Una riflessione su cosa significhi prevenire il rischio in Italia. Note a margine sul nuovo Rapporto sullo stato del rischio nel territorio italiano 2017.
Nelle scorse settimane abbiamo pubblicato la traduzione italiana di un articolo di Ilan Kelman, Reader in Disaster Risk Reduction allo UCL, che puntualizzava come i disastri non accadano per cause naturali ma avvengano soprattutto a causa di diversi tipi di vulnerabilità legati a componenti umane, sociali e politiche che, in seguito a terremoti, alluvioni o fenomeni analoghi, espongono a conseguenze maggiori le persone o i gruppi sociali più marginali. L’intenzione era quella di contribuire a una riflessione sulla vulnerabilità in Italia, recuperando la centralità delle dinamiche umane, sociali e politiche nel dibattito sulla riduzione del rischio, esulando dall’uso esclusivo di soluzioni tecniche e tecnocratiche che mirino a controllare i fenomeni naturali1.
Lo scorso 30 ottobre, invece, il Cresme ha pubblicato il Rapporto sullo stato del rischio nel territorio italiano 2017, realizzato con il Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori. Il contributo lascia perplessi proprio perché va in direzione opposta rispetto a quella menzionata. I suoi contenuti, infatti, presentano una definizione di rischio completamente appiattita nelle sue variabili naturali, dimenticando invece i temi della vulnerabilità e riducendo la complessità del contesto sociale e politico nel quale il rischio si genera, si plasma e si riproduce. È dunque opportuno riflettere sui contenuti proposti in questo rapporto per sgombrare il campo da analisi equivoche e parziali.
Il rapporto parte dalla considerazione che
ciò che [in Italia, ndr] non è mai stato analizzato è come la combinazione del rischio ricada sui territori (p. 2)
e viene considerato come
un primo tentativo per individuare in quali Comuni d’Italia si concentrano i pericoli di origine naturale, valutando il rischio in funzione della popolazione esposta (p. 2).
In sostanza, il rapporto mira a valutare il rischio sulla base della popolazione esposta a un determinato pericolo.
È poco chiaro, però, cosa intendano gli autori del rapporto come “rischio”, talvolta declinato con l’insolita accezione di “rischio naturale”. Nella sua accezione più semplice, il rischio è definito come il risultato dell’interazione fra ciò che in inglese viene definito hazard (la probabilità che si verifichi un dato evento) e ciò che viene definito come vulnerabilità, ovvero l’insieme di caratteristiche riferibili a persone e gruppi sociali/umani che in un determinato contesto influenzano le capacità di anticipare, affrontare, resistere o riprendersi dall’impatto di un pericolo naturale2.
È infatti chiaro da oltre 40 anni3 che, nonostante l’uso ancora molto in voga oggi dell’espressione “disastro naturale”, i disastri non abbiano nulla di naturale4. I disastri sono dei processi – lenti o repentini – che si situano nell’intersezione fra “natura e società”, risultanti dell’interazione tra un agente distruttivo (come un terremoto, uno tsunami, un uragano o una pioggia torrenziale) e il contesto socio-culturale e ambientale su cui esso impatta. Immaginiamo un terremoto in un deserto: può essere considerato un disastro? O un uragano in mare aperto senza nessuno ad assistervi? Ovviamente occorrerebbe analizzare quali conseguenze eco-sistemiche i suddetti terremoti e uragani provochino. In ogni caso, è la presenza di variabili umane che interagiscono con un processo naturale a creare il disastro, manifestandosi esattamente «nel punto di connessione tra società, tecnologia ed ambiente, all’intersezione della pratica umana e della materialità ambientale»5. Inoltre, i processi che alterano gli elementi naturali sono spesso peggiorati o prodotti dall’uomo: pensiamo all’immissione di inquinanti nel suolo e nelle acque o alla distruzione di versanti, o a case costruite senza criteri antisismici o troppo vicine a un fiume. In questo senso, è come se la natura facesse semplicemente il suo lavoro: è l’uomo che, con la sua presenza, contribuisce, con azioni o valutazioni poco ponderate e irrispettose, a esacerbare il potenziale di un evento naturale.
Ed è proprio la presenza di elementi o relazioni antropiche a definire o meno l’esistenza di un rischio, laddove i danni agli ecosistemi naturali si riverberano sulle società umane. La pericolosità, al contrario, è solamente una delle tre componenti del rischio.
