Crisi climatica e il non umano

L’ultima puntata di Intemperie*, per comprendere come il dominio antropocentrico ostacoli la lotta ai cambiamenti climatici.

“INTENSIVE FARMING 100x80cm)” by gallschu, CC PDM 1.0

Nell’era dell’Antropocene, con lo sviluppo del capitalismo e delle tecnologie ad esso asservite, anche il lungo processo di cosificazione degli animali da parte dell’uomo diviene ancor più pervasivo e totalizzante. L’attuale sistema economico, e in particolar modo l’industria dei cibi animali, non si limita infatti a vedere le altre specie viventi come creature “inferiori”, ma le considera mera merce da immettere sul mercato.

Volendo indagare i numerosi nessi che legano i cambiamenti climatici allo sfruttamento delle altre specie animali, può essere utile iniziare ponendoci una serie di interrogativi: può esserci un reale contrasto alla crisi climatica attuale senza un radicale ripensamento del rapporto con il non umano? Quali sono i nessi tra la catastrofe climatica imminente e la dominazione e lo sfruttamento senza limiti né scrupoli delle altre specie da parte dell’uomo? La lotta ai cambiamenti climatici è davvero compatibile con un sistema economico che antepone la ricerca del profitto alla sopravvivenza, alla salute e al benessere del pianeta e delle specie che lo abitano? E infine, la riflessione antropologica può contribuire ad accelerare un ripensamento radicale del rapporto con l’animalità?

Sì, nel perseguire un ripensamento complessivo del rapporto con il non umano la riflessione antropologica può senza dubbio giocare un ruolo fondamentale. Così come gli antropologi novecenteschi – primi fra i quali Franz Boas e Bronislaw Malinowski-, tentarono di osteggiare le implicazioni etnocentriche e gerarchizzanti insite nella corrente dell’evoluzionismo sociale, un compito importante dell’antropologia oggi potrebbe consistere nello sradicare le derive antropocentriche, anzitutto cercando di superare la netta separazione dicotomica tra natura e cultura, nonché quella tra animalità e umanità. D’altronde, ciò che indiscutibilmente contraddistingue la storia del pensiero antropologico è la volontà di indagare e di confrontarsi con l’Alterità, sia essa umana o animale; il rischio di inferiorizzazione e di reificazione è presente sia per l’Altro che appartiene ad una diversa cultura, sia per l’Altro in quanto specie distinta dalla nostra.

“Indagine sotto copertura in allevamento intensivo di pecore” by Essere Animali is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

Dunque, etnocentrismo e antropocentrismo sono inestricabilmente legati, dato che ambedue gli approcci scaturiscono dall’arrogante pretesa di poter conoscere l’altro ponendo però al centro Noi, la nostra storia, la nostra cultura e il nostro universo concettuale. Potremmo allora chiederci se anche il razzismo e lo specismo abbiano una qualche interrelazione. Se è vero, come sostiene Keith Thomas, che “la domesticazione è l’archetipo di tutti gli altri tipi di subordinazione”, si potrebbe allora avanzare l’ipotesi che la dominazione e la cosificazione degli animali abbiano rappresentato il modello primario per la dominazione e la gerarchizzazione degli esseri umani (Rivera, 2000).

Un concetto che era stato già formulato dall’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, il quale, rifacendosi espressamente al tema rousseauiano della pietà, – intesa come capacità di identificarsi negli altri, umani e non -, afferma che l’uomo occidentale “arrogandosi il diritto di separare radicalmente l’umanità dall’animalità, accordando all’una tutto ciò che toglieva all’altra, apriva un circolo vizioso, e che la stessa frontiera, costantemente spostata indietro, sarebbe servita a escludere dagli uomini altri uomini, e a rivendicare, a beneficio di minoranze sempre più ristrette, il privilegio di un umanismo nato corrotto (…). (Mancuso, 2017, 172).

Oltre alla riflessione antropologica, vi sono anche numerosi casi etnografici che testimoniano quanto la linea di demarcazione tra natura e cultura e tra umanità e animalità non sia assoluta e universalmente valida, dato che in molte società non occidentali e “premoderne” questa appare molto più labile e incerta. Ad esempio, come dimostrano le ricerche condotte dall’antropologo francese Philippe Descola, le cosmologie amazzoniche rappresentano una differenza di grado tra umani e non umani, ma non di natura. Per gli Achuar dell’Amazzonia equatoriale la gerarchia tra specie non discrimina gli umani dagli animali, ma è costituita in base al diverso grado di capacità di comunicare e di intrattenere relazioni sociali; capacità che non è dunque una prerogativa esclusivamente umana.

