L’incompiuto che ci tiene vivi. Un dialogo con Ginevra Bompiani

Alcune domande a Ginevra Bompiani, scrittrice, editrice e traduttrice, a partire dal suo ultimo libro Mela zeta (nottetempo, 2016).

«A casa mia, fin da piccola, si evitava di annunciarmi che era morto qualcuno. Succedeva perciò che continuassi a vivere in mezzo a gente morta da tempo e che lo scoprissi per caso». Mela zeta (nottetempo, 2016) raccoglie testi scritti nell’arco di undici anni dedicati a persone più o meno illustri che Ginevra Bompiani ha incontrato. Che si tratti del monito di Elsa Morante a «non essere puerili» o della «profonda inadeguatezza alla vita» di Ingeborg Bachmann, delle donne di Srebrenica o dell’armonia di una serata con Gilles Deleuze, l’autrice regala una serie di ritratti di grande umanità scanditi da un tempo «che passa a strusciare la verità, di un essere, di un paesaggio, di una storia» attraverso lo sguardo di una «dilettante» che quando incontra l’emozione cerca di «diluirla con lunghi respiri e col pensiero». Qui di seguito un dialogo con l’autrice.

Nicolas Gruarin – Il metodo alla base del titolo sembra restituire la vita come «una serie infinita di errori e di occasioni mancate». Incontri a cui lei ammette di essersi sottratta, a cominciare da se stessa. «Quello che non sono stata o mi sono dimenticata di essere» scrive. Una scelta che si riversa nella lingua che tace, si fa interiore, sorvegliata, dove tutto è presente e puntuale. Eppure si avverte l’esigenza di restituire qualcosa, come se questi ritratti fossero innanzitutto degli atti d’amore.

Ginevra Bompiani – Questo però è un aspetto, non tanto della vita quanto della memoria. Perché di tutti questi “errori” o “errare” è fatta la vita. Questo libro si è composto, poco per volta, scegliendo da solo gli incontri e le persone da raccontare. E quando poi li ho guardati, ho visto che quel che li univa era questo senso che «qualcosa era mancato», ma queste sono anche le forme che prende la nostalgia, quando qualcosa ci sembra incompiuto. Non aver potuto accettare un invito a cena, non aver saputo rispondere a una richiesta pressante, non aver fatto quella domanda… Certo, è una nostalgia d’amore. Ed è anche il motore del libro, è quel che manca che ci mette in moto, che ci tiene svegli.

N.G. – Mela zeta raccoglie testi scritti tra il 2005 e il 2016 eppure possiede un’età specifica, dove la coscienza è «una valigia che rimbalza sugli scalini dietro di te». Il tempo è connotato da assenze che, invece di formare un vuoto, riempiono le pagine come le onde «di emozione» del prologo ricoprono la spiaggia notturna che rimane impotente – quasi una figurazione dell’autrice. Un movimento che sembra ricordare quanto la letteratura non sia un fatto compiuto ma un luogo in cui il passato si riversa nel presente. È d’accordo?

G.B. – Sì, credo che sia così. Come dicevo, è l’incompiuto che ci tiene vivi ed è l’incompiuto, credo, che forma la materia della scrittura, come di ogni forma d’arte.

N.G. – «Per le persone che ho conosciuto e amato, ho sempre avuto una curiosità umana, prima che culturale. O meglio, la loro cultura, la loro arte per me facevano corpo con loro». Leggendo Mela zeta, più che ai nomi è importante prestare attenzione al contesto per riconoscere le persone. L’uomo in ospedale in attesa di sottoporsi a un intervento delicato o l’anziana fuggita da Srebrenica non hanno meno rilevanza di figure più celebri. Dove nasce l’intenzione di includere nel libro anche questi incontri?

G.B. – Come dicevo, tutti questi incontri si sono presentati da soli, un po’ per volta, alla scrittura, alla forma del libro. Avevano tutti una parte “inesplosa”, erano tutti dotati di un futuro che non è questo presente. E non solo perché alcuni di loro sono morti, altri svaniti, ma per la «sventatezza e lo spreco» che si accompagnano al tempo. Sia i personaggi famosi che quelli sconosciuti o segreti sono qui semplicemente “raccontati”: Elsa Morante sulle spiagge di Ponza, Gilles Deleuze in un pianerottolo di Parigi, Manganelli che scappa giù per le scale, non sono presentati come scrittori o filosofi ma come esseri umani miracolosi, colti al volo, come una stoffa pregiata usata quotidianamente. Più tardi ti dici: ma forse dovevo appenderla al muro quella stoffa, o riporla in un armadio per non sciuparla, e poi ti rendi conto che solo nell’uso quotidiano potevi godere della sua straordinaria finezza.

N.G. – Tra molti ritratti, la coscienza del libro è una sola. Nonostante lei scelga di restare «alla periferia dell’emozione» e degli eventi narrati, dalle pagine emergono molti dettagli – anche scomodi – che la riguardano. Una specie di corpo a corpo con se stessa che sembra portare a una nuova consapevolezza. Viene in mente il suo «Perché scrivete?» – contenuto in Narratori delle riserve di Gianni Celati –, dove la scrittura si sente protetta dai suoi argini – sgomento e scoramento – senza doverli più affrontare, fino a «scorrere in discesa» lasciandoseli alle spalle, «perdendosi in un’acqua» che non le appartiene.

G.B. – Quel che dice è tutto giusto. Non so quasi che cosa aggiungere. Anche quel breve testo in risposta alla domanda “perché scrivete” partiva da una notazione molto personale, un umore da attraversare con la scrittura. La scrittura è un mezzo che ti trapassa, nel senso che ti trafigge e che ti passa attraverso, senza perdersi niente di te anche quando non si occupa di te. In questo libro, lo sguardo era tutto volto verso i personaggi della mia vita, ma lo sguardo è dotato di palpebre e ciglia che battono.

N.G. – Oltre che scrittrice, lei è anche una stimata traduttrice. Tra gli autori tradotti si ricordano Antonin Artaud, Robert Bresson, Emily Brönte, Leonora Carrington, Louis-Ferdinand Céline e Marguerite Yourcenar. Tempo fa ha paragonato la pratica della traduzione al «rifare in macchina il percorso di una barca». È cambiata la sua percezione nel corso degli anni?

G.B. – No, è sempre la stessa. La traduzione è una pratica, una tecnica e un mezzo di trasporto. È anche una buona scuola di lettura e di scrittura. Devi diventare un po’ l’altro, se lo vuoi tradurre senza tradirlo, un altro che scrive nella tua lingua, mentre, per converso, come dice Deleuze, «si scrive sempre in una lingua straniera».

N.G. – Dopo aver fondato e diretto fino allo scorso anno la casa editrice nottetempo – che annovera nel suo catalogo anche diversi degli autori citati in Mela zeta – attualmente ne cura la collana di libri illustrati «Luce mediterranea». Quali voci e storie intende accogliere nella collana?

G.B. – Anche la collana si forma poco per volta, sposando un testo con delle illustrazioni. Ogni volta è un incontro nuovo, finora c’è stato un libro di Giorgio Agamben, Pulcinella o Divertimento per li ragazzi, illustrato da Giambattista e Giandomenico Tiepolo, e un racconto di Hoffmann, Il piccolo Zaccheo detto Cinabro, illustrato da Steffen Faust. Due libri bellissimi, devo dire, anche se molto diversi tra loro. I nuovi libri li scoprirà nel nuovo anno…

Print Friendly, PDF & Email
Close