Non è mai troppo tardi per la didattica a distanza

Un diario della didattica a distanza in quarantena.

didattica a distanza

Viviamo strani giorni, costellati di immagini inquietanti per il nostro opulento, narcisistico microcosmo, camion carichi di cadaveri, fosse comuni nel cuore della città simbolo del capitalismo finanziario, scene di isteria collettiva come gli assalti agli scaffali dei supermercati. Quindi, ragionare di processi di apprendimento e insegnamento a distanza, e delle metodologie necessarie per metterli in atto diventa un esercizio di importanza relativa e di senso limitato. Relativa a quella che è diventata l’esperienza quotidiana di migliaia di persone (alunni, studenti, insegnanti) costrette a riorganizzare la routine tra le mura domestiche, e limitata al senso di ciò che in questo Paese definiamo con un’abusata metonimia giornalistica “scuola”, ma che più propriamente dovremmo chiamare diritto all’istruzione.

In queste settimane di quarantena e di sospensione dell’attività didattica ordinaria la cosiddetta “didattica a distanza” (DAD) è diventata la categoria ministeriale all’interno della quale vengono sintetizzate istanze, pratiche e bisogni eterogenei che variano a seconda dell’ordine e del grado di istruzione, e all’interno di ciascun grado degli indirizzi, ma che riflette, soprattutto, il modo in cui le disparità territoriali (economiche, sociali, infrastrutturali) si riverberano sul funzionamento delle istituzioni scolastiche o universitarie.  Una riflessione sostanziale e articolata sulla didattica a distanza richiederebbe quindi la capacità di pensare una tale complessità, di argomentare un multiverso di elementi contraddittori e dati statistici rilevati da questo enorme esperimento, e che peraltro al momento non abbiamo.

 Di fronte a questo livello di complessità è utile quindi spogliarsi preliminarmente dei vestiti ingannatori dell’universale per argomentare a partire dalle pratiche, dalle modalità con cui, chi scrive, ha affrontato la contingenza. In queste settimane sono stato occupato dal tentativo di tenere vive le relazioni con quattro classi liceali (indirizzi e anni differenti) in ognuna delle quali insegno due discipline erroneamente credute, da una tradizione accademica di antica gloria, gemelle: storia e filosofia. Le mie riflessioni nascono a partire da quello che credo di aver imparato, quindi, come in ogni esperienza di apprendimento, sono piene di errori ed elementi discutibili. Provo ad articolarli in brevi paragrafi, piccole rapsodie senza alcuna pretesa di analisi sociologica, addensate da domande per le quali non ho risposte definitive e a partire dalle quali abbozzo qualche riflessione di carattere più generale. Sono consapevole che questa affermazione contraddice l’esordio, ma per certi versi non posso farne a meno, è la mia deformazione professionale di studioso di filosofia.

Distanza  

In quella meravigliosa raccolta di saggi sulla relazione tra conoscenza e distanza con il titolo collodiano di Occhiacci di legno, Carlo Ginzburg sostiene che «tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa o a qualcuno». Lo straniamento, l’azione in alcuni casi subìta da chi prende le distanze dalla realtà circostante per riuscire a parlarne in modo veritiero, è un tópos ricorrente in miti e leggende di svariate culture. Wittgenstein, che di Ginzburg è fonte d’ispirazione fin dai tempi di Storia notturna, paragona i filosofi a bambini che «prima scarabocchiano con la matita linee arbitrarie sulla carta e poi domandano agli adulti: “Che cos’è?”» [The Big Typescript, XII, 11; tr. it. p. 427]. Prendere le distanze è una tecnica che ci aiuta a porre le domande giuste per conoscere qualcosa o qualcuno.

