Crisi in Iraq: cosa sapere per prendere posizione

Guerra, mobilitazioni e competizione tra potenze straniere in Iraq

Piazza Tahrir, Baghdad (fonte: Getty Images).

L’assalto di migliaia di manifestanti all’ambasciata statunitense di Baghdad e l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani ad opera degli Stati Uniti aprono scenari inquietanti, e sono lo sbocco inaspettato di tre mesi di lotta nelle piazze irachene. Traendo origine dai problemi sociali dell’Iraq una grande mobilitazione popolare ha prodotto in questi mesi una crisi politica che è diventata istituzionale, fino ad assumere pericolosi risvolti militari e geopolitici. È utile quindi tentare di gettare qualche lume sul contesto iracheno attuale.

Il primo ottobre manifestazioni di massa sono scoppiate tra le comunità sciite del sud, e sono state attaccate dalle milizie sciite a loro volta e radicate in quelle stesse città, che avevano combattuto contro l’Isis in questi anni. Le milizie responsabili della repressione non si qualificano però anzitutto per il ruolo militare svolto contro l’Isis, ma per essere espressione di una parte politica ben precisa nel contesto sciita: quella legata al diversificato fenomeno del fondamentalismo islamico. Se l’Isis si batte per l’instaurazione di uno stato islamico sunnita, infatti, quelle milizie vi si sono contrapposte con il progetto, piuttosto speculare, di uno stato islamico sciita. Sono le stesse che non hanno esitato, nelle zone liberate dal “califfato”, a commettere crudeli violenze settarie su civili sunniti.

Le più forti tra esse si chiamano Saraya al-Khorasani, Organizzazione Badr e Kataib Hizbollah. Fanno parte del grande coordinamento tra formazioni paramilitari detto in Iraq “Mobilitazione popolare” (Hashd Al-Shaabi), creato nel 2014. Non tutte le componenti di Hashd Al-Shaabi, che dal 2017 è parte delle Forze armate irachene, sono di questo tipo. Essendo il collante politico il conflitto con l’Isis, vi partecipano anche milizie sciite di orientamento nazionale più che settario ed altre, a nord, vicine al Pkk socialista curdo (come quelle ezide), o ancora gruppi sunniti. Il ruolo centrale giocato dall’Iran nella guerra all’Isis ha favorito però la crescita delle componenti legate all’oltranzismo confessionale, più nelle corde della Repubblica islamica.

L’influenza iraniana ha permesso anche alla parte maggiormente religiosa della popolazione sciita di farsi più assertiva all’interno delle comunità. Gli sciiti meno praticanti, o tali solo di nome perché indifferenti alla religione, si sono trovati in difficoltà negli scenari aperti tanto dall’invasione angloamericana quanto dalla guerra all’Isis, divenendo ostaggio di gruppi armati oscurantisti. Non si dimentichi che tra gli sciiti iracheni, durante la guerra fredda, si era radicato un movimento comunista, e il partito comunista iracheno è ancora oggi relativamente forte grazie a voti per lo più sciiti, benché provenienti in gran parte dalle vecchie generazioni. Molti preferiscono un modello politico dove religione e legge non si sovrappongano (almeno non del tutto) e odiano le contrapposizioni settarie.

Ali Al-Sistani, guida spirituale irachena del mondo religioso sciita, ha cavalcato negli anni l’attivismo di Teheran nella politica di Baghdad. Non in funzione “anti-americana”, come alcuni credono, quanto per favorire l’egemonia sciita sul paese. La detronizzazione angloamericana di Saddam ha favorito, infatti, questo disegno, grazie all’introduzione di elezioni a lista multipla: gli sciiti, 65% della popolazione, hanno potuto assicurare una stabile maggioranza parlamentare alle loro liste. Un leader diverso da Al-Sistani, Moqtada Al-Sadr (uomo a dir poco incline all’influenza religiosa in politica, pur senza far parte del “clero” sciita) ha tenuto fin dagli anni Duemila una posizione più ambigua verso l’Iran, promuovendo un Iraq indipendente da influenze esterne. Le milizie affermatesi dopo il 2014 hanno perciò rappresentato una polarizzazione, a causa del rapporto quanto mai stretto con la Repubblica islamica.

Protagonista di questo rapporto e di questa polarizzazione è stato Qassem Soleimani, comandante del corpo iraniano Al-Quds incaricato dell’esportazione all’estero dei valori khomeinisti. La penetrazione iraniana in Iraq ha dovuto scontrarsi però con l’insoddisfazione delle masse per il peggioramento delle condizioni di vita sotto governanti filo-iraniani come Nuri Al-Maliki e Haider Al-Abadi, accusati di corruzione, inefficienza e autoritarismo. Nel 2016, quando il nord sunnita era diviso tra lo Stato islamico e un Kurdistan che puntava all’indipendenza, gli sciiti manifestarono per settimane a Baghdad fino ad invaderne il parlamento, e Moqtada Al-Sadr si fece portavoce di questo disagio arrivando nel 2018 a conquistare la maggioranza relativa dei seggi parlamentari, anche grazie a un’inedita alleanza con i comunisti. Se la sua lista “nazionale” (Saairun) ottenne il 14% dei voti, però, quella delle milizie filo-iraniane Fatah ebbe il 13%, rendendo necessaria una complicata alleanza (i comunisti sono usciti dall’intesa).

