Per creare e controllare le macchine, abbiamo bisogno di sapere pensare.
Un nuovo dibattito, tra le due sponde dell’Atlantico, rivaluta il ruolo delle discipline umanistiche, soprattutto nell’ambito delle nuove tecnologie e delle sfide economico-sociali del futuro. Per creare e controllare le macchine, abbiamo bisogno di saper pensare.
Dopo decenni di ubriacatura tecnologica sembra arrivato il momento di fermarsi a riflettere, prima di ripartire (se e come ripartire è un altro discorso). Per creare macchine e tecnologia servono menti pensanti, ma fino a dove l’intelligenza può essere etichettata come artificiale?
Non è una questione passeggera ma centrale, dovuta alla prepotente avanzata della tecnologia nelle nostre vite. Soprattutto perché, quando ci sono in ballo robot e macchine a cui viene delegato – se non un pensiero – quantomeno un agire autonomo, si sconfina molto rapidamente in campi che con la tecnologia sembrano avere poco o nulla a che fare (come, per esempio, l’etica). È anche per questi motivi che la discussione sui rapporti tra tecnica e umanesimo si è ultimamente riaccesa: alcuni tra i migliori intellettuali – italiani e non – hanno sottolineato la necessità di un ritorno all’uomo o, quantomeno, di un riequilibrio dei due piatti della bilancia. Si tratta di una posizione che solamente l’euforia tecnologica dei recenti anni può definire come conservatrice; al contrario, è l’unico modo per ridare un senso alla tecnica. Dopo la sbornia, un po’ di astinenza; dopo la concentrazione sul qui e ora, senza pensare troppo a un domani ancora più incerto dello sfocato oggi, meglio riflettere su chi e cosa ci circondano.
Ma come farlo? La risposta sta nella rivalutazione della forma mentis umanistica, sia a un livello generale sia nelle sue declinazioni scolastiche e accademiche. E qui sorge subito una domanda, soprattutto da parte della mia generazione (quelli nati nei gloriosi anni Ottanta): ma come, non ci avete ripetuto fino allo sfinimento che laurearsi in Lettere non serve a niente? Che con una laurea umanistica uno può al massimo aspirare al call center, al pizza boy, al precariato a vita? Forse sì, ma a livello generale è necessaria una pausa per mettere a fuoco i problemi e trovare le soluzioni adatte. E l’ottica migliore, per capire cosa serve, è proprio quella umanistica.
Al riguardo, due recenti contributi mi sembrano significativi per spiegare il senso del recupero del pensiero umanistico nel XXI secolo. Un recupero, si badi bene, non fine a se stesso e men che meno pensato come contrapposto alla tecnica; al contrario, un mezzo per fare dialogare proficuamente pensiero e tecnica. Il primo contributo l’ho letto proprio su questo blog: si tratta dell’intervista di Stefano Capezzuto a Jeffrey Schnapp, professore ad Harvard dove è anche fondatore e direttore del metaLAB e del Berkman Klein Center for Internet & Society, pubblicata il 6 ottobre. Schnapp è considerato uno dei massimi esperti nell’ambito delle Digital Humanities, che propone di utilizzare in modo più ragionato, abbandonando l’eccessiva fiducia nella tecnologia come mezzo capace di risolvere ogni problema. Le Digital Humanities nascono infatti dall’incontro di pensiero umanistico (in senso lato) e tecnologia digitale, che in tale incontro si ibridano: per questo motivo, il nome scelto per definirle è emblematico del peso che si attribuisce all’una o all’altra delle sue due componenti. Al riguardo, Schnapp è molto chiaro. Concorda con Capezzuto quando sostiene la necessità di ribaltare l’ottica con cui la disciplina è stata finora considerata: non più un’informatica umanistica, da studiare per ottenere «competenze digitali ritenute utili in ambito letterario, filosofico e storico», dice Capezzuto. Ma nemmeno più Digital Humanities, termine diffusosi dagli anni Novanta a sottolineare, con la diffusione di Internet e la personalizzazione del computer, il nuovo ruolo della tecnologia e la sua invadenza nelle nostre vite, aggiunge Schnapp. Che propone la nuova definizione di Knowledge Design, adatta per il periodo storico contemporaneo in cui «i dati fanno parte della nostra soggettività, della nostra società e cultura, e il digitale fa parte del modo in cui noi produciamo, diffondiamo e scambiamo le conoscenze».