In queste settimane ho fatto questa esperienza di straniamento rispetto alle persone con le quali in questi mesi, con alcune in questi anni, ho costruito relazioni fatte anche di linguaggi non verbali, di posture, gesti, sguardi. Per la prima volta mi trovo a insegnare prescindendo da tutto questo tacito impensato della mia quotidianità. Non che non mi sia mai chiesto perché e come ogni mattina quel ragazzo o quella ragazza fossero entrati in relazione con me, attraverso l’ascolto attivo, la partecipazione alle attività didattiche, le verifiche: chi mastica un po’ di scuola sa bene che la motivazione nell’apprendimento è tutto. Ma adesso, estraniato da quel grande distrattore che è l’aula scolastica, dalla disposizione spaziale dei banchi, della cattedra, della lavagna multimediale e di quella di ardesia, mi trovo a riflettere su quali aspetti della comunicazione, e più in generale della mediazione didattica, devo lavorare per arrivare a tutti in maniera personalizzata, intercettando i bisogni di persone che non ho sotto la disponibilità dei miei occhi, la sensibilità delle mie antenne di fastidioso grillo parlante. È un compito arduo che, almeno a me, richiederà tanto tempo e una generosa possibilità di commettere errori.

Prima di tutto perché il dialogo, la pratica essenziale alla base delle discipline che sono chiamato ad insegnare, è impossibile. Il confronto verbale fatto di domanda e risposta alla base del dialogo è uno strumento per colmare la distanza tra le persone che vi prendono parte. È una pratica che richiede quindi distanza ma anche prossimità, capacità di porre le domande ma anche abilità nell’intercettare lo spazio scavato dalle domande con un discorso di risposta, un intervento. È una pratica verbale che poggia sulla presenza e richiede dei tempi precisi, delle tacite intese, la percezione del significato di un silenzio, di una pausa così come della prossemica di chi prende la parola.  

Finora, tra video-lezioni in cui registro il mio desktop/lavagna, questionari di comprensione delle video-lezioni e lavoro in simultanea sui testi (comprensione, analisi di fonti o di brani antologici) nel corso di una videochiamata (via Google Hangouts Meet) ho provato a dare una risposta a queste due domande. Spesso mi trovo a dovermi immaginare i loro visi mentre commento la lettura del testo che ho fissato sullo schermo, le loro reazioni impercettibili. A volte mi blocco e provo a stimolarli, li invito a prendere la parola. Prima che ciò avvenga c’è sempre una quiete anomala, come se tante auto ferme ad un incrocio litigassero per chi deve avere la precedenza. Altre volte invece le voci si accavallano, lo stallo alla messicana si trasforma in un bel tamponamento multiplo e devo intervenire a ristabilire un ordine di intervento. In questi casi mi sento un amministratore ad una rissosa riunione di condominio.  

Ho la sensazione che il dialogo, così come lo abbiamo praticato finora, non sia surrogabile e che in qualche modo tutti, anche coloro i quali in classe tendevano a sottrarsi, ne avvertano la mancanza. In fondo il bisogno di vedersi e ascoltarsi in videochiamata, anche in orari tradizionalmente non scolastici, credo sia il modo dei ragazzi di comunicare la loro nostalgia per il dialogo. Leggete i post sui social o le testimonianze degli insegnanti, in particolare della scuola secondaria: il filo diretto con i ragazzi si protrae spesso per l’intero arco della giornata, alcuni di loro danno l’impressione di non voler mai interrompere il contatto. Le ore del giorno, a volte, non sono sufficienti per rispondere a tutti, correggere e inviare le correzioni dei compiti, produrre e condividere nuovo materiale, passare la mattina in videochiamata. E posso solo immaginare quali siano le difficoltà dei colleghi che insegnano discipline tecnico-pratiche negli istituti tecnici e professionali: in quel caso la distanza, senza la possibilità di esperienze laboratoriali dirette, diventa abisso.

 Come conciliare didattica a distanza e dialogo formativo? È possibile trovare una forma del dialogo che tenga conto della non simultaneità delle interazioni o in qualche modo siamo chiamati a ripensarne gli aspetti essenziali? Forse, in questa contingenza, sarebbe più sensato rimodulare il gruppo classe e agevolare la pratica del dialogo, almeno inizialmente, in gruppi più ristretti?