Anche in molte società africane il confine tra umanità e animalità è labile, come dimostrato dai Nuer, popolazione nilotica del Sudan meridionale dedita principalmente alla pastorizia. Presso i Nuer il bovino, l’animale allevato, condivide completamente lo spazio sociale umano. Fra l’uomo e l’animale si instaura un rapporto di simbiosi; una relazione basata sul rispetto e sull’affettività, in cui il bovino diventa il vero e proprio fulcro delle attività sociali e della dimensione simbolica.

“Indagine sotto copertura in allevamento intensivo di pecore” by Essere Animali is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

La riflessione antropologica e la ricerca etnografica possono quindi aiutarci a comprendere i limiti e la pericolosità insiti in ogni approccio antropocentrico. Ma come, nel concreto, lo sfruttamento e la mercificazione delle altre specie animali ostacola la lotta ai cambiamenti climatici?

Notoriamente, i gas serra sono responsabili dell’aumento della temperatura terrestre. Come stabilito dal protocollo di Kyoto (1997), per scongiurare stravolgimenti climatici e catastrofi ambientali irreversibili, è urgente e indispensabile che ogni paese si impegni al fine di ridurre considerevolmente le emissioni di gas serra. Nonostante sia ormai evidente il nesso che lega l’attività umana ai cambiamenti climatici, l’impatto devastante sul clima provocato dall’allevamento intensivo di animali è ancora oggi poco discusso e conosciuto. Eppure, le cifre in proposito parlano molto chiaro: guardando all’Europa, ad esempio, numerosi studi hanno evidenziato l’impossibilità di raggiungere l’accordo di Parigi sul clima (2015) senza una drastica riduzione del numero degli allevamenti intensivi.

Stando a quanto si legge nel briefing di Greenpeace, Foraggiare la crisi. In che modo la zootecnica europea alimenta l’emergenza climatica, le emissioni annuali degli allevamenti sono aumentate del 6% dal 2007 al 2018. Un importante rapporto della FAO (Food and Agricolture Organization of the United Nations) (Steinfeld et al., 2006) – il quale può indubbiamente apparire datato, ma resta ad oggi una fonte imprescindibile per l’argomento- rilevava che gli allevamenti intensivi sono responsabili del 18% delle emissioni di gas serra, fra i quali soprattutto anidride carbonica, metano e ossido di azoto.

Per comprendere il peso di questa percentuale basti considerare che l’attività di trasporto via terra, acqua e mare causa “solo” il 14% delle emissioni. È dunque vero quanto emblematicamente asserito nel titolo di un recente articolo di Greenpeace Italia (il quale, pur riferendosi solo alla zootecnica europea, riporta dati molto simili a quelli rilevati nel rapporto delle Nazioni Unite): gli allevamenti intensivi inquinano più delle automobili.

In realtà, stando a quanto riportato nell’interessante libro bianco Cambiamento climatico e allevamenti intensivi della Lega Anti Vivisezione (LAV), pare che le cifre a riguardo siano ancor più allarmanti: in un recente studio pubblicato da due degli autori che hanno redatto il rapporto FAO, emergerebbe che il valore percentuale delle emissioni prodotte dagli allevamenti intensivi ammonti addirittura ad oltre il 50%, in quanto nel rapporto FAO del 2006 alcune voci non erano state conteggiate.

La maggior parte dei gas serra prodotti dagli allevamenti intensivi sono causati dalla deforestazione selvaggia e indiscriminata, dato che per far posto ai pascoli vengono distrutti ogni anno migliaia di ettari di foreste. Come riportato dalla LAV, dal rapporto della FAO risulta che il 70% delle aree deforestate in Amazzonia sono occupate dai pascoli, mentre il terreno restante viene utilizzato per la coltivazione di foraggio. Inoltre, gli allevamenti sono i maggiori responsabili delle emissioni di monossido di azoto, il più dannoso dei gas serra per effetto riscaldante.

Il monossido di azoto viene rilasciato a causa dell’utilizzo di fertilizzanti chimici (a base appunto di azoto), indispensabili per l’agricoltura intensiva. Questi fertilizzanti vengono prodotti a livello industriale (e quindi anche la stessa produzione causa emissioni di gas serra) e riversati poi nei terreni agricoli; mentre, paradossalmente, il letame prodotto dagli animali, il quale potrebbe svolgere la medesima funzione dei fertilizzanti chimici, rimane inutilizzato e a cielo aperto. Anche l’evaporazione delle deiezioni animali è responsabile della formazione di monossido di azoto e quindi dell’emissione di GHG.

