La cultura come bene comune

Il dibattito politico e culturale degli ultimi anni cerca nella categoria di bene comune delle risposte a diverse problematiche che la nuova società globale impone.

Dalle risorse naturali come l’acqua potabile, la terra e l’aria a delle ricchezze in apparenza più astratte come la conoscenza o l’arte, il bene comune è una nozione utilizzata per descrivere una risorsa che per una determinata comunità è inalienabile, quindi da difendere e tutelare. In questo senso è ovvio che il bene comune possa essere utilizzato come una categoria che può rispondere a diversi e complessi problemi di interesse giuridico, filosofico e politico.

Guardando al caso italiano, l’esperienza referendaria del 2011 ha mostrato l’attualità e l’importanza dei beni comuni, della loro tutela e della loro accessibilità. In questo senso, il movimento per l’acqua pubblica e quello per dire no al nucleare sono le due battaglie che esemplificano il modo in cui il concetto di bene comune sia entrato nel dibattito della società civile. Per quanto riguarda la politica, la commissione parlamentare presieduta da Stefano Rodotà ha cercato di interrogarsi sulla nuova categoria, utile per ripensare la distinzione classica tra pubblico e privato. La nozione di bene comune è apparsa adatta per classificare quelle risorse che non sono proprietà di nessuno, ovvero non appartengono né allo stato né al singolo cittadino ma sono patrimonio della comunità. Considerare una risorsa come collettiva può essere la mossa teorica e politica adatta per uscire dalle logiche legate al mercato e all’economia, nelle quali il cittadino è ridotto a semplice consumatore.

Nelle nostre società liberali – dove il capitalismo ha raggiunto la sua forma matura– nuovi soggetti economici – come le multinazionali – esercitano un potere politico che contrasta e vince quello delle istituzioni democratiche.

Per evitare che pochi possano decidere per tutti, è necessario promuovere un nuovo sistema di sviluppo che prenda in considerazione non soltanto i profitti economici, ma anche quelli umani. Per questa ragione, bisogna proporre un approccio nuovo che sia in grado di rivoluzionare lo spazio tra pubblico e privato e per scongiurare il rischio che risorse inalienabili – naturali o culturali – siano controllate da chi vuole solo ricavarne un guadagno. L’azione dei burocrati e degli amministratori statali è sufficiente per mostrare la distanza che separa l’esercizio della politica dai suoi scopi originari e originali: il benessere della comunità civile che deve essere considerato prima degli interessi particolari.

È necessario un cambiamento di coscienza civile che abbia come obbiettivo una sensibilità nuova verso quei beni che tutti riconosciamo come essenziali per la realizzazione dell’uomo come persona. La categoria dei beni comuni può essere utile per costruire modelli istituzionali alternativi, in grado di cambiare la stessa idea di politica e la definizione dei suoi soggetti. Quello che è apparso come innovativo – e che merita quindi di essere sottolineato- è la natura della sua definizione che non può essere più estinta in maniera sostanzialistica, bensì funzionalistica: si identifica cioè con ciò che permette ai cittadini di esercitare i diritti fondamentali dell’uomo.

Infatti, secondo Rodotà, i beni comuni permettono l’esercizio dei diritti fondamentali della persona e ne garantiscono il libero e pieno sviluppo. Una crescita non soltanto fisica, non soltanto psichica e non soltanto sociale, ma una formazione della persona libera nel modellare la propria individualità. Considerare il cittadino in qualità di individuo comporta la tutela della vita e della salute, ma anche della libertà politica e dell’istruzione. Secondo questa descrizione, il soggetto politico è la persona, al di là della cultura che porta con sé, della professione religiosa, della opinione politica, del genere e dell’età. In questa nuova prospettiva, non si viene più considerati semplicemente come dei cittadini privati, ma come persone e, in quanti tali, con il diritto alla dignità e al benessere.

