L’Esquilino, tra decoro, diffide e diritto alla città

È sempre difficile riflettere e discutere sulla città, sulle porzioni dell’urbano, dei panorami sociali e delle vite che li abitano, sulle forme plurali assunte dalle infinite epifanie della crisi delle società neoliberali, caratterizzate dalla contrazione degli investimenti pubblici e dal ritiro nel governo degli interventi urbanistici e sociali. Le misure adottate finora per affrontare la crisi pandemica hanno riconfigurato profondamente mobilità e socialità, tempi e spazi di ogni sfera di vita, anche per l’esplosione del lavoro digitale.
Coinvolgendo in modo diversificato settori economici e categorie sociali, gli effetti del Covid-19 si sono abbattuti ovunque; a Roma, soprattutto, sulla filiera del turismo e del commercio. Molte figure, anche di ceto medio e alto, sono state trascinate dai processi di impoverimento. Aumenta il divario sociale: il risparmio privato e delle imprese tende a crescere, con l’incremento per estensione e profondità della fragilizzazione degli strati meno protetti e “ristorati”. Confermata dagli asettici dati della Banca d’Italia, del Cnel, ddell’Istat, del Censis-Confcooperative e di Asvis, così come da quelli, più densi, provenienti da enti di terzo settore come Msf, Caritas, Intersos, ActionAid e dalle organizzazioni che operano nell’intervento di strada di primo aiuto (salute, cibo, vestiario, ricovero) e di secondo livello (accoglienza in strutture e presa in carico personalizzate).
Ai tempi del Covid, all’Esquilino, il crollo dell’economia del consumo di esperienze della città culturale, e tutto l’esteso indotto, ha messo in crisi l’intero sistema basato sull’estrattivismo turistico, compromettendone l’industria, la connessa rendita immobiliare e finanziaria, travolgendo persino quelle forme molecolari di imprese familiari – grigie e informali, migranti ed autoctone – dei servizi turistici (Airbnb, B&B). Nella città globale dei flussi, l’esposizione alla fragilità ha coinvolto, drammaticamente, soprattutto le famiglie – giovani, bianche e colorate – dei lavoratori precari. Quelli delle 5P: negli impieghi poveri, pericolosi, poco remunerati, poco dignitosi e tutelati.
La componente residente, in prevalenza proprietaria, dei Professionals, dei colletti bianchi delle burocrazie e dei pensionati affluenti ha, invece, subìto ingiurie di natura prevalentemente psicosociale: l’insicurezza sanitaria si è associata all’effetto di mutilazione relazionale e simbolica, per la ridotta agibilità del tempo e dello spazio, per la brusca frizione al movimento che impedisce l’accesso, normale, ai consumi di status, ma anche per la percezione distorta della insicurezza e per le visioni estetizzanti dell’ambiente e della sua cura che ne sono conseguite.
L’intero quadrante urbano (esquilino-termini-castro pretorio) evacuato dalle presenze turistiche, commerciali e produttive, è rimasto popolato dalle vite di scarto – nella sola caput mundi si stimano oltre 20mila sfd – che la società incessantemente produce e stigmatizza. Vite senza risorse: casa, lavoro, diritti, ma anche relazioni, status, equilibri e capacità di presa su sé e sul mondo. Tra queste, le vite illegalizzate perché prive di residenza; l’istituto giuridico che, anziché garantire l’accesso ai diritti sociali, svela l’intima natura di strumento di controllo e disciplinamento sociale. Le vite indecenti delle e dei sexworkers, che esibiscono identità incerte e posture scabrose. Le vite indecorose di sbandati e homeless, che trascinano le proprie esistenze per strada ri-configurando la presenza dell’esercito di poveri che non elemosinano con composta sottomissione devozionale all’uscita delle chiese. Le vite indesiderabili dei senzalavoro di vecchia e nuova generazione, estromessi – a seguito del covid-19 – dai lavori di cura nei contesti domestici o nel piccolo commercio, improvvisamente senza reddito, domicilio e protezioni, che, rigettati nella miseria, non hanno altrove.
La seconda ondata pandemica, il freddo, l’assenza colpevole del piano cittadino e il perdurare della crisi hanno fatto tracimare ogni diga percettiva anche a fronte di un numero contenuto di senza fissa dimora.
Gli eccessi di presenza si localizzavano un po’ ovunque, nella capitale della cristianità crescevano i morti di stenti. Dieci, dodici senza nome. Montava però, sui canali social e sulle pagine della stampa locale, l’indignazione e la rabbia dei residenti “legittimi”, che per ottenere la cura dei portici di Piazza Vittorio, delle aree pubbliche vicinali e di chi quell’area la abita, domandano decoro e sicurezza ai poteri territoriali.
