Una dialettica del giusto.
Abbattere le statue è un gesto che accompagna da sempre rivoluzioni e cadute di regime. I rivoluzionari iraniani abbatterono le statue dello scià nel 1979. Nei paesi del blocco sovietico in dissolvimento furono abbattute le statue di Lenin. Quando rovesciarono il regime di Saddam Hussein in Iraq, a Baghdad un soldato americano con gesto iconoclasta coprì con una bandiera a stelle e strisce il volto del dittatore arabo su una statua che lo ritraeva. È sempre il vincitore ad abbattere le statue. Poco importa se, sul piano politico o militare, di lì a poco il vincitore verrà a sua volta rovesciato e diventerà sconfitto. Durante la Comune di Parigi Courbet dirige l’abbattimento della colonna che in Place Vendôme celebra le vittorie di Napoleone I: caduto il Secondo Impero di Napoleone III, i comunardi si accaniscono sul monumento celebrativo del suo glorioso zio. Ma, appena ristabilito l’ordine, la Terza Repubblica condannerà l’artista a pagare le spese di ricostruzione della colonna. Tuttavia, nel momento in cui i comunardi la abbattevano, erano vincitori. Si può dire che la distruzione del monumento, per così dire, performa una vittoria.
Bisogna allora distinguere due coppie di figure: vincitori/vinti e oppressori/oppressi. Non tutti i vincitori sono oppressori: i comunardi, nel breve periodo in cui istituirono un governo basato sulla democrazia diretta, erano vincitori, eppure combattevano contro l’oppressione. Si potrebbe quasi immaginare il monumento come il perno centrale di uno spazio di gioco, all’interno del quale amici e nemici nello scontro devono assumere figure di giocatori sempre dotate di due livelli di letture: vincitore-oppressore, vincitore-oppresso, vinto-oppresso, vinto-oppressore. In tedesco monumento si dice Denkmal: il monumento è qualcosa che dà da pensare (denken). Si potrebbe dire che secondo questa prospettiva performativa il monumento è Spielmal, un operatore di giochi (Spiele) politici tra parti contrapposte.
Il termine “monumento” rimanda all’idea non tanto di un pensiero da lasciare quanto di un ammonimento, un monumentum. Non sono effigiati per forza grandi del passato a cui la memoria non deve smettere di volgere il pensiero: statisti, condottieri, navigatori, scienziati, letterati, filantropi e benemeriti di ogni sorta. L’ammonimento discende direttamente dall’autorità, non dalla memoria. Il tipo del sovrano effigiato a cavallo non è quello del capo la cui gloria è consegnata alla storia: è il sovrano vivente che, per dirla con Louis Marin, “mette in riserva la forza nei segni”. Nella semantica del monumento c’è il potere dell’autorità; nella semantica del Denkmal c’è il potere della memoria. Com’è stato osservato, la damnatio memoriae antica segue regole affatto diverse dal gesto iconoclasta del rivoluzionario moderno. Verrebbe da dire che il nuovo imperatore, sradicando l’immagine e il nome dell’imperatore precedente da statue, monete e iscrizioni, iscrive nel monumento mutilato un nuovo segno, una nuova riserva di potere. In altre parole, gioca un altro gioco rispetto alla dialettica che oppone oppressi e oppressori.
Una differenza fondamentale tra la damnatio memoriae e la decapitazione rivoluzionaria (la defenestrazione, l’oltraggio o la mutilazione) dei monumenti sta nel fatto che il primo gesto sintetizza il passato nel presente, mentre il secondo gesto rinvia il presente al suo debito con il passato. In altre parole, l’atto della damnatio memoriae sostituisce un’autorità con un’altra, ma non modifica la relazione tra governanti e governati su cui si regge la costituzione del corpo politico. Il secondo gesto richiama invece alla dinamica descritta da Walter Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia: l’atto che modifica la rappresentazione del potere mette in opera anche un cambiamento storico, modifica cioè i rapporti di potere in essere nel confronto politico. In questo senso, si tratta sempre di un atto più o meno rivoluzionario. L’angelo della storia, la figura con cui Benjamin descrive metaforicamente questo processo, per agire il cambiamento storico mette in immagine una costellazione che collega dialetticamente passato e presente. Di conseguenza qui l’autorità del passato non viene sintetizzata in quella presente. Al contrario è il presente a guardare, sia pure criticamente o dialetticamente, al passato e solo a partire da questo confronto costruisce la sua concezione di giustizia e di potere. Forse uno dei tratti che contraddistingue la modernità sta proprio nel fatto di traghettare la performatività dell’immagine monumentale dalla sintesi cumulativa alla dialettica critica tra passato e presente.
Se c’è un rimosso nell’eliminazione o nell’oltraggio delle statue dei “grandi razzisti” del passato più o meno prossimo o lontano dell’Occidente, sta proprio nel mancato riconoscimento della dimensione storica (e dialettica) della memoria. La questione non è tanto il limite invalicabile che incontriamo quando tentiamo di giudicare il passato con i nostri criteri etici: finiamo inevitabilmente per mettere sullo stesso piano il mercante di schiavi filantropo Edward Colston e il combattente contro il nazifascismo Winston Churchill. La questione è che pretendiamo di far valere la memoria come se fosse una sintesi del passato nel presente: ne risulta un’autorità svincolata dalla storia, che sopprime nel momento stesso in cui ne celebra il compimento. Prima del tramonto delle ideologie era la storia, non la memoria, la levatrice dell’emancipazione degli oppressi. E i suoi profeti, come Marx e Engels nel Manifesto, non smettono di ricordare agli oppressi di oggi di guardare agli oppressori di ieri anche come attori di un cambiamento che riguarda tutta l’umanità.
Non si tratta di accettare i crimini del passato come “mali necessari” nella teodicea del progresso. Si tratta di riaffermare il carattere storico della memoria, il debito che quest’ultima ha contratto con un passato che non è un dato di fatto, ma dipende dall’analisi e dall’interpretazione dei documenti che lo testimoniano. Il punto è che i monumenti sono anche documenti del passato. Abbatterli significa rinunciare a studiarli, cioè a compiere una ricostruzione critica del passato. Non è una questione di eruditi, è una questione politica: rinunciare alla disamina critica del passato, che richiede la sua conservazione, significa infatti consegnarci a inediti “padroni della storia”. Questi nuovi potenti potranno manipolare il passato senza controllo e ne faranno gli usi politici che vogliono.
Prima della nuova esplosione della questione sul razzismo, negli Stati Uniti era già iniziato un processo di rimozione delle statue che effigiano i comandanti confederati nella Guerra di secessione. Si trattava di rimozione decise dai governi e dalle assemblee locali, all’interno di un processo di deliberazione pubblica e di rappresentanza della cittadinanza. Da più di un secolo queste statue costellano il paesaggio delle città del Sud e formano una sorta di memoria resistenziale: attraverso di esse gli sconfitti riaffermavano la loro memoria e il potere che esercitano sul territorio e sull’immaginario. Negli Stati Uniti la questione fin dalla fine della Guerra di secessione è stata quella di decidere se segregazione e discriminazione razziale fossero ammissibili all’interno del patto che fonda la società civile. La rimozione delle statue non è un gesto rivoluzionario di opposizione ma un gesto costituzionale di ridefinizione della cittadinanza. È un gesto che non elimina la storia, ma se ne fa carico.