Ecco, la prima cosa che penso di aver imparato: la ricerca del dialogo è la telemachia della quarantena degli adolescenti. Dovrò tenerne conto e agevolare la navigazione di questi “guerrieri lontani” (tale è il significato di Telemaco), essere per loro più Nestore, prodigo di consigli e racconti sul padre lontano che Laerte, incapace di adattarsi all’assenza di Ulisse.       

didattica a distanza
Italia, 2020. Due insegnanti ormai padroni della rete grazie alla didattica a distanza.

Mediazione

  Nella prima settimana di sospensione dell’attività didattica confesso di essere stato preso dall’ansia di colmare il vuoto. Pensavo alle due classi terminali in cui mi trovo a lavorare, al modo in cui avrebbero dovuto affrontare l’esame, un obiettivo di cui, ad inizio marzo, non si intravedeva neanche la sagoma. Così ho inizialmente registrato delle videolezioni e assegnato loro delle letture: il collegio dei docenti non si era ancora riunito, non avevamo ancora autorizzato l’uso di una piattaforma per la didattica a distanza comune e ci siamo arrangiati con un modesto sito generato da Google. Dopo pochi giorni mi sono accorto che stavo sprofondando nel peggiore dei gironi infernali: avevo abdicato a stimolare ogni forma di partecipazione attiva dei ragazzi, se non nella ricezione del materiale che condividevo con loro, e mi stavo limitando a trasmettere contenuti, in quello che nel senso comune è il peggiore degli stili liceali/accademici. Mi sentivo tentato a proseguire su questa strada dalla grande abbondanza di contenuti sugli aspetti, anche i più capillari, della mia programmazione reperibili sul web: quale insegnante di storia non ha utilizzato in questi giorni i video di qualche abile divulgatore, come Alessandro Barbero, o qualche bel documentario delle Teche Rai?

 Pensavo, sbagliandomi di grosso, che sarebbe stato sufficiente costruire un percorso all’interno di contenuti accuratamente selezionati per guidarli, a distanza, nello studio. E invece mi sono accorto di averli spesso lanciati in un ecosistema comunicativo caratterizzato da granularità e frammentazione, senza aver prima allenato la loro capacità di riconoscere e codificare questi frammenti all’interno di operazioni di costruzione di senso più ampie (periodizzazioni, collegamenti multidisciplinari, compiti di comprensione e analisi di una fonte opportunamente selezionata). Come ha notato Gino Roncaglia in un libro che ritengo fondamentale per comprendere il ruolo dell’istruzione in questo tempo, L’età della frammentazione «I nostri studenti sono molto bravi – molto più delle generazioni precedenti nell’integrare comunicazioni testuali, visive e sonore e nel muoversi da un’informazione all’altra. E sono molto bravi a interagire velocemente con l’informazione ricevuta. Sono decisamente meno bravi nel reperire, produrre, valutare, gestire informazione complessa e strutturata» [p. 40]. Nelle prossime settimane proverò ad essere più un antidoto alla granularità dei contenuti che il web mette loro a disposizione che un pusher di frammenti di conoscenza. Ho altresì scoperto che quando impegno le mie energie a guidarli nella ricostruzione di scenari più ampi in cui inserire le informazioni frammentarie, anziché produrre, reperire e spacciare contenuti, mi trovo felicemente invischiato in quell’approccio multidisciplinare che i documenti ministeriali evocano, come un arconte gnostico, da decenni.

  In secondo luogo bisognerebbe riflettere sul fatto che il video, la costruzione di un percorso di apprendimento con informazioni che passano principalmente dal canale visivo, sia in questo momento il perno intorno a cui ruota la didattica a distanza afferente ad ogni ordine e grado di scuola. Non tanto da una prospettiva apocalittica, visto che nella sciagura la relazione mediata dagli schermi è l’unico strumento che abbiamo a disposizione. Esiste peraltro una letteratura critica ma equilibrata sull’argomento (penso ad esempio alle varie cose scritte da Roberto Casati negli ultimi dieci anni) che ci aiuta a capire come lo schermo diventa un pericolo per lo sviluppo cognitivo solo se non è un pasto in una dieta sensoriale ben bilanciata, che include quindi anche altre attività oltre alla passività della visione pixellata. Credo piuttosto che per noi insegnanti sia arrivato il momento di aprirci ad una formazione più ampia sulle interazioni tra ragazzi ed ecosistema digitale, che tenga conto delle neuroscienze cognitive e del dibattito epistemologico che le accompagna. Riguardo al rapporto con gli schermi penso, ad esempio, alle ricerche di Semir Zeki sulle modalità di funzionamento del cervello visivo e all’applicazione che queste hanno trovato in ambito pedagogico e didattico.

