aveva fatto una delibera, ha comunque dovuto accogliere il dato amministrativo e adeguarsi ai nuovi moduli.

S: E successivamente c’è stata la questione dell’adozione dei testi per le scuole, giusto?

C: A un certo punto ho scritto alle varie associazioni che lavorano contro le discriminazioni e alle associazioni che lavorano sul rapporto infanzia-discriminazioni per proporre loro di sviluppare un indice di libri da fare adottare alle scuole di questa città. Quindi: cinquanta titoli di fiabe che trattassero in modo critico e didattico il tema della discriminazione.
Così, una volta ricevuto l’elenco ho fatto comprare i testi a ogni asilo nido e scuola materna di Venezia da mettere semplicemente in dotazione nelle loro biblioteche.
Questa cosa qui ha nuovamente sollevato un polverone e ha fatto scattare l’ennesimo attacco: hanno detto che si volevano indottrinare i bambini, che i bambini erano troppo piccoli e influenzabili (alludendo alle storie che raccontavano di amori omosessuoali), arrivando addirittura a dire che si trattava di testi tendenziosi e diseducativi. Quindi hanno cercato di bloccare il progetto: prima dicendo che c’erano degli errori nella delibera, nella pratica amministrativa che avevo avviato, dopodiché convocando una commissione di psicopedagogisti avviando così un procedimento di censura.
A quel punto ho fatto notare come l’opposizione all’adozione di questi testi, da parte dello stesso Comune che aveva promosso un corso sulle questioni legate al tema delle discriminazioni per le scuole, entrasse in contraddizione. In ultima era centrale il rispetto del libero mandato educativo degli insegnanti.
È quindi seguita una denuncia sui giornali che ha impedito alla commissione di muovere perplessità perché sarebbe risultato un atto di censura.
Successivamente lo stesso Sindaco ha mosso denuncia pubblica sostenendo che io facessi propaganda e io ho prontamente fatto notare come i libri contenessero storie che sensibilizzavano i bambini e le bambine verso la cultura della diversità in senso ampio: da quella etnica a quella di genere passando per quella sessuale fino ad arrivare a quella religiosa. Chiedevo quindi, pubblicamente, su quale piano la mia presunta propaganda si muovesse, spingendo il Sindaco a sentirsi responsabile di qualsiasi risposta avesse dato, nei confronti di tutte le comunità che erano rappresentate nelle fiabe dei libri in questione.

Quello che ci insegnano queste due esperienze è in primis che un territorio dal basso, con un piccolo provvedimento che abbia attuazione immediata, può sollecitare un legislatore a normare la realtà in cui viviamo a partire dalle necessità vive di quella stessa realtà. In secondo luogo, che se ti rivolgi a una rete di persone che condividono con te intenti e principi, non sei più sola. Se costruisci una relazione non più su base strettamente territoriale ma ideale e intra-territoriale, apri una strada per l’attuazione effettiva dei diritti sociali e civili. Quindi: dal territoriale, passando per la condivisione ideale che si coltiva in relazione e tornando al territoriale che a quel punto diventa un luogo più ricco.

La cosa paradossale è che poi, sui giornali, si è anche levato il grido di protesta perché nel bel mezzo della crisi, il Comune di Venezia, anziché pensare alle necessità definite “primarie”, si dedicava all’investimento di somme di denaro per l’acquisto di libri di fiabe. La cosa pazzesca è questa: la tendenza cieca a pensare alle necessità in modo escludente: o una cosa o un’altra. Inserendo certe cose in una scala di valori costruita su principi astratti, molto spesso si finisce per mettere all’ultimo posto cose che in realtà sono necessarie a dare qualità alla vita.
Si tratta di una cultura della contrapposizione che si è dimostrata lesiva e che deve essere superata: bisogna lavorare alla costruzione di una cultura della non-contrapposizione per quanto riguarda l’ambito dei diritti, perché nessun diritto può fare a meno dell’altro.

Note

[*] Dal 2010 è Consigliere Comunale e Presidente della VI Commissione Consigliare del Comune di Venezia: attività culturali, cittadinanza delle donne, cultura delle differenze, promozione della città delle sue tradizioni e manifestazioni storico culturali, qualità urbana, politiche culturali, turismo.
Nel settembre 2013 viene nominata dal Sindaco del Comune di Venezia delegata ai Diritti Civili, Politiche contro le discriminazioni, Cultura lgbtq.
Attualmente candidata alle Europee2014 nella lista L’Altra Europa con Tsipras.

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