Nel quadro della società neoliberale che negli ultimi decenni ha visto la perdita delle funzioni di governo e di rilievo dello spazio pubblico come sede degli investimenti collettivi e sviluppo del bene comune, gli spazi sono caratterizzati dall’articolazione tra forme di selezione e securizzazione implicite ed esplicite, basate sul controllo civico e poliziesco, ossia su parole d’“ordine” come decoro e sicurezza. Un processo che si sta configurando come l’effetto di spazializzazione di un doppio standard di cittadinanza urbana, che tende a segregare ed espellere le persone sulla base del censo e, frequentemente, della differenza culturale.
Eppure, la macchina della solidarietà alimentare, tra poco pubblico e molto privato sociale, all’Esquilino, così come in molte altre zone di Roma, si è mossa. Tra assessorato alle Politiche Sociali e Terzo settore qualche risposta emergenziale ai senza dimora si è data. La congiuntura economico-sociale che stiamo affrontando e le ingenti risorse rese disponibili dall’Europa ci obbligano però a cercare soluzioni altre. La cura di sé, degli altri e dei contesti di vita diventano temi imprescindibilmente interrelati: è giunto il tempo, davvero, di agire pratiche nuove di cittadinanza sociale, perché nessuno si salva da solo.

Come si produce un luogo. L’Esquilino tra retoriche antidegrado e pratiche securitarie.
Piazza Vittorio (recentemente restituita ad un uso selettivo e regolato) e i suoi Portici (proprietà dei condomini, ma di uso pubblico) ritornano al centro di un dibattito più che trentennale che, seppur molto localizzato, mette a tema la natura intimamente politica e, dunque, negoziale dello spazio urbano, delle domande di città.
La Diffida, recentemente indirizzata agli organi di governo locale, alle forze dell’ordine, Asl e Ama, in questo contesto problematico – tra crisi e incuria, misure tardive e insufficienti, perlopiù demandate al privato sociale – si configura come un dispositivo micropolitico: una operazione, promossa dal protagonismo civico e sostenuta dall’azione di molti comitati di quartiere, finalizzata non solo al ripristino del diritto di godimento pieno della proprietà, ma tendente alla rivendicazione della cura dello spazio di vita urbano e alle sue plurali qualità.
L’operazione, tuttavia, neanche velatamente, esprime una postura basata sul valore del decoro, orientata alla regolazione sociale e al controllo della popolazione e delle relazioni negli interstizi della vita quotidiana. Nei confronti di soggetti inferiorizzati e di pratiche spaziali considerate degradanti, indecorose e pericolose, il testo della Diffida – un atto legale, sottoscritto da oltre 600 residenti e domiciliati all’Esquilino (tra cui il regista Paolo Sorrentino) – dà forma all’insieme di paure e timori nei confronti degli abitanti non-legittimi e degli usi impropri del territorio. Un’azione legale e comunicativa tesa a riconquistare il ripristino del diritto alla qualità della vita urbana e al godimento pieno della proprietà privata che, pur intervenendo su alcuni problemi concreti, non appare in grado di abilitare visioni critiche sulle trasformazioni dell’urbano contemporaneo, né processi di partecipazione collettiva orientati alla ricostruzione del legame sociale e allo sviluppo del potenziale d’innovazione e di progettualità per l’assenza di spazi comuni di partecipazione e condivisione. Ha, inoltre, innescato dei contro appelli.
Il residente tra rappresentazione dell’alterità e domanda di città
Il dispositivo, agendo il piano legale della Diffida nei confronti dei poteri di governo del territorio e richiamando l’istituito giuridico della proprietà privata, assegna una precisa postura politica a quel protagonismo civico e proprietario che incide significativamente nella costruzione materiale, relazionale e simbolica del luogo ma che, tuttavia, necessita di mettere a tema visioni nuove della cura dei luoghi e delle relazioni sociospaziali nei contesti urbani delle post-metropoli contemporanee.
Il richiamo legale all’azione di controllo del decoro e del pericolo (anche sanitario) si configura come richiesta di una risposta securitaria e qualificante che, tuttavia, sembra schermarsi dietro l’appello all’intervento umanitario invocato ai responsabili territoriali delle politiche sociali, oggi, a causa dei vincoli di bilancio, demandato soprattutto alle attività filantropiche del Terzo settore. La domanda di restituzione ai cittadini residenti e domiciliati nei signorili palazzi dei portici di Piazza Vittorio evidenzia, accanto alla sfumata coniugazione della qualità della vita, considerata sottratta e costantemente ritenuta esposta alla violazione e alla minaccia, la specifica declinazione dell’azione politica sugli organi di governo (vie legali e uso della comunicazione) per rivendicare il (proprio) diritto alla città museificata.
