Cronaca partigiana di un mutamento urbano

Sulla retorica torinese del decoro a partire dallo sgombero del Balonaccio

Torino. La mattina del 4 ottobre, all’alba come si conviene a questo tipo di operazioni, viene costruito un recinto di jerseys di cemento intorno al parcheggio tra via Cirio e Strada del Fortino, per impedire lo svolgersi del Barattolo. Il Barattolo, o Balonaccio, è una delle istituzioni commerciali della città di Torino: un luogo di scambio e vendita meticcio, incolto, popolare. Inserito all’interno di Borgo Dora, parte di un unico ecosistema insieme a Porta Palazzo, Aurora e Valdocco, il Balon è un mercato (per lo più) all’aperto che ha vissuto negli ultimi tempi varie fasi di ri-qualificazione, insieme all’ecosistema tutto. L’operazione, accettata e rivendicata dalla sindaca (criticata peraltro anche da esponenti della sua stessa parte politica) ha il manifesto obiettivo di restringere l’accesso a quella piccola porzione di territorio, impedendo così a una parte dei mercatali di partecipare al mercato del sabato. L’obiettivo è stato raggiunto attraverso un dispiegamento di forze massiccio, come è d’uso in città negli ultimi tempi 1, in un intreccio di militarizzazione periodica, richiami alla sicurezza e a un legalismo spesso di comodo, sviluppato attraverso la frequente mobilitazione delle categorie di “degrado” e “periferie”, e che conduce inevitabilmente alla marginalizzazione di soggetti già abbondantemente marginalizzati.

 

Elementi di contesto: su degrado, periferie e altri miti

È questo il contesto nel quale lo sgombero del Balonaccio è avvenuto. Ad annunciarlo vi era stata un’ordinanza comunale della fine di dicembre 2018, che prescriveva lo spostamento in un’area più periferica per quei mercatali che non possono rivendicarsi l’artigianalità o l’antiquariato. Era seguita la resistenza dei commercianti i quali, la notte di venerdì, dal 27 dicembre in avanti, occupavano illegalmente coi loro corpi e la loro merce lo spazio del Balonaccio.

Questa tensione, però, era tangibile anche prima, all’interno dell’humus di narrative che si contrappongono da tempo nel quartiere Aurora-Valdocco-Borgo Dora. Da un lato, parte di residenti e comitati di quartiere hanno partecipato, insieme a giornali locali e nazionali, alla descrizione di un quartiere “degradato”, in cui i poveri che frugano nei cassonetti per rivenderne i tesori e l’immondizia lasciata dal mercato del sabato costituirebbero un inaccettabile abbassamento della qualità di vita. In questa retorica si è fatta strada la descrizione del Balonaccio come “suq”: in quanto arabo, straniero, estraneo alla città, alieno. L’espulsione di alcuni elementi e la chiusura della parte povera e informale del Balon, favorirebbero in questa narrativa un cambiamento positivo di un quartiere a un passo dal centro città, mentre la raccolta differenziata porta a porta recentemente introdotta sarebbe l’ingrediente fondamentale per impedire agli indesiderati di frugare nell’immondizia degli abitanti del quartiere, estendendo così i diritti di proprietà sugli oggetti ben oltre il loro ciclo di vita consueto. Questi scarti della classe media permettono a coloro che vivono ai margini del sistema economico di trasformare ciò che per alcuni sono solo rifiuti in un vero e proprio mezzo di sostentamento.

Il Balon è un pezzo della storia di Torino che, dalla sua fondazione, ha permesso a chi aveva bisogno di piccole entrate di mettere un banco e vendere oggetti di recupero nella totale informalità. Seguendo questo ragionamento, la distinzione fra un mercato “autentico” (termine spesso utilizzato per circoscrivere il mercato di artigiani e antiquari) e tradizionale, e uno che ha “invaso” l’area, creando problemi di ordine e legalità diviene fittizia, uno strumento della retorica del decoro. In contrapposizione a questa narrativa, le realtà di movimento torinesi insieme ad un nucleo di residenti attivi, da tempo tentano di contrastare i potenti tentativi di riqualificazione del quartiere, sostenendo che le politiche in atto mirino più a scacciare i poveri che a combattere la povertà.