La rivolta iniziata a ottobre si colloca in questo scenario, ed è espressione della delusione per i risultati del presunto “nuovo corso”, che tanto nuovo non è stato. La rivolta è ostile all’invadenza economica iraniana e vuole una presa di distanza dallo strapotere delle milizie d’ispirazione teocratica. I giovani, molti dei quali studenti o laureati, sono nelle prime linee, ma la rabbia delle masse popolari è nelle sue retrovie morali e fisiche: il popolo comprende la rabbia della generazione nata dopo Saddam, che ha patito tanto l’occupazione e la guerra quanto il fallimento, considerato ormai senza sbocchi, della classe dirigente sciita.

Avendo le milizie tutto da guadagnare, invece, dallo status quo, lo hanno difeso con i più brutali mezzi di repressione, sotto la guida politica di Soleimani e lo sguardo sornione del governo. Pestaggi, rapimenti, torture, esecuzioni sommarie e stupri da ottobre hanno causato il bilancio agghiacciante di seicento morti e migliaia di feriti. Nonostante questo la gente è rimasta in piazza Tahrir, a Baghdad, costruendo anche un piccolo luogo di raccoglimento in onore dei caduti, ed anche nelle altre città, piantando tende ed affermando di preferire la morte al silenzio. Tra loro hanno fatto capolino gruppi di sunniti arrivati dalle città del nord; e se, al fianco degli studenti, ci sono giovani delle periferie (simboleggiati dai conducenti dei “tuk-tuk”, sorta di tassì a pedali a tre posti), le donne sono molto presenti e alcune hanno un ruolo decisivo, introducendo un’altra questione politica: ben raro, infatti, è vedere donne ai cortei della fazione filo-iraniana, ed impossibile nelle milizie.

Vigilia in commemorazione dei manifestanti uccisi durante le proteste a Karbala. Baghdad, Novembre 2019 (Fonte: Getty Images).

I manifestanti hanno chiesto le dimissioni del premier Adel Abdul Al-Mahdi, ottenute il 31 ottobre dopo un mese di scontri e di sangue. La richiesta strategica è stata però una legge elettorale che autorizzi liste aperte e non di nomina partitica, cosicché la società possa inondare delle sue candidature i partiti stessi, rinnovando non tanto i nomi delle liste, ma quelli dei parlamentari. Il movimento non ha un’ideologia o un programma politico definito, anche se non mancano, come in tutte le società contemporanee, tendenze che si rifanno ai Pirati islandesi o che potrebbero non vedere di cattivo occhio i grillini italiani delle origini (fenomeni tipici dell’Iraq di questi anni, anche nella politica curda del nord).

Dopo settimane di violenze contro la piazza il parlamento ha dovuto cedere, promulgando la nuova legge il 24 dicembre. Il movimento, cosciente della sua forza, ha preteso di dare il suo assenso al nome del successivo primo ministro, rivendicazione inaudita; e ha premuto sul presidente della repubblica Barham Salih (curdo dell’Upk: un partito vicino all’Iran ma che dialoga anche con le Ypg del Rojava) chiedendo che nomini un uomo al riparo da influenze filo-iraniane. Il presidente ha per questo rifiutato i nomi proposti da Fatah e, non trovando compromessi in parlamento, ha offerto le sue dimissioni. Molti hanno sperato nella mediazione di Moqtada Al-Sadr; ma questi, dopo aver visto frustrati i suoi tentativi di egemonizzare la piazza, così diversa da un tempo (nel movimento lo definiscono con sufficienza “il migliore dei peggiori”), ha proposto tre nomi, che poi ha ritirato dicendo che i manifestanti “non gli hanno risposto”.

Ecco come il paese è arrivato, a fine dicembre, sull’orlo del collasso istituzionale. Ed è in questo scenario che si colloca la svolta internazionale della crisi. La milizia Kataib Hizbollah ha bombardato due basi statunitensi nei pressi di Baghdad e Kirkuk il 27 dicembre. Una provocazione inedita e, si badi, priva di retroterra militari: gli Stati Uniti non hanno mai attaccato Hashd Al-Shaabi, fondamentale alleato nella lotta contro l’Isis in Iraq. L’attacco è stato politico: la presenza statunitense, accusata di fomentare la rivolta “democratica” ma motivata semmai da ragioni di senilità imperiale del tutto aliene da questi fattori, costituisce un argine oggettivo all’influenza iraniana, e quindi anche a soluzioni autoritarie della crisi (se non altro favorevoli a Teheran). L’appello allo scontro con il “Grande Satana”, soprattutto, sposta l’attenzione dalla questione sociale ai vecchi (ed effettivi, ma in questo momento secondari) conti in sospeso del popolo iracheno con gli Stati Uniti. Un terreno su cui le fazioni oscurantiste possono rincorrere una nuova legittimazione propagandistica, presentandosi come partigiani antimperialisti anziché come squadracce di strada al soldo di un imperialismo di diversa bandiera. Del tutto irrealistico, in questo scenario, pensare che Kataib abbia intrapreso la delicata iniziativa di colpire gli Usa senza l’assenso, se non l’ordine, del padrino iraniano.