 Forse più che investire denaro e fatiche in noiosissimi webinar sull’uso di questa o quell’applicazione, foraggiando spesso chi sulla didattica a distanza sta facendo dell’ignobile sciacallaggio, è il caso di chiedere alle istituzioni scolastiche una formazione rigorosamente scientifica centrata sulle modalità di funzionamento del cervello in apprendimento in una contingenza limite come quella che stiamo vivendo. Se forse queste sono osservazioni scontate per chi insegna alla scuola dell’infanzia e alla scuola primaria, qualche predella, in un qualche glorioso liceo, potrebbe forse essere illuminata dalla scoperta dell’importanza che l’adattamento percettivo gioca nel funzionamento della memoria, per scoprire così che non esiste alcun apprendimento significativo che si realizzi imponendo a venti persone, addensate in pochi metri quadri, la disciplina all’astrazione senza concreto, del pensiero come meccanica acefala della riproduzione di contenuti. È giusto sperare, non è mai troppo tardi.     

Studenti cinesi durante una lezione della Academy of Arts and Design at Tsinghua University. (Photo by GREG BAKER / AFP) (Photo by GREG BAKER/AFP via Getty Images)

Parti uguali fra diversi

   La settimana scorsa, mentre con una videochiamata stavamo correggendo un questionario su una videolezione, il collegamento di un paio di ragazzi è saltato. Li ho videochiamati su whatsapp e a quel punto siamo andati avanti su due schermi. Due giorni fa, durante una lezione di approfondimento, una ragazza mi ha dovuto salutare perché doveva cedere il computer a uno dei genitori, che doveva lavorare. La maggior parte dei miei alunni condivide i device con fratelli e sorelle che frequentano altri ordini e gradi di scuola. Aggiungo che la mia scuola si trova su una piccola isola tirrenica e che nelle aree interne la potenza del segnale di rete è praticamente inesistente. Molti ragazzi rimangono agganciati al treno della didattica a distanza con connessioni di fortuna, chiavette con schede sim ricaricabili e smartphone. E potrei andare avanti.

 Questo primo mese ha messo a nudo una questione costantemente rimossa in qualunque dibattito politico sulla qualità dell’istruzione: le disuguaglianze sociali, economiche, territoriali sono un fattore determinante tanto per il livello di dispersione scolastica del nostro sistema, altissimo per un paese ad economia avanzata, quanto per quello di successo. E non si tratta solamente del digital divide registrato dall’ISTAT il 6 aprile. In tante case mancano tecnologie ancora più essenziali per il successo scolastico: i libri. Ma soprattutto mancano i lettori, impegnati a sopravvivere e a tenersi stretti lavori volatili e mal retribuiti. Obnubilati dalla vacua retorica dell’eccellenza e da tutto lo sciocchezzaio lessicale del marketing postfordista dimentichiamo che l’apprendimento e l’insegnamento sono attività che si svolgono all’interno di contesti più o meno ricchi, più o meno poveri, più o meno periferici.

 È la questione delle questioni, che sento nello stomaco ogni mattina, quando saluto guardando la webcam del mio portatile. Se non la affrontiamo immediatamente, con azioni di riduzione delle disuguaglianze rispetto alle possibilità di accesso al diritto all’istruzione, e con azioni di ammodernamento infrastrutturale, quando il placarsi della pandemia lo permetterà, della didattica a distanza, e delle utili riflessioni che ha stimolato non rimarrà che l’ennesima foglia di fico ideologica da sistemare sull’alberello della scuola pubblica.  

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