Non è una proposta da poco, come appare evidente dalla scomparsa di ogni riferimento tanto al digitale quanto al pensiero umanistico. Secondo Schnapp, infatti, non si tratta più di un ambito di indagine riferito a oggetti ibridi, ma di qualcosa di assolutamente nuovo. In questo senso, lo studioso riconosce appieno l’importanza della tecnologia digitale, che non si limita più a fornire uno strumento o un supporto immateriale dove riproporre i contenuti culturali a cui siamo abituati. Il Knowledge Design va infatti oltre gli ambiti disciplinari esistenti perché «tanti progetti e pratiche ci portano già oltre i confini di una tassonomia delle discipline». Ma, allo stesso tempo, il riferimento al design presuppone la presenza di un progettista, di una mente ordinatrice che sappia ragionare e applicare le idee. Questo è il punto centrale della sua proposta, altrimenti l’apertura e la condivisione – capisaldi della disciplina – rischiano di venire fortemente ridimensionate.
Schnapp crede infatti che il coinvolgimento del pubblico nella produzione della cultura o nella ricerca, ottenuto tramite le tecnologie digitali, può avere un senso solo se è diretto da un ragionamento. Altrimenti, progetti privi di una forte indicazione metodologica coinvolgeranno persone sprovviste delle adeguate competenze e appariranno troppo deboli e, soprattutto, confusi. Al contrario, per Schnapp design significa
scomporre un problema in elementi e comprendere in quali di questi è possibile inserire la componente partecipativa. […] Ma bisogna architettare con grande intelligenza questi progetti, che molto spesso rischiano di fallire, proprio perché la partecipazione non è monolitica: non funziona allo stesso modo in ogni contesto.
Le tecnologie digitali vanno quindi applicate evitando da un lato la «convergenza tra le scienze sociali e quantitative» e «un atteggiamento difensivo nei confronti delle nuove tecnologie». Servono laboratori, che sono modelli di conoscenza collaborativi dove sporcarsi le mani per lavorare insieme: «Il digitale» conclude, «porterà sempre di più ad una contaminazione tra sfera della ricerca pura e settori della pratica». Ma, soprattutto, serve articolare la conoscenza: un ruolo che solo una mente capace di pensare, ovvero di vedere lontano, può svolgere davvero.
Il punto di vista di Schnapp è soprattutto accademico e conoscitivo. Invece, sul numero di D di Repubblica del 7 ottobre Elisabetta Muritti allarga l’orizzonte del dibattito, intitolando il suo articolo Non possiamo non dirci umanisti. Il discorso parte dagli USA, e più precisamente, dal saggio The Fuzzy and the Techie: Why the Liberal Arts Will Rule the Digital World, uscito ad aprile presso Houghton Mifflin Hartcourt. L’autore è Scott Hartley, venture capitalist con una laurea in Scienze Politiche e un curriculum non indifferente (Google, Facebook, Presidential Innovation Fellow alla Casa Bianca). Questo saggio sancisce la definitiva rivincita dei Fuzzies (“confusi & sfocati”), quei testa-fra-le-nuvole che – spiega la giornalista – hanno scelto e risceglierebbero ancora le facoltà umanistiche. Forse perché, più che nelle nuvole, la testa l’hanno ben piantata sulle spalle; e, grazie alla loro formazione, possiedono l’elasticità mentale e propositiva considerata sempre più necessaria per le sfide della società e dell’economia del futuro (come, nota la giornalista, «Uber e il dilemma tra innovazione e protezione sociale»). Insomma, riassume Muritti con tanto di grassetto, «l’Umanesimo si scopre desiderabile. Smerciabile, cool e raccomandabile alle ultime generazioni». Un cambiamento che, negli USA, è reso ben evidente dall’aggiunta della A di Arts alla sigla STEM, acronimo che indica la scelta di quel modello di istruzione scientifica basata su Science, Technology, Engineering, Mathematics. E in Italia?
Muritti ha intervistato Pierluigi Sacco e Juan Carlos De Martin, che al riguardo hanno molto da dire. Il primo è docente di Economia della Cultura allo IULM di Milano e direttore dell’IRVAPP (Istituto per la Ricerca Valutativa sulle Politiche Pubbliche) della Fondazione Bruno Kessler di Trento, e conosce gli USA perché è stato recentemente Visiting Professor ad Harvard. Per lui, il pensiero umanistico viene rivalutato oggi, negli USA, per «colmare il bisogno di punti di vista diversi»: è solo sommando all’analisi scientifica la sintesi umanistica che gli scienziati possono ottenere una visione davvero completa della realtà su cui intervenire. «Si tratta di domande sul senso» aggiunge Sacco, che cita le Medical Humanities, secondo le quali il medico deve sviluppare ascolto e comprensione nei confronti del paziente e ha quindi bisogno di incentivare competenze che si possono acquisire solamente tramite la lettura.
