#Basaglia180X40: Crimini di pace

Pubblichiamo un estratto dal testo “Crimini di Pace” a cura di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, riedito in questi giorni da Baldini+Castoldi. Di seguito una porzione di un dialogo tra Basaglia e Sartre attorno alla figura dell’intellettuale.

Nel 71 condivisione e contestualizzazione delle riflessioni a partire dal primo capitolo che è tutto un confronto tra Sartre e Basaglia. Quali spazi di utopia sono realizzabili? Che funzione hanno i tecnici pratici? Quale i tecnici del sapere? Gorizia dimostra come “pur senza il minimo appoggio di una legge e di una società che si dicono non ancora pronte e mature” un movimento di rinnovamento culturale è possibile a patto che tutti i soggetti in causa si assumano il rischio del cambiamento. Nel lavorare sull’intreccio tra psicopatologia e fenomenologia, Basaglia utilizza in modo interlocutorio il pensiero di pensatori all’avanguardia in Europa per quanto concerne la prospettiva psichiatrica orientata al una dimensione più terapeutica come quella di Binswanger, di Minkowski, di Strauss, di Freud, e una riflessione filosofica generata dall’incontro delle riflessioni di Husserl, Heidegger, Merleau-Ponty, Sartre. Dallo stesso Sartre, di cui in coda all’introduzione qui pubblicata, si possono leggere stralci di una conversazione con Basaglia, Basaglia  interiorizza la natura della concezione delle responsabilità del tecnico e dell’intellettuale, la centralità della pratica, la critica all’ideologia, il rifiuto dell’utopia come altrove e la necessità di un impegno “qui e ora”.

Questo contributo rientra nel progetto di approfondimento #Basaglia180X40 realizzato in occasione dei 40 anni della Legge180 e che proseguirà fino alla metà di giugno attraverso la pubblicazione di estratti, riflessioni e segnalazioni.

Intro + Cap 1 “Il tecnico del sapere pratico”

Questo volume è il tentativo di riunire delle testimonianze che riflettono ed esprimono, da angolature diverse, in cosa consistano e su cosa si fondino l’ordine sociale e la condizione di pace in cui ci troviamo a vivere. Progettato, alla fine del ’72, con l’appoggio dell’Amministrazione Provinciale di Trieste come una prima analisi della trasformazione del locale ospedale psichiatrico e con l’intento di raccogliere testimonianze e documenti su altre esperienze nel settore, è andato via via trasformandosi in una ricerca a più voci sul ruolo dell’intellettuale e del tecnico come addetti all’oppressione.

La scelta dei coautori può apparire, a prima vista, determinata da un criterio elitario, trattandosi per lo più di noti esponenti della cultura internazionale. Di fatto, essi possono ritenersi tra le persone più rappresentative dei movimenti che attualmente tendono alla trasformazione della cultura e dell’organizzazione sociale di cui essa è espressione, attraverso l’approfondimento pratico-teorico della funzione delle diverse ideologie scientifiche, fino a risalire, come matrice unica, alla funzione dell’ideologia quale strumento di conservazione del nostro sistema sociale. Pur consapevoli del rischio intellettualistico implicito nella presentazione di una serie di analisi sull’intellettuale visto dall’intellettuale, si è tentato di raccogliere delle documentazioni finalizzate alla ricerca di un’alternativa pratica per il tecnico che, presa coscienza del suo ruolo di funzionario del consenso, voglia svelare praticamente, nel proprio settore specifico, i modi e i processi attraverso i quali tale consenso viene ottenuto e strumentalizzato dalla classe egemone a danno della classe oppressa.

[…]

Il titolo Crimini di pace vuole comunque essere una chiave di lettura di tutte le violenze istituzionalizzate, che servono come strategia di conservazione del nostro sistema sociale, anche se in questo volume ci si limita all’analisi di alcuni settori: psichiatria, storiografia, psicologia, sociologia e criminologia. Assente, o solo marginalmente toccata, la medicina, su cui occorrerebbe aprire un discorso e una lotta concreti, anche di fronte alla falsa critica delle nuove ideologie di ricambio che stanno sviluppandosi in Europa. Resta comunque il fatto che i processi che sottendono le diverse ideologie scientifi che sono identici, perché è identica la loro funzione all’interno della struttura sociale che esse hanno il compito di sostenere, tutelare e mantenere. In questo senso, il volume che presentiamo vuole essere un ulteriore atto di rifiuto di una scienza che accetta, implicitamente, la divisione in classi come dato naturale su cui articolare le modalità delle sue risposte; e la ricerca di una teoria che risulti dalla riflessione sulla pratica, intesa come prodotto storico sociale.