Il 29 dicembre la risposta statunitense ha provocato 25 morti nelle postazioni di Kataib in Iraq e in Siria. È stato allora che Al-Muhandis, leader di Kataib ma anche dirigente di spicco dell’intero Hashd Al-Shaabi, ha convocato la manifestazione all’ambasciata statunitense, dove migliaia di miliziani disarmati hanno assaltato l’edificio al grido “Soleimani è il nostro comandante”. Di fronte a questo sviluppo anche Al-Sistani ha condannato l’escalation e quindi, sia pur implicitamente, le mosse rischiose del fronte filo-iraniano, cui pure è vicino. Il 3 gennaio l’irresponsabile risposta statunitense è stata l’uccisione non solo di Al-Muhandis ma addirittura di Soleimani. Questa catena di scelte ciniche, tanto da parte iraniana quanto statunitense, è espressione della difficoltà di entrambi nelle pretese di dominio su un paese che è in rivolta per la propria indipendenza, a ben vedere, fin dal 2003.

La spinta di piazza Tahrir è, d’altra parte, la stessa che delle proteste di piazza in Iran e in Libano contro le condizioni socio-economiche, l’immobilità corrotta dei sistemi burocratici e non ultimo le visioni confessionali e settarie della politica. Non si tratta, nella maggior parte dei casi – se è necessario dirlo – di proteste filo-americane: gli Stati Uniti non possono che apprezzarle perché ostili al regime iraniano, ma non le hanno “create” loro, come sostiene Teheran per ragioni altrettanto strumentali di quelle di Washington. Certo piazza Tahrir si rende conto che una resistenza disarmata contro lo stato e le sue milizie, e il loro protettore esterno, rende necessario trovare delle sponde. L’intervento dell’Onu è stato spesso invocato da chi sta nella piazza, ma la stessa azione di contenimento sull’Iran rappresentata dagli americani è vista da molti come necessaria se le condizioni non cambieranno (se non fosse che l’escalation voluta dalla Casa bianca mette ora a rischio proprio quel genere di equilibrio).

Scontri in piazza Tahrir, Baghdad (fonte: Getty Images).

Non è quindi inspiegabile che vi siano state manifestazioni di gioia per la morte di Soleimani e Al-Muhandis: hanno avuto luogo in piazza Tahrir ad opera di una folla del tutto diversa da quella dell’assalto all’ambasciata statunitense; e il movimento si è ovviamente rifiutato di partecipare ai funerali dei due, divenendo per questo nuovamente bersaglio dei colpi delle milizie. Soleimani non aveva certo principalmente “sangue americano” sulle mani, come afferma la rozza e autocentrata propaganda statunitense: aveva semmai quello dei miliziani dell’Isis, uccisi in collaborazione con Washington, e quello, di segno opposto, dei cittadini iracheni in rivolta, dei tanti dissidenti e manifestanti iraniani uccisi in questi anni, e persino delle migliaia di profughi afghani arruolati obtorto collo dall’Iran nelle milizie inviate a morire per Assad in Siria.

Nulla si comprende della situazione attuale senza tenere come punto di partenza e di approdo la questione politica sollevata dai movimenti di questi mesi; e questo non perché i movimenti siano sempre l’origine e la fine di tutto, ma perché lo sono in questo caso. Quando si affacciano volontà di cambiamento così forti e coriacee nella storia del mondo, espresse da gente in carne ed ossa pronta a sanguinare e a morire per obiettivi definiti, concreti, limitati – anche quando, come in questo caso, di fatto rivoluzionari – la situazione è valutata dai protagonisti non in base alle favole e ai sogni, ma in vista di vie d’uscita e soluzioni. L’urgenza è arginare la violenza più prossima e immediata, sperando che qualcuno punti il mirino sulla minaccia che incombe da più vicino; e visto che, verosimilmente, non saremo né io né chi legge questo articolo a farlo, occorre scegliere almeno da che parte stare: non soltanto per la pace, che è doveroso difendere fino a quando è possibile, ma prendendo una posizione che non rinunci per conto di altri alla giustizia. In altre parole: far propria una parte politica; anche se la situazione internazionale non riesce, come sempre, ad inserirsi in una raffigurazione manichea della storia.

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