Vi è poi la narrazione alimentata dall’amministrazione Appendino, che in pieno spirito di branding urbano (elemento che la accomuna alla giunta precedente) sostiene la necessità di una città competitiva, in cui i quartieri vicini al centro siano mete turistiche, opulente e alla moda come il neo(ri)nato mercato coperto di piazza Repubblica, sul modello di Firenze e Roma. Il Mercato Centrale è stato realizzato all’interno del cosiddetto PalaFuksas, il Centro Palatino progettato dallo studio Fuksas nel corso degli anni Novanta, struttura avveniristica e avulsa nella piazza che ospita il popolare mercato di Porta Palazzo. La creazione del Mercato Centrale ha aiutato a spostare il discorso su una lettura “morale” dell’economia e del commercio, con una convergenza di forze sociali ed economiche sul progetto di dare nuova vita e nuovo lustro al Centro Palatino: non è un’operazione commerciale legata all’alimentazione e al consumo delle classi medie(alte), quanto un’operazione di riqualificazione urbana che restituisce nuova vita a un quartiere degradato, creando un circolo virtuoso anche per i residenti. Questi processi permettono di indicare uno dei non-detti dell’urbanismo contemporaneo, ovvero che avere un’idea di città, a queste latitudini e di questi tempi, è quasi automaticamente un’operazione neoliberale, un discorso che tenta di nascondere e occultare un progetto di irreggimentazione e regolarizzazione dell’informale, del diverso, dell’incomprensibile, e che in ultima analisi cerca di costruire valore economico a partire da spazi urbani relativamente autonomi. Non è un caso che queste operazioni avvengano soprattutto in quei quartieri dove c’è un denso e vivo tessuto sociale preesistente. Esse infatti non riguardano aree periferiche, caratterizzate da un vuoto di iniziative, bassa qualità della vita e un generale senso di abbandono, ma aree semicentrali, nelle quali esiste una realtà associativa, politica, culturale, artistica fervente. È rispetto a queste aree che un processo di valorizzazione può avvenire in tempi più rapidi e con una miglior probabilità di riuscita. Nel caso torinese abbiamo visto con particolare chiarezza una serie di azioni intraprese nel corso degli ultimi due anni rivolte tutte a quest’area, non solo nel tentativo di cancellare esperienze potenzialmente scomode, ma anche affinché la produzione di rendita urbana possa nutrirsi al meglio di un immaginario urbano locale. Come diceva Lolli, “disoccupate le strade dai sogni e regalateci le vostre parole”.

Per mettere in campo questo tipo di operazioni è necessario dare nuova vocazione al quartiere, ringiovanendolo, rendendolo socialmente utile e decoroso, civilizzandolo attraverso nuovi innesti che lo ripopolino di giovani studenti, meglio se con spiccata vocazione alla creatività e al bello. Così sono ben viste e legittime la nascita dei social housing, le residenze temporanee, gli studentati gestiti da enti privati, il successo e la presenza della Scuola Holden e di chi la frequenta. Ciò che è interessante in questo frangente non è l’utilità intrinseca di tali luoghi, ma le narrazioni che li accompagnano e le nuove comunità spurie innestate in quartieri “problematici”.

Torino Balonaccio sgombero

Sentirsi insicuri all’epoca della sicurezza

A partire da dicembre 2018 il Balonaccio, da informale, era diventato illegale. Data la sua spiccata informalità, ciò non aveva influito più di tanto sulle pratiche e sulla sua organizzazione settimanale, salvo per l’essersi ampliato, attraendo, grazie al suo nuovo status e alla mancanza di una qualsiasi regola o requisito per l’accesso, soggetti sempre più poveri e marginalizzati che cercano di ricavare qualcosa dagli scarti degli scarti del consumo.

È noto tuttavia che l’informalità difficilmente viene accettata da amministratori e organi di sicurezza, un’incapacità ontologica di accettare il disordine e il non-normato. Per riordinare il disordine e rinormare l’illegale, amministrazione e prefettura hanno deciso di ricorrere all’espulsione forzata. Nella stessa zona una simile prova di forza era stata sperimentata per normalizzare un altro luogo informale, l’Asilo di via Alessandria 12, sgomberato il 7 febbraio. L’Asilo rappresentava (con alcune somiglianze con il Balonaccio) uno spazio spesso percepito come ostile, chiuso, refrattario al riconoscimento politico, ma che stimolava altri discorsi politici e riflessioni, anche sui temi legati a città e quartieri. Tant’è che lo sgombero è stato portato avanti, senza esagerazioni, manu militari, imponendo al quartiere tutto modalità di conflitto politico e sociale che negli anni recenti avevamo visto solamente in Val di Susa, con blocchi agli accessi delle strade, richiesta di esibire i documenti per i passanti e grate di ferro per evitare l’accesso a certe zone. Allora basta leggere alcune delle cronache dell’epoca per essere catapultati in uno scenario fatto di check point, interrogatori arbitrari ai residenti, polizia schierata.