[…]

Franco Basaglia
Il tecnico borghese, delegato alla gestione delle diverse specificità professionali, può essere considerato un intellettuale in senso gramsciano, in quanto depositario e insieme produttore di temi e di idee che servono al mantenimento dell’istituzione in cui opera, e di riflesso alla sopravvivenza della propria classe e del sistema sociale in cui è inserito
.
In questa prospettiva, anche alla luce dei movimenti che si sono verificati in questi ultimi anni da parte di tecnici che rifiutavano la delega sociale implicita nel proprio ruolo, come vede la problematica dell’intellettuale e del tecnicoprofessionale in rapporto alla pratica istituzionale? Questo, sia per quanto riguarda l’azione nelle istituzioni in generale, che in quelle psichiatriche in cui noi siamo più direttamente coinvolti.

J.P. Sartre
Sono poco informato sulla psichiatria. Ho seguito i suoi lavori e sono perfettamente d’accordo su quanto lei ha detto. Posso comunque parlarle di ciò che penso dell’intellettuale. Per me l’intellettuale non è semplicemente un tecnico. Per esempio uno studioso americano che si occupi della bomba atomica non è un intellettuale, bensì ciò che io chiamo un «tecnico del sapere pratico»: diventa un intellettuale nel momento stesso in cui comincia a interrogarsi sull’importanza della bomba atomica e finisce col contestare il lavoro che fa; vale a dire nel momento in cui constata la propria contraddizione, che è quella di servirsi di tecniche che si fondano sull’universale per fini particolari, appartenenti a un gruppo particolare. Egli si trova allora in contraddizione con se stesso: creato per tecniche universali, serve i fini, per esempio, di una borghesia o di una casta che lo utilizzano per i propri interessi. Dunque egli si trova in totale contraddizione con se stesso. Questo è ciò che io chiamo il vecchio intellettuale, quello che si trovava fra il 1930-60. Questo personaggio aveva due difetti: in primo luogo reputava di dover restituire l’universale ovunque apparisse chiaramente che lo si utilizzava per il particolare.

Conseguentemente doveva avvicinarsi alle masse, che rappresentano il vero universale, e alle loro necessità o ai loro bisogni, ma nello stesso tempo egli doveva restare un intellettuale: vale a dire continuava a essere soddisfatto di costituire questa «coscienza infelice», questo rapporto fra l’universale e il particolare che gli consentiva di mantenersi quasi a livello di capo, ossia continuando a essere l’intellettuale che firmava proteste, che promuoveva dibattiti e che poteva prender parte a certe azioni politiche. In defi nitiva era un capo. Egli non riteneva di avere una disposizione innata per essere tale, ma reputava che il suo potere gli venisse dal sapere acquisito e dalla contraddizione che trovava in sé. Inoltre – e questo è il secondo difetto – gli intellettuali costituivano un gruppo particolarmente defi nito, poiché erano tecnici scontenti del lavoro che facevano. Giungevano a considerare la rivoluzione come la dittatura del gruppo intellettuale.

Dopo il ’68, da noi è apparso evidente, ai più giovani, come ci fosse qualcosa di completamente contraddittorio nell’intellettuale, nel senso che egli era partigiano d’azione per un fine universale e, nello stesso tempo, sapeva di essere individualizzato da ciò che gli si domandava a livello statale, a livello della classe privilegiata, ed egli soffriva di questa sua contraddizione, ma eleggeva la sua sofferenza a buona sofferenza: era contento di sé perché trovava che questa contraddizione gli permetteva di mettere a nudo tutte le azioni pretese universali, ma in realtà particolari, intraprese da un governo o da una classe. Ora è evidente per questi giovani che, se la contraddizione dell’intellettuale fosse stata vera, totale, egli avrebbe dovuto sopprimersi in quanto intellettuale; avrebbe cioè dovuto rifiutarsi di mantenere quella contraddizione non necessaria, per vedere ciò che rappresentano le classi, le istituzioni forgiate dalla società civile e dalla società politica. È sufficiente raggiungere le masse per trovare il loro vero scopo, non limitandosi a criticare la classe dirigente, ma entrando nella vita reale e costante che queste conducono contro di essa. Ciò significa che un intellettuale, oggi, dopo il ’68, cosciente della sua contraddizione, deve sopprimersi in quanto intellettuale; il che non significa in quanto tecnico: egli può essere medico o ingegnere, ma deve sopprimersi come intellettuale per raggiungere le masse. Non deve più essere una coscienza tormentata che plana sopra le masse (eravamo tutti così prima del 1968), ma deve essere come uno dei tanti della massa, che ha il proprio mestiere e che esamina i problemi dal punto di vista della «necessità universale», cioè dei bisogni della massa in generale. Gli intellettuali d’oggi affermano: bisogna che ci sopprimiamo in quanto tali. Non vediamo l’intellettuale nello stesso modo. Coloro di cui parlo, coloro che vogliono sopprimersi, capiscono che la contestazione deve essere contemporaneamente globale e particolare.

