Pubblichiamo un estratto di “Dialettica del controllo” di Stefano Velotti, edito da Castelvecchi. Il saggio indaga la dinamica tra controllo e perdita del controllo nella società contemporanea, rintracciando nelle pratiche artistiche un’occasione esemplare per comprendere la complessità di quella che l’autore definisce “dialettica del controllo”.
Una prodigiosa coincidenza
Le nostre società occidentali, con le loro propaggini e ramificazioni, sono riuscite, negli ultimi decenni, a realizzare un prodigio, una tangibile e terrena coincidentia oppositorum: la coincidenza tra il più stretto controllo e la più allarmante perdita di controllo. Tale coincidenza non è una cooperazione tra opposti, ma tra due poli che si sono scissi. Fuori di questa coincidenza resta solo qualche residuo, qualche sfasamento, dove ciò che è possibile e auspicabile avere in nostro controllo, e ciò che necessariamente gli sfugge o dovrebbe sfuggirgli, trova ancora qualche scampolo di spazio e di tempo. Una cooperazione tra controllo e non-controllo è una condizione necessaria per ogni organismo vivente, ma anche una società, una cultura, non possono rinunciarvi, se vogliono restare vive.
Il controllo e la sorveglianza sono ormai oggetto di studi numerosissimi, e così le opere, le performance, i romanzi che si propongono di affrontare queste realtà con i propri mezzi. Il limite di queste prospettive, però, è che si concentrano per lo più sul controllo e la sorveglianza che solitamente una minoranza – che può avvalersi di tecniche e poteri sempre più invasivi e sofisticati – esercita su una maggioranza (anche se nel mondo dei social, oltre che nella società reale, accade frequentemente anche il contrario). Questi fenomeni sono certamente reali e rilevanti.
Tuttavia, il controllo, nelle sue molteplici forme, non può essere identificato senz’altro con la sorveglianza. Questa identificazione viene data generalmente per scontata, sia da chi vede nel controllo un “male” a cui sottrarsi, sia da chi lo invoca per rendere la vita più “sicura”. Credo invece che sia necessario partire da una prospettiva più ampia: noi tutti, infatti, siamo agenti caratterizzati dalla capacità e dalla necessità di esercitare un controllo su noi stessi, sugli altri e sul mondo; ma siamo al tempo stesso agenti che nelle loro azioni, nei loro pensieri, nelle loro produzioni – nel complesso della loro esperienza – sfuggono al controllo proprio o altrui, generano e si nutrono di condizioni non controllate o controllabili. O almeno così dovrebbe essere: senza che sia necessario immaginare una composizione armonica irrealistica e stucchevole, si tratta di identificare modi di vivere e agire riuscendo a far cooperare due principi opposti, che traggono vigore e senso l’uno dall’altro. Ma cosa accade se questi due aspetti si scindono, divorziano, pur coincidendo nella stessa persona, nella stessa società? Invece di cooperare, l’uno o l’altro polo si alternano incessantemente nello stesso spazio e nello stesso tempo, occupando tutta la scena, degenerando “dialetticamente” l’uno nell’altro
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Il sogno della modernità (e il nostro sonno agitato senza sogni)
Una trentina d’anni fa, riflettendo sul proprio libro Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria, dedicato all’“esperienza della modernità”, Marshall Berman diceva di:
«aver cercato di aprire una prospettiva che rivelasse come movimenti culturali e politici disparati fossero parte di un unico processo: donne e uomini moderni che affermano la loro dignità nel presente – anche in un presente infelice e oppressivo– e il loro diritto a controllare il loro futuro; che lottano per trovare un proprio spazio nel mondo, uno spazio in cui si possano sentire a casa propria (p. 11-12)»
Il “diritto a controllare il proprio futuro” ci ricorda che l’esigenza di controllare l’ambiente, la natura, noi stessi e le nostre relazioni è un’esigenza irrinunciabile. Ma proprio l’“esperienza della modernità” ci ha insegnato che essere moderni non significa solo vivere in un ambiente che «ci promette avventura, potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del mondo», ma anche che «minaccia di distruggere qualsiasi cosa possediamo, conosciamo, siamo». In pochi decenni, promesse e minacce dell’esperienza moderna sembrano essere impazzite come una maionese: gli esclusi dal “diritto di controllare il proprio futuro”, anche in piccola parte, si sentono dissociati da ogni speranza di contare qualcosa e cadono nel panico e/o lo provocano negli altri; altri vorrebbero immunizzarsi da ogni minaccia imprigionandosi in uno stato di morte anticipata in qualche gated community (un’area recintata, privatizzata, controllata), magari da allargare ai confini nazionali; il controllo su se stessi si pulsionalizza (il controllo va fuori controllo), e il tentativo di preservare, conservare, proteggere si trasforma nel suo opposto.