Torino Balonaccio sgombero
Foto dal sito di Radio Onda d’Urto

Partendo da questi presupposti, non ha stupito il dispiegamento di forze messo in campo il 4 ottobre (e in misura forse ridotta, anche nelle settimane successive): camionette della polizia, carabinieri e guardia di finanza a controllare l’accesso al parcheggio, strade chiuse al traffico e transenne sui marciapiedi, agenti della polizia municipale a domandare a chi transitava dove andasse e perché. Hanno lasciato un po’ spaesati i jersey a mo’ di barriera urbana, ma chissà che non sia la prima “sfilata” di quella che diventerà una nuova pratica consueta. In tal senso, non c’è sottigliezza nel tipo di operazione messa in campo: i soggetti interessati vengono fisicamente spostati nelle periferie in blocco, ulteriormente ricacciati ai margini attraverso la costruzione di barriere fisiche che confinano l’area alla quale non si deve accedere.

 

Alieno e alienato

L’esperienza del Balonaccio ci racconta una città in cui gli “alieni” nei quartieri sono diventati i poveri, non in quanto tali, ma in quanto soggetti che cercano di sviluppare delle autonome strategie di vita. Non è per nulla interessante, e molto sbagliato, ricoprire la povertà di un velo nostalgico, di leggerla necessariamente come una resistenza politicizzata, di farne una storia rivoluzionaria o, ancora peggio, morale. Non sono strategie di resistenza esplicita, se non in alcuni casi, ma vere e proprie strategie vitali, la sostanza stessa del tentativo di migliorare la propria condizione accettando pienamente i più ampi fini sociali ed economici. Riconoscere questo, fa cadere due castelli di carta in un colpo solo: da un lato quello di pensare alla strategia neoliberale di governo urbano come a una riproposizione dei meccanismi del laissez-faire e della deregulation. L’attuale governo delle città si muove su un piano di regolazione e progettazione in cui lo stato – eventualmente nelle sue articolazioni locali – è un attore centrale nel permettere o non permettere, nel lasciar fare o nel chiudere spazi (piuttosto letteralmente in questo caso). L’altro è quello del discorso sull’autonomia e la partecipazione. L’attivazione degli abitanti, un impegno sociale che venga riconosciuto e ritenuto legittimo da parte delle autorità, è quello ben incasellabile in forme conosciute e normate, che possano rientrare nella definizione di volontariato o cittadinanza attiva. Attivazione sì, quindi, ma solo a certe condizioni. Questo aiuta a smascherare un sostrato, un’atmosfera, all’opera in questa città, così pronta a cancellare ogni sussulto dal basso, ogni occupazione, ogni tentativo di sbarcare il lunario fuori dallo stretto recinto del legale. Questo recinto non è però naturale, ma l’effetto di una attività normativa, simbolica e materiale dello stato stesso2

Piuttosto, è importante riconoscere una irriducibilità, una incomprensibilità, una fatica nel relazionarsi con l’informale, l’a-normale. Quello che abbiamo visto con tanta forza in questi anni, in questi giorni, è uno sguardo costitutivamente moralizzante e paternalista, che non riesce a tollerare – forse ancora di più, a concepire – l’esistenza di zone d’ombra, di complessità, degli effetti di una povertà diffusa e atroce che non sa né vuole affrontare se non scaricando sugli stessi poveri la responsabilità di cercarsi un lavoro, che sia “normale”, accettabile e decoroso. E allora la soluzione diventa quella di scacciarli, lasciando intatta la povertà. È una resa alle complessità del mondo, una burocratizzazione della vita sociale ammantata dalla retorica della libera impresa, un’accumulazione di dispositivi di governo volti ad allontanare il tangibile senso di impotenza per ciò che non riesce a contare, a bandire, a appaltare.

Torino Balonaccio sgombero

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Note

  1. Altri articoli a questi link: https://napolimonitor.it/la-riqualificazione-con-le-forze-dellordine-lo-sgombero-in-via-borgo-dora-torino/ ; https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/12/17/torino-sgomberate-allalba-le-cantine-dellex-moi-comitato-scelta-ipocrita-dl-sicurezza-nuove-occupazioni/4841406/
  2. Loïc Wacquant, Punire i poveri. Governare l’insicurezza sociale,  DeriveApprodi, Roma, 2006.
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