Ecco il mutamento, che potrebbe essere capitale, che si sta ora verifi cando da noi. Molti giovani, educati per essere tecnici del sapere pratico, a un certo momento hanno smesso di esserlo; sono entrati per esempio, nelle fabbriche, ne les établis, come si dice da noi. Questi intellettuali sono ora degli operai e fanno nello stesso tempo un lavoro politico. Essi hanno dunque certe qualità che acquisiscono durante i loro studi e che possono sempre servire; ma queste qualità non le mettono al di sopra della massa. Ciò dà loro un’occupazione o un lavoro vero e proprio. Essi possono forse redigere meglio una cosa richiesta da un gruppo popolare, ma nell’azione sono eguali agli altri. Nasce allora un problema difficile perché naturalmente la società non ammette questa gente. Si tratta, è evidente, di persone che sono automaticamente dall’altra parte della società. Il che significa la contestazione di tutte le istituzioni, poiché queste istituzioni comprendono proprio l’elemento particolare che conosciamo. Questi giovani sono quindi nell’illegalità, perché contestano contemporaneamente e il tipo di istituzione e tutte le istituzioni formate da una società che usa l’universale come mezzo per soddisfare necessità particolari, e, insieme, essi si negano in quanto intellettuali.

Originariamente l’intellettuale è un prodotto dell’istituzione borghese, ma quando egli giunge a cogliere le sue contraddizioni con forza, non gli resta che una soluzione: gettarsi nell’illegalità, cioè insieme agli altri, gettarsi nel rifiuto e nella contestazione dell’insieme della società che lo ha formato. Ciò presuppone che egli militi per una società in cui l’intellettuale non esisterà più, ma in cui tutti saranno contemporaneamente tecnici del sapere pratico e manuale, per esempio come in Cina: lavorano coi contadini, poi fanno anche un lavoro proprio. È questa, secondo me, la situazione e l’aspirazione degli intellettuali che devono tornare alle masse.

Quindi va da sé che tutto ciò li porta alla contestazione di quanto fa la società nei riguardi dei marginali – prendo questo esempio, ma avrei potuto prenderne altri – e tra questi marginali di coloro che sono chiamati normalmente i pazzi, da una società che si riconosce buona e rifi uta a priori i marginali. Che si può fare se sono rifiutati? Li si mette in prigione per un tempo più o meno lungo. La società che noi vogliamo realizzare è una società in cui non ci saranno emarginati. Non ce ne saranno perché questi marginali sono, in realtà, come gli intellettuali, persone che non si adattano alla società così com’è attualmente. Poiché al giorno d’oggi c’è gente che agisce così, in modo solitario ed è chiaro che li si può chiamare pazzi. Ma in verità si può dire semplicemente che essi sono stati posti in una situazione solitaria e che contestano isolatamente l’insieme sociale, ivi compresa la ragione stessa. Il problema non è dunque l’istituzione della psichiatria (che crea pazzi); il problema è sapere come si possano aiutare nella loro contestazione uomini che contestano da soli, in modo oscuro, complicato, ingarbugliato; come li si possa aiutare a contestare in modo più chiaro. E possibile? È molto diffi cile. È certo, comunque, che la psichiatria è esattamente il contrario di ciò che dovrebbe essere per poter aiutare queste persone.

L’idea stessa della guarigione mi sembra assurda: guarire, in questa società, significa adattare le persone a dei fini che esse rifiutano, significa quindi insegnar loro a non contestare più, adattarle alla società. Questo è stato uno dei grandi torti della psicoanalisi. Evidentemente lo scopo della psicoanalisi è quello di prendere un individuo, che è più o meno ai margini, e adattarlo. Se diventa un buon dirigente o qualche altra cosa, lo si è guarito. Ora, non lo si è guarito affatto, lo si è massacrato. Non è questo il punto. Bisogna cercare in lui, capire la sua contestazione, capire ciò che voleva dire. Per quanto ci riguarda, nel momento stesso in cui neghiamo l’intellettuale, attribuiamo molta importanza alla soppressione di ogni istituzione psichiatrica che parta da principi esattamente opposti a quelli che dovrebbero costituirne la base. Non si prendono mai le persone come individui da considerare in se stessi; si prendono in rapporto a degli schemi: questo è sano, questo è malato eccetera. Tutto ciò non ha alcun significato per noi, e mentre lottiamo contro ogni forma di prigione (il Gruppo d’informazione delle prigioni è un gruppo di intellettuali che si occupano delle carceri e cercano di trasformare il regime carcerario per poterlo sostanzialmente sopprimere in futuro) ci sono persone, che qui in Francia chiamiamo «antipsichiatri», ma il cui fine è esattamente quello cui ho appena accennato: cioè prendere gli individui in quanto tali, il che è una forma dell’universalità (coloro che li criticano credono che sia individualismo; in realtà è una forma di universalismo) e provare a dar loro una forma più sociale di contestazione, senza per altro mutare nulla dell’individuo.