Il bene comune è allora ciò che garantisce l’esercizio dei diritti fondamentali dell’individuo e la possibilità di una vita decorosa, come ricorda l’articolo 3 della Costituzione. È allora possibile dedurre che senza una tutela dei beni comuni sarebbe messa a repentaglio anche la stessa pratica del diritto e con essa la stessa vita delle istituzioni democratiche. Seguendo l’ipotesi di Rodotà, la cultura può essere definita come un bene comune, poiché è l’unica risorsa che consente la formazione critica e libera dell’individuo.

Martha C. Nussbaum, filosofa americana conosciuta soprattutto per i suoi studi di genere, in un suo recente libro Not-for Profit. Why Democracy needs the Humanities[1] sottolinea il legame che si instaura tra un governo di tipo democratico, l’esercizio del ragionamento critico e la cultura connessa all’istruzione. Infatti, sostiene che, in una buona democrazia, il cittadino deve poter sviluppare il pensiero critico, al fine di esercitare i diritti fondamentali della persona. Quello che l’autrice sottolinea è l’unicità della cultura come strumento adatto alla formazione critica dell’individuo, rivelando la forza democratica della sua azione. Quello che la filosofa non dice, è la ragione per la quale solo quello che definiamo come oggetto culturale consente una crescita umana. La musica e il teatro, le opere d’arte e le testimonianze storiche si identificano tra loro, quando si stabilisce che hanno la stessa valenza etopoietica: la cultura infatti plasma l’individuo in base ai valori che comunica, consentendo alle capacità intellettuali ed emotive di maturare. Solo in questo modo si evita il rischio che Nussbaum evidenzia e che identifica con la fine della stessa democrazia.

La metafora delle macchine docili che utilizza per descrivere i cittadini che non hanno un’opinione autonoma, – e che sono quindi facilmente influenzabili – rende chiaro quale pericolo si celi dietro la mancanza di una formazione intellettuale. In base a quanto si è sostenuto sin d’ora, è possibile affermare che il pensiero critico diventi essenziale per far funzionare la stessa democrazia, nella quale il cittadino non delega né alla tradizione, né alla autorità l’esercizio delle sue responsabilità.

I saperi che mantengono viva la democrazia sono utili al cittadino per poter pensare criticamente e sono fondamentali all’interno di un modello di sviluppo della persona che consente di condurre una vita dignitosa. Tutelare e valorizzare la cultura come un bene comune diventano allora due azioni fondamentali per la sopravvivenza della stessa democrazia che vive grazie al pensiero critico. La riflessione di Nussbaum appare ancora più attuale quando si prendono in considerazione le nostre moderne nazioni democratiche: esse assomigliano agli objets trouvés di Marcel Duchamp, dove il rapporto tra segno e significato assume una totale arbitrarietà e diventa difficile distinguere tra il giudizio critico e il sentimento emotivo che le cose e gli eventi suscitano in noi.

L’arte è un ottimo esempio per mostrare la funzione che la cultura è chiamata ad esercitare per mantenere vivo lo spirito critico della persona. Quando riesce a mettere in dubbio le convenzioni socialmente accettate, allora sveglia il suo pubblico dalle comode abitudini percettive nelle quali vive . L’esercizio della cultura discute i valori nei quali la persona e la sua comunità credono, senza darli mai come assoluti ma possibili di una nuova analisi, che possa mostrarne limiti e potenzialità. In questo senso, la formazione intellettuale garantisce uno sviluppo critico della persona che deve essere tutelato attraverso l’esercizio della cultura, bene comune dell’umanità.

Note

[1] M. C. Nussbaum, Not for Profit. Why Democracy Needs the Humanities, Princeton University Press, Princeton, 2010. Il libro è stato edito anche in italiano: Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino, 2011, tr. it. di R. Falcioni. Nussbaum difende soprattutto la cultura classica che sta subendo un forte attacco dai moderni sistemi educativi.

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