Quando si parla di rischio, pertanto, è essenziale parlare delle varie forme di vulnerabilità. Fattori preponderanti nella creazione del rischio sono legati alle diseguaglianze perpetrate in base a reddito, età, genere, etnia, religione, classe sociale, condizione lavorativa, dis(abilità). Austerity, neocolonialismo, eteronormatività e inquinamento generano, producono, ed esacerbano le vulnerabilità fisiche e sociali, individuali e collettive. Come hanno ad esempio dimostrato recenti lavori sull’Italia6, queste caratteristiche contribuiscono in maniera decisiva a esacerbare le conseguenze di un evento naturale e della sua gestione in ogni cosiddetta fase del “disastro”, dalla prevenzione, all’emergenza al ripristino/ricostruzione alla preparazione al “disastro” successivo.
Per restare su alcuni casi italiani, recenti ricerche hanno dimostrato come la gestione del post-sisma aquilano abbia alimentato processi di dispersione urbana che hanno agito come acceleratori di vulnerabilità. Allo stesso modo, a Mirandola (nelle aree colpite dal sisma emiliano del 2012) è stato evidenziato dai ricercatori Fabio Carnelli e Ivan Frigerio7 come i migranti siano stati quelli più “colpiti” (in termini di danno e di assistenza) sia dal sisma sia dalla gestione dello stesso, vittime e non complici di un circolo vizioso di vulnerabilità. Inoltre, Ivan Frigerio e Mattia De Amicis8 hanno recentemente realizzato delle carte che identificano l’interazione tra pericolosità e vulnerabilità in vari scenari di rischio su tutto il territorio italiano. Questi scenari, come ben sottolineato dal sociologo Davide Olori9, si sono generati e sviluppati nel corso dei decenni sia sulla base di condizioni (sociali, economiche, ecc.) individuali e collettive pre-esistenti rispetto al disastro, sia sugli interventi delle politiche pubbliche, delle decisioni comunitarie e delle soggettivazioni politiche emergenti, delle mutevoli condizioni socio-spaziali e produttive che hanno luogo durante e dopo il disastro.
Il rischio, insomma, affonda a piene mani nei problemi strutturali delle società, e le soluzioni non vanno affatto ricercate esclusivamente nella riduzione della pericolosità. Contenuti come quelli proposti nel rapporto, invece, negano pericolosamente tutto questo, appiattiscono e banalizzano la complessità e minimizzano i fattori sociali. Milioni di piccoli e grandi disastri, di morti, e di danni economici e sociali hanno purtroppo dimostrato come tali questioni debbano essere inserite in riflessioni più ampie sulle disuguaglianze strutturali sociali, ambientali e spaziali che esistono sia tra i cittadini che tra i territori, sull’accesso a risorse e reddito, sulla necessità di servizi pubblici presenti ed efficienti, su discriminazione e marginalità.
Nel rapporto, invece, il rischio viene identificato sulla base della “classificazione comunale” come
il prodotto della combinazione delle quattro componenti dell’esposizione al rischio ovvero la quota di superficie esposta a rischio frana, alluvione e sismico, numero di eventi con danni diretti alle persone, popolazione esposta al rischio naturale sia in termini assoluti che rispetto ai residenti in ciascun comune (p. 7).
Da tale prodotto si elaborano poi delle carte che calcolano «i componenti dell’indicatore di rischio naturale» classificando il territorio italiano da un rischio minimo a uno massimo (cartografie a pag. 8 e 9). Nel rapporto in alcuni casi si utilizzano addirittura in maniera intercambiabile i termini pericolosità e rischio. La carta a pagina 6 calcola l’«indice di pericolosità naturale dei comuni italiani nel 2017» con una legenda che indica «indici di rischio naturale 2017» indicando pertanto il tutto (il rischio) con una parte di esso (la pericolosità).
La confusione generata nel rapporto è proprio dovuta all’appiattimento e alla semplificazione fornita del concetto di rischio, senza mai menzionare la componente essenziale della vulnerabilità. Il rapporto, pertanto, contribuisce a riprodurre narrazioni distorte e scientemente incomplete che dialogano con le istituzioni, circolano tra professionisti, hanno dirette conseguenze sui Comuni, diventano terreno fertile per azioni (o inazioni) istituzionali. Si producono in questo modo ulteriori “tossine” che, invece di diminuire il rischio, riproducono uno status quo che alimenta discriminazioni e scarica responsabilità sui cittadini, deresponsabilizzando invece le istituzioni che dovrebbero mettere in atto strategie e risorse verso una società più equa.