Si invocano l’accrescimento della presenza stabile degli operatori della polizia – applicando i Regolamenti di polizia urbana, richiamando il Patto per la Sicurezza Urbana e facendo ricorso alle nuove ordinanze – e degli interventi speciali degli operatori della pulizia (Ama), con l’inasprimento delle procedure di controllo e la rimozione sistematica dei senza fissa dimora, l’applicazione dei meccanismi di sanzione e allontanamento previsti dal famigerato decreto Minniti-Orlando e ripreso da molte amministrazioni comunali, dalla sindaca di Roma e, più recentemente, tornati alla cronaca a Vicenza, Pisa, Torino.

Nei confronti di soggetti poveri, migranti e autoctoni, accomunati dall’appartenenza alla variegata categoria dei soggetti marginali, devianti e ‘non-integrabili’, si scatena il rancore proprietario del ceto medio, cui la stampa cittadina e nazionale, e il circolo politico-mediatico, ha dato ampia eco (anche critica).
Il timore per la riduzione del valore del patrimonio immobiliare e del potenziale economico delle aree commerciali (talvolta espresso chiaramente nelle svariate chat sul rione esquilino) si connette alle forme del disagio spaziale percepito dai diffidanti che richiedono il ripristino di ordine, decoro, vivibilità, pulizia. Per loro una mutilazione anche simbolica per la violazione dei tratti distintivi del luogo connessi allo status di residenza. L’identificazione con il luogo di pregio consente, infatti, l’attribuzione di valore al sé, riconoscendosi anche attraverso il prestigio attribuito alle dimensioni materiali e simboliche del risiedervi.
I conflitti che si esprimono tra le diverse domande di città si estrinsecano anche nei tentativi di preservarne lo status e l’incolumità, segno distintivo di esclusività. Ma all’Esquilino, inteso come zona urbanistica e come rione, le forme della segregazione, che non sono un prodotto autonomo, né l’effetto emergente dall’esercizio di forze eteronome, possono solo essere re-inventate dispiegando politiche di identità re-indigenizzate.
L’analisi della prosa legale della Diffida appare utile per osservare la declinazione, le genealogie e gli intrecci degli ordini discorsivi mobilitati. Il richiamo al principio proprietario e alle risorse legali che abilita per la sua tutela mostrano chi e come è in grado di mobilitare le forze che presidiano il controllo del decoro urbano, l’ordinamento delle pratiche dei luoghi e del governo delle condotte (ordine, sicurezza, civiltà, incuria, degrado). Forze e regimi discorsivi, intesi come forme di sapere-potere (l’avvocato e la diffida), che riaffermano la domanda legittima di città, poiché inscritta nel perimetro della cittadinanza proprietaria, mentre opacizzano gli assetti societari escludenti e gerarchizzati e le altre forme di presa di parola collettiva e pubblica sull’urbano contemporaneo. Il testo della Diffida, interpellato sul tale doppio livello di lettura, rappresenta efficacemente la costruzione del Noi e degli Altri, rimuovendo ogni contesto sociale (la produzione di disuguaglianze, i regimi di mobilità umana, i processi di inclusione differenziale, le relazioni asimmetriche e le gerarchie simboliche tra soggetti e gruppi).
Il richiamo alle categorie di decoro e sicurezza, per quanto schermate dall’umanitarismo filantropico (molti residenti sono attivi da tempo in azioni di aiuto di strada), abilita posture proprietarie che sono ormai divenute senso comune. Costituitesi come retorica e ideologia (si vedano i contributi critici di Montesano, Raimo e Mammarella), mobilitate dalle forze politiche e culturali più retrive, vi è il rischio concreto che siano rinsaldate in visioni neo-indigene, basate sul meccanismo di identificazione culturalista al luogo (place identification) che, alludendo a quelle più ciniche e sovraniste della “Fortezza Esquilina”, possono persino abilitare regimi discorsivi che promuovono la rimozione degli indesiderabili e la loro dislocazione – nimby: non nel mio giardino – nei centri della Croce Rossa, fuori dal salotto buono della città museificata. Al momento ci inquietano, oltremodo, gli esiti polizieschi agiti attraverso il racial profiling e il rinnovato tentativo escludente che già si era mostrato nei confronti dell’uso didattico dello spazio urbano da parte di una scolaresca in attività fuori porta per il Covid.
Nel contesto delle crisi dell’urbano, dei soggetti sociali più svantaggiati che lo abitano e della partecipazione politica, bisogna guadagnare posture che disarmino le chiusure egoistiche ed identitarie e realizzare pratiche solidali e inclusive, le uniche in grado di generare benessere per tutti e consolidare aspettative di fiducia e reciprocità.