C’è chi ha visto perfino nell’Unesco un caso di controllo “a fin di bene” dagli effetti perversi: «un killer seriale di città si aggira per il pianeta. La sua arma letale è l’etichetta “Patrimonio dell’umanità”. Con questo marchio dissangua e imbalsama villaggi gloriosi, metropoli millenarie, sottraendo il tempo al naturale divenire» (M. D’Eramo). Non so se sia l’Unesco o siano invece, più probabilmente, le amministrazioni locali e centrali a provocare questa morìa, né il «naturale divenire del tempo» è poi una nozione tanto chiara. Il tempo della natura è semmai quello ciclico delle stagioni. In passato, a questo tempo corrispondevano dei riti. Il carnevale, per esempio, era uno di questi, e aveva la funzione di conservare e rigenerare un certo ordine, che le società moderne, almeno in linea di principio, non accetterebbero più. Quel che succede nelle nostre città storiche, però, all’insegna della conservazione del passato, del controllo della loro integrità, è una riedizione triste e spettacolare di un carnevale diventato permanente, al pari di molte altre attività inghiottite dalla uniformità del “24/7”. Una mascherata continua, un sipario sempre aperto, dove si inscena una realtà morta e imbellettata come nelle funeral homes americane, all’insegna del cinismo più bieco: centurioni romani, pasta tricolore nei borghi medievali accanto a negozi di balestre, alabarde, armature, padri pii e paccottiglia globale. Questa carnevalata “24/7” rende irreale quel che finge di voler conservare (la storia, le tradizioni, la “bellezza”) e svela come sua unica realtà la miseria più cruda e deprimente del commercio e del profitto turistico (e spesso della più invadente criminalità), delle amministrazioni comunali in cerca di consenso, dell’espulsione degli abitanti dai centri storici, della distruzione di ogni forma di vita. Conservare non può significare immunizzare, imbalsamare. Ma “irrealizzare” carnevalescamente la vita non è un antidoto alla paventata perdita di controllo sulle città, è solo un veleno disneyano con cui si asperge questo de profundis.
Quanto al sogno di sentirsi a casa propria in questo mondo – l’altra legittima aspirazione che Berman attribuiva ai “moderni” – mi ha colpito un fenomeno che negli Stati Uniti è stato battezzato clutter crisis: la ‘crisi da ammasso’, accumulo, disordine. Tale fenomeno è diventato globale, altrimenti il libro della giapponese Marie Kondo, Il magico potere del riordino, non sarebbe diventato un best seller planetario. Le case delle famiglie californiane studiate da un gruppo di antropologi e sociologi scoppiano, sono troppo piene di oggetti e gadget che la società dei consumi comanda di acquistare, provocando uno specifico stress da sovrabbondanza, con alterazioni controllabili dei livelli di cortisolo. Questo caso, per quanto possa erroneamente apparire marginale, mi sembra emblematico della perdita di controllo, dato che la speranza di “sentirsi a casa propria in questo mondo” cede all’impossibilità di sentirsi a casa propria precisamente a casa propria. Chissà che non siano esperienze di questo genere ad aver spinto milioni di persone – tanto per restare ai best seller internazionali, anche se ormai un po’ invecchiati – a compensare fantasmaticamente questa perdita di controllo con l’immersione nel romanzo soft porn Cinquanta sfumature di grigio, il cui protagonista maschile è un control freak, un ‘mostro del controllo’.
Di fronte al sogno rischioso della modernità, che teneva insieme controllo e imprevedibilità, padronanza e avventura, oggi sembriamo dormire sonni agitati senza sogni, dove la più brutale realtà è tutt’al più “irrealizzata” in un carnevale permanente.
Come sonnambuli, corriamo dietro a promesse di controllo minime e sintomatiche (riacquistare il controllo della propria casa affidandoci alla guida di una sconosciuta ragazza giapponese, seguire con trepidazione le stereotipate fantasie di un prevedibilissimo control freak di cartone), subendo o demandando ad altri il controllo delle nostre vite, coincidente con la percezione di averlo irrimediabilmente perso.
Bibliografia
M. Berman, All Things Solid Melt into Air (1982), nuova edizione con una prefazione inedita, Penguin, New York and London, 1988.
M. D’Eramo, Urbanicidio a fin di bene, in «Domus», n. 982, luglio-agosto 2014