Il rapporto conclude dicendo che
[l]a necessità di una attenta politica di manutenzione del territorio è una questione centrale per lo sviluppo del paese, il territorio in se stesso è la principale infrastruttura del paese. Il tema della sicurezza dell’abitare è uno dei temi centrali sui quali concentrare l’azione. Gli sforzi sino ad oggi svolti individuano l’importanza del tema, ma la risposta tecnico-operativa sul campo resta particolarmente debole (p. 11).
Se una politica di manutenzione del territorio è essenziale e urgente per la riduzione del rischio, occorre affrontare in maniera parallela il rischio alla luce dei processi di vulnerabilizzazione esistenti e in atto a tutti i livelli, dalla dimensione individuale a quella collettiva, dal sapere scientifico a quello tecnico, dalla giurisprudenza e dalla comunicazione pubblica e istituzionale al tessuto edilizio alle relazioni urbane, dai processi educativi alle politiche, dalla comunicazione alla partecipazione per condividere il rischio come processo culturale in un’arena dialettica di significati e pratiche10.
Il rapporto, in conclusione, aggiunge pericolosamente ulteriore confusione concettuale su questi temi in Italia. Una confusione imperante da decenni, dovuta dapprima (scientemente) alle negligenze istituzionali e in seguito anche ai professionisti del rischio, col rischio che queste letture parziali e confuse possano proprio alimentare vulnerabilità a vari livelli.
Bibliografia
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Fabio Carnelli & Stefano Ventura (2015). Oltre il rischio sismico. Valutare, comunicare e decidere oggi, Carocci: Roma.
Ksenia Chmutina, Jason von Meding, JC Gaillard, Lee Bosher, Why natural disasters aren’t all that natural, Opendemocracy.net.
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Ivan Frigerio & Mattia De Amicis (2016) Mapping social vulnerability to natural hazards in Italy: A suitable tool for risk mitigation strategies, Environmental Science & Policy, 63:187-196.
Giovanni Gugg (2017) La cima della montagna ha fatto un fumo molto caliginoso. Analisi dei disastrosi incendi dell’estate 2017 sul Vesuvio (seconda parte), il lavoro culturale.
Susanna Hoffman & Anthony-Oliver Smith (2002). Eds. Catastrophe and culture. The Anthropology of Disaster, SAR Press: Santa Fe.
Ilan Kelman (2017). Non prendiamocela con il cambiamento climatico per le devastazioni di Harvey, ma con la società, il lavoro culturale.
Fausto Marincioni (2015). Riduzione del rischio disastri: l’immancabile ruolo della geografia, Rivista Geografica Italiana, 122, pp. 143-150.
Alfredo Mela, Silvia Mugnano, Davide Olori (2016). Territori Vulnerabili. Verso una nuova sociologia dei disastri italiana, Franco Angeli: Milano.
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Davide Olori (2016). Ricerca qualitativa, vulnerabilità e disastri. Note metodologiche. In: Saitta P. (a cura di) Fukushima, Concordia e altre macerie. Vita quotidiana, resistenza e gestione del disastro, 109-118. Editpress.
Davide Olori & Enrico Ciccozzi (2016). L’Aquila città in frantumi: la ricostruzione come acceleratore delle dinamiche socio-spaziali. In M. Castrignanò & A. Landi, La città e le sfide ambientali globali, Franco Angeli: Milano.
Ben Wisner (2016). Vulnerability as Concept, Model, Metric, and Tool. Natural Hazard Science: Oxford Research Encyclopedias.
Note
- cfr. Marincioni 2015
- Cfr. Wisner 2016
- cfr. O’Keefe et al. 1976
- Cfr. Chmutina et al., 2017
- Cfr. Gugg 2017
- Cfr. Carnelli & Frigerio 2016, Frigerio & De Amicis 2016; Frigerio et al. 2016, Mela et al. 2016; Olori & Ciccozzi 2016
- Cfr. Carnelli&Frigerio 2016
- Cfr. Frigerio & De Amicis 2016; Frigerio et al. 2016a; 2016b
- Cfr. cfr. Olori 2016
- Carnelli e Ventura 2015