Un’altra questione centrale che lega la crisi climatica agli allevamenti intensivi riguarda il consumo di acqua e l’inquinamento delle falde acquifere provocato dagli stessi. Il nesso tra allevamenti e consumo di acqua è certamente intuibile: gli animali allevati necessitano di notevoli quantità di acqua, che è a sua volta necessaria anche per irrigare i campi destinati alla produzione di mangime. Oltre al consumo non trascurabile della risorsa più preziosa del pianeta, le ingenti quantità di letame prodotto dagli animali allevati finiscono anche per essere riversate, e quindi per contaminare, fiumi e canali di irrigazione.

“Fabbriche di carne” by Essere Animali is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

Alla luce di tutto questo, emerge che un ripensamento strutturale e profondo del rapporto con il non umano è necessario e urgente. Il dramma mondiale causato dall’epidemia tutt’ora in corso ha se non altro il merito di indurci a riflettere sulle interconnessioni tra noi in quanto esseri umani, le altre specie viventi e l’ambiente. L’ipersfruttamento animale, tangibile tanto nei wet market di Wuhan quanto in un qualsiasi allevamento intensivo occidentale, è fra le prime cause di questa pandemia così come di quelle passate, dall’influenza aviaria all’encefalopatia spongiforme bovina (BSE), divenuta nota come morbo della mucca pazza.

Ciò che qui si è cercato di tenere insieme e di far dialogare – la riflessione antropologica, la ricerca etnografica, e gli studi sull’impatto ambientale provocato dagli allevamenti intensivi – suggerisce che il dominio antropocentrico può e deve essere messo in discussione, anche al fine di contrastare in modo sostanziale i cambiamenti climatici in atto. La messa in discussione dell’antropocentrismo e la lotta ai cambiamenti climatici non possono prescindere da un radicale ripensamento dell’attuale sistema economico.

Come suggerisce lo storico dell’ambiente Jason W. Moore, infatti, più che di una nuova era geologica plasmata dall’uomo (antropocene) si dovrebbe parlare di un’era geologica contraddistinta dal capitalismo (capitalocene). In quest’ottica la “questione ambientale”, più che essere una conseguenza del capitalismo ne sarebbe una dimensione costitutiva, nel senso che l’attuale sistema economico si fonda proprio – seppur non solo – sulla subordinazione della natura, umana e non-umana, alle necessità di produzione e accumulazione della ricchezza (Biscotti, Dall’O’, Dameno, 2020).

Se è vero che uno degli scopi dell’antropologia è quello di indurre un senso di “straniamento” – facendoci apparire insolito e storicamente determinato ciò che invece si è portati a ritenere normale e immutabile –, tale scopo si presta sicuramente anche al tema qui trattato. Il dominio dell’uomo sull’animale non è qualcosa di naturale e ineluttabile, così come non lo è l’attuale sistema economico. Per perseguire un reale contrasto ai cambiamenti climatici occorre quindi abbandonare le ben radicate convinzioni circa l’immutabilità del presente; un presente sempre più precario, caotico, e in balìa delle intemperie.

Bibliografia

Rivera A., Homo sapiens e mucca pazza. Antropologia del rapporto con il mondo animale, Bari, Dedalo, 2000
Mancuso A., 2017, Animalità, umanità, cultura, vita. A margine della discussione tra antropologi socioculturali, Zoosemiotica 2.0: forme e politiche dell’animalità, a cura di Marrone G., Nuovi Quaderni del Circolo semiologico siciliano, Palermo: Museo Pasqualino
Biscotti B.,  Dall’O’ E., Dameno R., Antropocene e cibo del futuro: uno sguardo agli insetti tra storia, immaginari, normative e sostenibilità, Dada rivista di antropologia post-globale, speciale n. 1, 2020, Antropologia del cibo
Lega Antivivisezione LAV, Libro bianco Cambiamento climatico e allevamenti intensivi.

*Serie realizzata in collaborazione con studenti e studentesse del Laboratorio permanente di Antropologia dei Cambiamenti Climatici, coordinato dall’antropologa Elisabetta Dall’Ò, presso il Dipartimento CPS (Culture, Politiche e Società) dell’Università di Torino.

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