Corte dei miracoli, Siena. Alberto Prunetti racconta cosa accade ad uno dei luoghi della cultura, della musica e dell’impegno sociale della città. Una storia che in forme diverse riguarda tutto il Paese, attraversato da una riflessione sugli spazi culturali e sui progetti costituenti nel quadro dei beni comuni.
La Corte dei miracoli è uno spazio gestito da un’associazione culturale senese che negli anni ha tenuto vivo il lavoro culturale nella città toscana. Un vero faro per gli studenti fuori sede, gli attivisti, il mondo del volontariato. La struttura appartiene all’Asl, dal momento che un tempo era parte dell’ospedale psichiatrico. L’Asl sta negoziando il passaggio di consegne della struttura al Comune di Siena. Lo scorso dicembre gli attivisti culturali hanno lasciato l’edificio, su richiesta di Asl e Comune, per facilitare le procedure. Il rientro sembrava una questione di poche settimane ma i tempi si stanno allungando, in attesa di un accordo tra i due enti.
A Siena ho trovato chiusa la Corte dei miracoli e non so dove sbattere la testa. Non vado nei pub, non frequento i grandi eventi culturali, non guardo la tv. In via Pantaneto, descritta un tempo dai giornali locali come un ghetto di marginali, sfilano pochi frettolosi passanti. Non succede nulla, non s’incontra nessuno nei paraggi, in un giorno feriale d’inverno, dopo le 19 di sera.
Vedo di solito tracce di umani in fondo a via Roma, nella piazzetta antistante l’entrata dell’ex Ospedale psichiatrico. Vanno alla Corte dei miracoli. Ma dovrei dire che ci andavano. Perché la Corte, nel passaggio di carte tra l’Asl, proprietaria dell’immobile e il Comune, non c’è più. Pare che i due enti non trovino un accordo per l’affitto. Così, per ora, niente Corte e niente miracoli.
Niente Corte e poca gente anche davanti alle biblioteche universitarie. Quando frequentavo io quella di Lettere, era un formicolio di voci, sigarette e proclami. Oggi silenzio. Gli studenti rincorrono gli esami. Le strade si svuotano. La città diventa evanescente. Il palio è lontano. Fa freddo. Le persone, sempre più isolate, rincorrono relazioni sui social. Non serve neanche uscire di casa.
La Corte, la Corte era un posto di relazioni non mediate. Non era come andare a teatro, dove sei spettatore di un evento già strutturato. Lì eravamo tutti protagonisti: saltavi sul palco, dietro le quinte, oggi spettatore, domani interprete. Oggi corsista, domani attore. E poi faceva caldo. Caldo di calore umano. Di relazioni, di incontri. Di sguardi non virtuali. Di bozze di spettacoli, di mixer, di prove di suoni interrotte da uno che aveva bisogno di una mano in cucina.
Ho presentato qui il primo libro che ho scritto, nel 2004. Proprio nella città in cui avevo studiato, da studente fuori sede. Tredici anni fa. Un’eternità. Avevo quasi timore di parlare in pubblico. Non mi immaginavo allora che mi sarebbe capitato di fare anche più di 100 presentazioni in trenta mesi, in tutta Italia, attraversando lo stivale nei vari luoghi in cui si fa cultura. Centri sociali, aggregatori di associazioni, reti sociali in cui si cerca, al di fuori dei palazzi e delle istituzioni, di fare cultura dal basso, di creare un immaginario per società più aperte, senza i formalismi della cultura istituzionalizzata, dove paghi un biglietto, ascolti il grande interprete e poi te ne torni, da spettatore, a casa tua. Dove sei un cliente più che un cittadino.
Proprio come a Siena facevano alla Corte.
Ma oggi la Corte non c’è più. Fino all’ultimo ho sognato di ritrovarla aperta a gennaio.
A dicembre sono stato invitato a parlare di un mio libro a Napoli, all’ex Opg Je so’ Pazzo del rione Materdei. Una struttura enorme, un ospedale psichiatrico che sembra il gemello della Corte dei miracoli. Una biblioteca popolare, una camera del lavoro, uno sportello migranti, un doposcuola, una scuola di lingua, un asilo, una palestra popolare, un teatro.
Proprio come alla Corte di Siena.
Tutti questi laboratori ospitati in una struttura pensata non per liberare ma per opprimere, un manicomio. Mura inquietanti, ancora più tragiche di quelle della struttura senese, al confronto una struttura riformista, coi suoi padiglioni e gli orti e gli spazi per le passeggiate. Mura pensate per contenere il disagio sociale, aperte prima dalla legge Basaglia, poi dall’attivismo volontario di giovani, di attivisti e volontari.
Proprio come a Siena.
Ho detto ai ragazzi napoletani che dovevano trovare delle sinergie coi loro omologhi senesi Due posti così simili, con reti di attivismo che in queste stagioni di gelo e di passioni tristi tengono aperte le porte delle città e aprono i cuori alle differenze.
Ero ottimista e pensavo che la Corte avrebbe presto riaperto i battenti.
Pare non sia così.
Purtroppo la realtà napoletana aveva delle differenze sostanziali. Quando ho chiesto ai ragazzi dell’ex OPG quanto pagassero di canone di affitto sono caduti dalle nuvole. Sulla base di una delibera sui beni comuni, il municipio di Napoli ha assegnato l’uso della struttura a titolo gratuito a una rete di attivisti culturali. Non pagano niente, perché quel posto è stato dichiarato un bene comune al servizio della città.
Non è così anche a Siena?, mi han chiesto.
No, non è così, a quanto pare.
A meno che non si possa pensare a un vero miracolo. Dimenticare gli affari. Evitare di fare cassa. Dichiarare la Corte un bene comune della città. E affidarne l’uso all’associazione che per tanti lustri ha realizzato progetti culturali spontanei, lontani dal marketing culturale dei grandi eventi. Facendo della Corte dei miracoli un bene comune e un cantiere aperto per la città.
A Napoli l’hanno già fatto.
Vorrei poter scrivere: “Proprio come a Siena”.
Alberto Prunetti ha scritto su «Repubblica» edizione toscana e «Il Manifesto». È autore di Amianto, una storia operaia, Alegre edizioni, opera segnalata al Premio Campiello 2013, finalista Premio Chianti Narrativa, premio Scrittore toscano dell’anno 2013, premio Città di Siena 2016.