Digitale e didattica, fra inclusione e reciproca esclusione

Tra “Il digitale e la scuola italiana” di Marco Dominici e “Teste e colli. Cronache dell’istruzione ai tempi della Buona Scuola” a cura di Marco Ambra : il rapporto fra didattica tradizionale e uso delle tecnologie digitali.

Il primo a dirlo è stato eFFe su Medium; a marzo sono usciti quasi in contemporanea due ebook sulla scuola che “possono e devono parlarsi” perché hanno molte affinità e possono interagire ottimamente per fornire un quadro più completo a approfondito sul tema scuola, tecnologie, didattica ed editoria. I due ebook in questione sono il Il digitale e la scuola italiana di Marco Dominici e il nostro Teste e colli. Cronache dell’istruzione ai tempi della Buona Scuola. Dall’interazione e dal dialogo con Marco Dominici è nata l’idea di un’intervista incrociata a partire dalla quale affrontare i nodi di approfondimento del nostro ebook che riguardano il rapporto fra didattica tradizionale e uso delle tecnologie digitali. Qui trovate le risposte alle domande che Marco Dominici ha posto a Marco Ambra, qui di seguito, invece, le risposte di Marco Dominici alle domande avanzate da Marco Ambra.

Marco Ambra – Uno dei nodi affrontato nella mia conversazione con Roberto Casati in Teste e colli è il rischio di un’invasione “coloniale” dei dispositivi digitali all’interno degli spazi e dei tempi della didattica in classe. L’uso di tecnologie come i tablet, con le loro app facili da usare e da acquistare, potrebbe imporre forme e contenuti ad una didattica spesso povera di stimoli. Quali sono, secondo te, le strategie più efficaci per un uso personalizzato e non standardizzato delle tecnologie digitali nella didattica?

Marco Dominici – Bisogna innanzi tutto essere realistici e il realismo ci dice due cose. La prima è che ancora poche, pochissime scuole nel territorio nazionale fanno uso di tecnologie; la seconda è che in un contesto scolastico in cui le classi sono sempre più numerose, è impensabile che l’insegnante si faccia carico di individuare e creare percorsi differenziati per ogni studente o anche solo per piccoli gruppi. Bisogna quindi tenere presente che parlare di uso “personalizzato delle tecnologie” è un’espressione ancora piuttosto astratta, che presuppone un uso “primario” di esse ancora pochissimo diffuso e spesso ostacolato da molti fattori.

A mio parere, una prerogativa necessaria è considerare che ormai l’ambiente di apprendimento non è più solo rappresentato dalla scuola; la scuola è il luogo dell’istruzione, ma l’apprendimento è – da sempre – un procedimento spontaneo, continuo, e le tecnologie non hanno fatto altro che renderlo ancora più ubiquo e alla portata di molte più persone. Anche chi non ha una connessione a casa, avrà sicuramente un cellulare e anche da lì può accedere a una serie di informazioni che prima erano solo sui libri o su periodici specializzati: la questione è come trasformare queste informazioni in conoscenza, cioè in un processo in cui entrano in gioco molti altri elementi, non ultimo il ritmo e gli stili di apprendimento dello studente, la sua personalità, i suoi interessi, il suo vissuto quotidiano.

Più che delle strategie (ognuno può adottare quella che riterrà più adatta al suo contesto), parlerei di tre presupposti essenziali per attivare un efficace apprendimento personalizzato attraverso le tecnologie: ridefinire le griglie di valutazione in maniera più flessibile e meno ancorata a tassonomie rigide e limitanti; considerare materiali e contenuti (in input, cioè quelli su cui far lavorare, e output  i risultati del lavoro dello studente) in diversi formati e in differenti modalità (video, foto, presentazioni miste, anche per quanto riguarda i linguaggi espressivi); dare allo studente più opzioni possibili per ricercare, comunicare e condividere il suo compito.

M. A. Dati questi tre presupposti, quale uso dovrebbe farsi della rete in classe? Come preservarsi dall’abuso?

M. D.– Anche se il mio saggio si intitola Il digitale e la scuola italiana, la tesi di fondo supportata è che il digitale dovrebbe entrare nella classe il più tardi possibile e comunque non prima che si attui uno shift nello studente, il quale passi dalla confidenza tecnologica a una consapevolezza tecnologica: per dirla con le parole di un articolo che ho letto recentemente, prima di usare le tecnologie, la scuola deve essere in grado di «costruire un modello culturale, più profondamente un modello mentale, strutturato che consenta di educare ed auto-educare ad una ricerca in rete consapevole».

Solo dopo che si saranno realizzate queste condizioni sarà possibile utilizzare la rete in classe senza il rischio di abusarne, sia da parte dello studente che dell’insegnante.

M. A. Concludiamo con una domanda tendenziosa. Sappiamo entrambi che il mondo della scuola è spesso accusato di opporre “inspiegabili” resistenze a cambiamenti positivi. Ci sono, dal tuo punto di vista, delle resistenze non argomentate all’uso delle tecnologie digitali nella didattica? Si tratta di una peculiarità della scuola pubblica italiana?

M. D. – Più che mancanza di argomentazioni, ho notato una scarsa conoscenza delle tecnologie e delle loro potenzialità e, come sempre, ciò che non conosciamo ci spaventa e ci fa alzare barriere che poi è difficile scardinare. Non è affatto un fenomeno peculiare italiano: negli stessi Stati Uniti, a differenza di quanto noi immaginiamo, sono ancora molte le resistenze all’utilizzo del web e degli strumenti digitali nella didattica. Nella mia personale esperienza editoriale (nell’ambito della lingua italiana come L2), ho potuto constatare che, come in Italia, anche in molti altri paesi europei ed extraeuropei non è affatto facile trovare scuole dotate di una connessione degna di questo nome e gli studenti stessi sono ancora poco propensi ad utilizzare la tecnologia per motivi di studio.

Un altro grande salto da fare, infatti, è anche quello di percepire lo smartphone e il tablet come strumenti di lavoro e di studio oltre che di svago. A questo proposito trovo significativa la testimonianza di un’insegnante francese: aveva scaricato un’app che pensava fosse un gioco e poi ha scoperto che poteva essere usata molto fruttuosamente in classe. Così ha fatto, con notevole successo. Com’è evidente, ci sono ancora parecchi passaggi da affrontare prima di arrivare a un apprendimento personalizzato, ad un uso consapevole della Rete e ad un allentamento della resistenza nei confronti delle tecnologie: è necessario da una parte estendere il raggio e le modalità in cui avviene l’apprendimento e dall’altra creare una consapevolezza (la cosiddetta “cittadinanza”) digitale.

Per fare ciò è indispensabile non ragionare per aut aut ma per inclusione: molti percepiscono ancora digitale e reale come due entità in contrapposizione, e quindi il rifiuto del primo appare una necessaria difesa del secondo; ormai invece il loro è un rapporto di integrazione ed espansione l’uno dell’altro e il rifiuto del digitale, lungi da essere una difesa del reale, ne risulta invece una limitazione. La vera sfida è declinare il mondo analogico – improntato alla sequenzialità e alla linearità, piramidale e gerarchico – nei tempi e nei modi che sono propri dell’ambiente digitale, reticolare e collaborativo: non è affatto un’impresa facile, ma la scuola dovrebbe essere tra i primi ad accogliere questa sfida e farla propria.

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