Basaglia
Il tecnico borghese accetta automaticamente la gestione dell’istituzione come una cosa morta, come non fosse possibile ridomandarsi che cosa ne sia il contenuto, o come non dipendesse da lui la definizione che il suo stesso intervento tecnico conferma. Quali sono, secondo lei, i problemi teorici e pratici del tecnico di fronte alla realtà, tenuto conto che la realtà stessa in cui viviamo non è che ideologia?

Sartre
Effettivamente il tecnico ha un’attività pratica ed è circondato dall’ideologia che, d’altra parte, è sostanzialmente in contraddizione con se stessa. Per esempio uno psichiatra, nel momento in cui ha la sua pratica, si trova a contatto diretto con degli emarginati, cioè con quelli che la società chiama pazzi; si trova circondato non solo da un’ideologia, ma da un’istituzione, per esempio l’ospedale psichiatrico, il quale definisce i pazzi (l’istituzione e l’ideologia defi niscono il pazzo): il tecnico pratico non ha per nulla lo stesso rapporto del tecnico. L’uomo che vede, che cura, non ha alcun rapporto con il tecnico teorico. Finché non avrà rinunciato a questo tipo di istituzione, sarà costretto a continuare ad applicarla; sarà medico di un ospedale psichiatrico e gli si dirà: ciò che si deve fare, si deve fare: sta scritto. Si tratta contemporaneamente dell’istituzione e dell’ideologia, essendo l’ideologia nient’altro che la traduzione a livello diverso dell’istituzione. A questo punto, in quanto pratico, egli si trova in conflitto con una concezione che è semplicemente quella della classe dominante. Ma essa si trasferisce anche nelle classi contestatrici, poiché tutto ciò che noi diciamo sarà necessario spiegarlo alle masse perché capiscano: anch’esse sono abituate a pensare che un pazzo è un pazzo: la classe dominante ha dato loro la sua ideologia a questo proposito.

Allo stesso modo si incontrano delle difficoltà, per esempio, nella verità pratica delle carceri: c’è l’ideologia (si punisce) e poi c’è la verità (i detenuti subiscono una punizione diversa da quella che è stata loro infl itta). Non si pone neppure il problema se si ha il diritto di punire e in quale modo. Ma se si condanna un uomo a quattro anni di galera, teoricamente, nello spirito del giudice si tratta di quattro anni di isolamento in una camera con del cibo e basta. In realtà signifi ca metterlo all’inferno, perché c’è gente che ha paura di lui, che lo picchia o lo tortura: una costante tentazione al suicidio (ha visto che ci sono uno o due suicidi al giorno, attualmente?) Questa è la verità. Non si potrebbe mai supporre che un giudice che dà quattro anni di galera a un colpevole, lo condanni per quattro anni a essere picchiato, torturato e messo in condizioni di tentare il suicidio. C’è qui una contraddizione profonda: da un lato l’uomo del potere e dall’altro l’uomo del potere pratico, il direttore della prigione, il guardiano, i quali vedono che in pratica non è così. Essi si schierano dalla parte del tecnico ed è questo che porta ai suicidi, alle rivolte o alle torture. Anche qui è chiaro che la verità pratica è diversa da quella ideologica. Un’ideologia esce dalla pratica ed è esattamente quella che noi dobbiamo mettere a punto oggi. Però non sono gli intellettuali che devono fare questo, ma l’insieme delle persone.

Basaglia
È questo il problema. Si tratta della costruzione di un’alternativa pratica che non risponda più ai bisogni di chi la crea, ma a quelli per cui sarebbe formalmente creata. Occorre agire direttamente nella situazione, per arrivare a comprendere quali siano i bisogni cui si dovrebbe rispondere. Bisogna cioè costruire assieme agli altri, al malato, al carcerato, a chi abitualmente è oggetto di oppressione e di manipolazione da parte di una classe, anche attraverso la scienza e la tecnica, uno strumento capace di rispondere praticamente ai bisogni, opponendosi alla strumentalizzazione che traduce la scienza in uno dei mezzi di oppressione di classe.

Print Friendly, PDF & Email
Close