Juan Carlos De Martin è invece docente del corso di Rivoluzione Digitale al Politecnico di Torino, dove ha co-fondato il Centro Nexa su Internet e Società. Inoltre, è autore del saggio Università futura. Tra democrazia e BIT, edito nel 2017 da Codice Edizioni, con il quale analizza la società contemporanea chiedendosi quale ruolo e quale influenza spettino e spetteranno all’università, nel mondo e in Italia, per contribuire alle sfide del futuro. E infatti, nell’intervista la sua principale preoccupazione riguarda la formazione di questi “neo-umanisti”, alla quale dovrebbero provvedere i politecnici offrendo corsi umanistici e sociali obbligatori e quindi formando figure dotate di competenze pratiche ma mente aperta. Una posizione che, nel suo libro, De Martin fa risalire al modello degli studi undergraduate nelle università americane, quando gli studenti possono spaziare tra discipline tra loro diversissime per farsi una cultura generale (anche se, aggiungerei, a volte un po’ troppo superficiale).
Si tratta di una questione davvero rilevante, dal momento che solamente queste figure dotate di una formazione ibrida potranno sopravvivere a quella che, secondo le previsioni OCSE citate nell’articolo da Muritti, è la vera minaccia del futuro: una sempre più selvaggia disuguaglianza sociale innescata dall’innovazione. Alla quale si potrà opporre, scrive la giornalista, solo «un tipo di persona: colta, educata civicamente, migliore dei robot, razionale, capace di raccontare e comunicare valori condivisi, preparata alla complessità e all’ipercomplessità, dotata di compassione retorica, saggia e non solo informata, meticcia, pronta più al lavoro che cambia che ai cambi di lavoro. E laica».
Dopo essere state spesso bistrattate, sembra che le competenze umanistiche stiano riacquistando il prestigio e la centralità di cui hanno goduto per larga parte della storia della cultura, soprattutto quella occidentale. E questo sembra essere di buon auspicio anche per l’economia: invece degli astratti «umanisti anime belle» che, aggiunge provocatoriamente Muritti, l’università italiana non può più permettersi, le aziende sembrano cercare sempre più laureati in Lettere, Storia, Filosofia. Peccato soltanto che la discussione sul numero chiuso nelle facoltà umanistiche non sia dovuta tanto alla ricerca di una migliore qualità, ma – come alla Statale di Milano – alla drastica riduzione di fondi disponibili per assumere nuovi docenti; per cui, per mantenere l’attuale rapporto tra studenti e docenti, si diminuiscono gli accessi. Un vero peccato perché, come chiosa nel finale Sacco, «la cultura non è un lusso. È una sopravvivenza». E solamente ispirandoci alla straordinaria contaminazione di saperi del Rinascimento potremmo «fermare l’emorragia dei giovani talenti italiani all’estero».
Per concludere, ci serve recuperare la capacità di pensare: come dice Sacco, otterremo così persone istruite che sono capaci di istruirsi da sole, evitando la formazione di figure iperspecializzate che risultano quasi subito inutili in un mondo che cambia a velocità supersonica. Sembra un’affermazione banale ma non lo è. E non lo è perché, come i due interventi che ho citato dimostrano ampiamente, tale problema esula rapidamente dal ristretto ambito dell’accademia per coinvolgere praticamente quasi ogni livello della società; e non può che essere così, essendo ormai la tecnologia diventata una parte considerevole delle nostre vite.
Servono persone capaci di valutare globalmente problemi e scenari, e solo chi viene educato a pensare a 360 gradi orientandosi tra diverse lingue, discipline e letterature ha la mente abbastanza elastica per riuscire a capire la portata più o meno globale di un problema, e di conseguenza quale soluzione adottare. Ciò che più rammarica è semmai, come scrive Elisabetta Muritti, che «L’Italia, ex patria degli umanisti più popolari del mondo, è così un Paese che si accorge in ritardo di non saper produrre un umanesimo contemporaneo» (poche righe sopra aveva citato l’esempio di Leonardo, uno dei tanti cervelli in fuga che il nostro Paese si lasciò sfuggire).
Il discorso italiano è abbastanza grave, come ricorda Sacco parlando dei giovani talenti italiani che se ne vanno all’estero (tra cui, peraltro, il sottoscritto), ma è parte di un discorso globale che coinvolge innanzitutto i modelli di scuola. L’Italia, troppo spesso, imita l’esteriorità di chi viene considerato migliore, senza mai modificare la sostanza delle proprie debolezze. Altri Paesi stanno invece capendo l’importanza di tornare indietro e fermarsi ad ascoltare chi parla perché sa ragionare. Questa non è una rivincita da umanista su colleghi e amici scienziati, dei quali ho sempre invidiato la capacità di afferrare linguaggi che a me tendevano a sfuggire; è semplicemente la constatazione che l’apertura è l’antidoto migliore al settarismo e all’incomprensione. Che nascono invece quando il punto di vista si restringe così tanto da escludere, con la fredda logicità di un sistema, tutto quello che non gli appartiene.